Dal mio verziere/L'ultima primavera

L’ultima primavera

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Fiori d'arancio Opere buone

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L’ultima Primavera.1

L’essenza della femminilità in tutto ciò che ha di più fine, di più intuitivo, di più velatamente appassionato, di più profondamente tenero; il fiore più delicato e più fragrante d’un ingegno sul meriggio per cui il dar forma al pensiero non è più un faticoso esercizio ma una facile consuetudine; la nota indovinata, giusta, fra la pittura esatta della verità e le sfumature della poesia; l’equilibrio difficile fra l’indagine psicologica e il movimento dei personaggi; questo, e più ancora, ho trovato nel fresco libro dalla veste ideale che non inganna.

Chi è Memini? Io non so. Ma credo di poter affermare che abbiamo a fare con una vera signora. Finalmente! si respira, in questo andirivieni di donne-scrittrici, non tutte gentili, che scambiano la sgarbataggine con la forza e fumano la sigaretta anche in letteratura! Memini, l’ho detto, è soavemente donna e signora; non perchè la sua arte ce lo confermi cincischiandosi in analisi da sarta e da tappezziere, o perchè ci fa vivere in un ambiente leggittimamente aristocratico; ma per una specie di delicata riservatezza, per la grazia semplice e tranquilla di cui si vela il suo stile, sempre, anche nei momenti del più alto lirismo, anche nei momenti [p. 156 modifica]della più intensa passione, raggiungendo, in tal maniera, una semplicità suggestiva e un’efficace sobrietà. Le scene più drammatiche del suo romanzo, qualche punto scabroso, sono tratteggiati con bravura a luce e ad ombre sapienti, e l’immagine nella sua rapidità ci è resa viva e completa così che non ci par riflessa ma veduta. Lo stesso nell’analisi delle sensazioni, degli stati d’animo dei personaggi: la preparazione è tanto graduata, li conosciamo già tanto bene per quello che dicono, per quello che fanno, per quello che l’autrice, accortamente in una pennellata, ce li presenta, che si prevede già ciò che sentiranno, ciò che penseranno, ciò che decideranno in quella data occasione. Poichè tutti sono veri e vivi, ed hanno un’individualità propria, tutti, perfino i più insignificanti; e si muovono così bene nel loro ambiente in cui s’intravede dietro a loro altra gente ed altri caratteri e altre passioni, come nel mondo. Trovo qui che Memini ha superato vittoriosamente un gran scoglio: quello della prospettiva, del fondo; direi volentieri della messa in scena; scoglio da cui non si guardano sempre nemmeno i nostri valenti, e che guasta qualche volta l’idea e la forma migliore. L’azione sia pur di due od anche di un individuo solo, ma non agiscano nel vuoto, ma intorno ad essi ci sia la folla — indifferente, poco importa; ma è necessario indovinarla, è necessario intravederla, bisogna saperla là, e non col mezzo di qualche personaggio secondario messo per riempitivo, ma complessivamente; dei nomi, delle abitudini, dei tratti caratteristici, dei saluti, dei legami, degli obblighi; ciò insomma che penetra dal di fuori anche nella vita più appartata. Zola è in questo insuperabile: ogni suo romanzo è [p. 157 modifica]un mondo. Da noi, ma non sempre, i meridionali: Verga, il D’Annunzio, la Serao.

Ecco ora questa dama gentile riuscirvi perfettamente. La sua Ultima primavera è una primavera fiorentina che tutti respirano e vivono. Ma la primavera più fragrante, quasi gravosa per dolcezza, la vediamo schiudersi nel cuore della protagonista, la contessa Elisa, una figurina che ha una vaga aria di famiglia con le più delicate figure di Bourget.

La trama del racconto è, credo, oramai nota e semplicissima. Un’amica di provincia raccomanda alla contessa il suo unico adorato figliuolo ed essa nell’iniziarlo agli usi della società in cui vive, nell’occuparsi del suo benessere morale, nel plasmarne la personalità, se ne innamora appassionatamente. Ma fra Elisa e Roberto ci sono sedici anni di differenza, e questa donna elevata dalla vita un po’ solitaria e tutta intellettuale in cui si era compiaciuta, crede di non aver diritto di avvincere a sè quella giovinezza per sempre, e vi rinunzia. Se non che, non avendo per sostegno alcun dovere nella rude lotta, l’amore dilaga e trionfa proprio quando Roberto, che ignora lo sottigliezze spirituali, punto dal rifiuto di lei che credeva non potesse riguardarlo che come un ragazzo troppo inferiore, s’è gettato nelle reti di una vecchia sirena sempre tesa a raccoglier vittime nuove. Così muore l’ultima primavera.

L’analisi di quest’amore triste e supremo, dai primordi in cui non è che tenera sollecitudine quasi materna, alla fine in cui prorompe con tutta la violenza possente di un sentimento ancora non provato, è miniata insuperabilmente per finezza, per misura, per divinazione. V’hanno dei momenti in cui, [p. 158 modifica]se l’autrice non avesse la mano così leggera e l’intento di mantenersi in una sfera ideale così risoluto, avrebbero potuto degenerare nella sguaiataggine o in un verismo crudele. Ma, o la protagonista con la sua schiettezza quasi ingenua, o l’autrice col suo intervento di signora, o lo stile pieghevole e corretto, hanno sempre tutto salvato. E in quella mirabile scena, prima del primo duello di Roberto, così satura di emozioni e così laconica, noi possiamo vedere quella bella testa virile piegare sul florido petto di quella donna amante ed amata, senza che alcuna suggestione meno che pura offuschi la delicata visione. Udite:


«Lentamente, come sopraffatto dall’intensità delle lotte segrete ch’egli aveva sino a quell’istante saputo dissimulare, Roberto chiuse gli occhi, e, a guisa di uno stanco fanciullo, posò il capo sul petto della contessa. Lo sguardo di quella donna ebbe lo smarrimento vago d’un’estasi. Ella non si risentì nè si ritrasse. Tacque. Ma sotto il morbido rialzo del seno i violenti battiti del suo cuore giungevano all’orecchie di Roberto.

— Ah, — mormorò questi, quasi inconsciamente, — morire... non sarebbe niente. Ma così... nevvero?

— Così — susurrò Elisa, come un’eco lievissima involontaria.

Ci fu una lunga pausa, di quella pace, di quel silenzio. Nient’altro.»

Perfino la figura di questo Roberto che non è che giovane, bello, forte, sano nella luce diffusa sapientemente su tutto il libro ci apparisce sotto il [p. 159 modifica]suo aspetto meno materiale. Noi sappiamo che è sensuale, egoista, un buontempone inutile all’opera e al pensiero. Ma lo vediamo poi tanto ingenuo nei suoi difetti ch’egli (ah che sollievo!) non si cura di analizzare nè di distinguere, lo vediamo così pieno di rispetto verso quella donna di cui riconosce francamente la superiorità, e riscontriamo in lui, nelle circostanze, un tatto, un criterio e una forza così spontanei, che se anche non ci desta simpatia, possiamo giudicarlo imparzialmente. In tal modo questa e le altre figure hanno un rilievo spiccatissimo, un valore tutto oggettivo. La vecchia duchessa, Marina, il povero russo tisico e milionario, il poeta abruzzese sempre un po’ selvaggio, Dino Follemare dalla grazia rassegnata, la grossa zia d’Elisa, Tecla, la mamma di Roberto valetudinaria, Marcello Plana ci popoleranno la mente per un pezzo, come creature fra cui avessimo veramente vissuto per qualche tempo. L’autrice, ripeto, non ci mette di suo che la leggiadria soave e piana della narrazione, nè frettolosa nè lenta, interrotta con una chiusa sempre efficace nei brevi capitoli che paiono una ghirlanda di roselline di maggio. Se Memini non è una figliuola della Toscana, lo è per la lingua agile e pieghevole, per una punta d’arguzia sempre latente nel dialogo, per quella grazia armoniosa, soffusa anche nella gaiezza d’una certa mestizia che raggentilisce in Toscana ogni opulenza della natura o dell’arte, che fa ripensare alle concezioni delicate che sorgevano fra i fiori dei calendimaggi fiorentini del quattrocento.

Si potrebbe notare, per amor del vero, qualche piccola sciatteria sfuggita nella scorrevolezza del dire, qualche strozzatura, qualche vocabolo esotico [p. 160 modifica]che se passa inosservato in una conversazione frettolosa, offende in una pagina di stampa italiana come un leggero strappo che riveli qualche povertà; ma sono nèi che si sommergono nella blanda fulgidezza dell’opera gentile dov’è più sentimento che pensiero, più eleganza che originalità, più larghezza d’osservazione che profondità. Ma non ce ne lagnamo troppo. Le donne vere minacciano di diventar rare nell’arte come nella vita. Di studi tenebrosi e misteriosi intorno alla psiche umana, di vivisezioni feroci, di drammi paurosi e cupi e fantastici della coscienza, di acrobatismi di lingua ne abbiamo ancora da saziarcene per un pezzo. Il più difficile per chi legge per diletto e non per dovere (ah fossi anch’io tra questi!) è di trovare da dilettarsi. Ebbene; con l’Ultima primavera si ha già trovato.

  1. Memini, Chiesa e Guindani, 1894.