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Opere buone

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L'ultima primavera Italia e poesia

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Opere buone

In mezzo a tanta faraggine di produzione letteraria scipita o dannosa — e, in un’altra categoria insufficiente o pedante, alleggerisce proprio l’anima, d’imbattersi in qualche volumetto nel quale l’intento di giovare sia vero e serio come il valore dell’opera: nel quale si trovi un ingegno che rinunzia a qualche pompa di vanità più effimera ma più abbagliante, a qualche soddisfazione più egoistica e più intera, per immedesimarsi nel pensiero di qualche grande e farlo scintillare nella luce più chiara e divulgarlo come un verbo di bellezza pel mondo. Sono apostoli dell’arte, nelle loro rinunzie, nel loro ardore, nella loro fede. Fra costoro stanno i traduttori valenti com’era il Maffei, come è ora il Sanfelice per lo Shelley, il de Gubernatis e il Pizzi per le letterature orientali; i ricostruttori del passato come il Ricci, il Masi, e così via.

Ci sono gli studi danteschi. Mai, s’è detto, il nostro maggior poeta è stato più letto, più studiato, più commentato che nel nostro secolo che conta della Divina Commedia il maggior numero d’edizioni: ed, oltre gl’innumerevoli studi, giornali e pubblicazioni speciali.

Eppure a nessuno, con tanto «divenir macri» alla nostra volta per intender ciò su cui il poeta af[p. 162 modifica]faticava la sua poderosa mente — a nessuno era venuta finora l’idea che la maniera più acconcia e più semplice per rendere accessibile il gran lavoro, era di ricomporlo coi suoi stessi elementi nella prosa — farne una vasta leggenda, una magnifica fiaba per il popolo e per i ragazzi e per i profani, per invogliare intanto questa gente, per darle adito, se può e vuole, a ricercare da sè le bellezze adamantine di cui ha visto sfavillare una sfaccettatura. Quando la fantasia, la curiosità son deste, la ricerca è più naturale e più dilettosa; e quando si trova in bell’ordine chiaro ed armonico l’esatta esposizione dei concetti, molta parte della difficoltà è rimossa e vinta. Il filo d’Arianna di questa lucente prosa ci guiderà attraverso i laberinti della poesia.

L’idea era semplice e ingegnosa. Una specie dell’uovo di Colombo. Come mai nessuno ci aveva pensato prima? Ma il difficile è appunto questo: pensarci.

Il professore Agostino Capovilla, a cui balenò la felice idea, ce la presenta ora incarnata nell’operetta geniale e buona sotto un titolo e in un’edizione che rivelano il generoso intento di farne partecipi tutti.1 Egli scrive nella modesta prefazione:

«Benchè la Divina commedia sia dichiarata il nostro poema nazionale, la Bibbia degli Italiani, gli italiani però — fatta eccezione dei dotti e dei letterati — o la conoscono per averne sentito parlare o ne hanno letto appena alcuni canti: i soliti, per [p. 163 modifica]quanto insuperabili... L’aiuto dei commenti, dal quale non è quasi mai disgiunta nessuna edizione della Commedia, se vale a rendere più o meno intelligibile il testo e i concetti danteschi ai volonterosi agli studiosi, agli appassionati, rende però la lettura faticosa e penosa per loro, e una vera via crucis per tutti quelli — e sono i più — che leggono a scopo di puro ricreamento; per quelli che sono desiderosi di apprendere i fatti, di conoscere i personaggi, di vedere i luoghi, e non si curano di questioni filosofiche, letterarie, teologiche: per quelli appunto ai quali Dante pensava scrivendo il suo libro. Il libro che io pongo in mano alla gioventù, al popolo anche, sta fra la versione in prosa e l’esposizione sommaria. Toglie il superfluo, l’algebrico per dir così il non bello: espone tutto il resto con dizione facile e piana; ne’ luoghi più eletti, colla dizione stessa del poeta voltata in prosa, rammodernata negli arcaismi.»

E così è. Un libro che può dilettare, ripeto, come una gran fiaba, o come qualcuno di quei vecchi romanzi cavallereschi di gesta e d’avventure. Le figure su questa superficie livellata spiccano tutte con un rilievo più marcato, con colori più vivi, con luci più sfavillanti; sia nell’inferno in cui paiono fusi insieme i geni di Michelangelo e di Shakespeare; nel Paradiso, arido e splendido; nel Purgatorio, nella più divina della cantiche dove non è più il dolore e non è ancora la gioia, dove la mestizia soave e blanda è nel verde, nei fiori, nei crepuscoli, nelle voci; dove è un sospirare e un desiderare umile e ardente — dove le donne che più hanno amato e pianto, e i cavalieri che più hanno perdonato e gli artisti che più hanno sofferto, lievi passano e si na[p. 164 modifica]scondono: e gli angeli sono umani e pii, e il poeta pagano ha il cuore oppresso dal divieto supremo e il poeta cristiano l’anima anelante alla sua diletta che gli sarà concessa per lo spazio di un sogno... Se la Divina Commedia è la Bibbia degli Italiani, questo è veramente il salmo dei dolenti — giacchè per sentirne riflesse nello spirito le verità, le consolazioni alte, le bellezze, bisogna avere faticato su per l’erta della vita fra le lagrime e i pesi e il fuoco, come l’Alighieri in ispirito sul mite Calvario...

Ma invece delle mie insufficienti manifestazioni sarà più opportuno riportare un brano della meritoria operetta del Capovilla per dimostrarne meglio il valore e l’utilità. Scelgo a caso:

«Era già l’ora, che ai naviganti, nel dì in cui hanno detto addio ai dolci amici, volge il desiderio verso la patria e intenerisce il cuore: e che piange d’amore il nuovo esule s’egli ode alcuna campana di lontano, che paia piangere il giorno che si muore. Quando Dante incominciò a mirare una di quelle anime, che levatesi in piedi, colla mano chiedeva alle altre che la ascoltassero. Ella giunse, ed alzò ambe le palme, fissando gli occhi verso l’oriente, così come dicesse a Dio: «D’altro non mi cale che di Te, Signore!» Poi le uscì di bocca: — Te lucis ante (Prima che termini la luce; inno della chiesa a difender l’anima dalle tentazioni notturne) devotamente e con note dolcissime. E le altre anime, colla medesima dolcezza e devozione, l’accompagnarono per l’inno intiero, tenendo gli occhi al cielo. Poi taciti guardavano in su come aspettando.»

Se lo spazio me lo concedesse vorrei trascrivere molto di più, ma dal brevissimo saggio ognuno può farsi un’idea dell’intero lavoro. Io chiamo queste opere: opere buone.


Note

  1. La Divina Commedia presentata senza il sussidio dei commenti. L. Cappelli edit. Rocca S. Casciano — L. 1,50.