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suo aspetto meno materiale. Noi sappiamo che è sensuale, egoista, un buontempone inutile all’opera e al pensiero. Ma lo vediamo poi tanto ingenuo nei suoi difetti ch’egli (ah che sollievo!) non si cura di analizzare nè di distinguere, lo vediamo così pieno di rispetto verso quella donna di cui riconosce francamente la superiorità, e riscontriamo in lui, nelle circostanze, un tatto, un criterio e una forza così spontanei, che se anche non ci desta simpatia, possiamo giudicarlo imparzialmente. In tal modo questa e le altre figure hanno un rilievo spiccatissimo, un valore tutto oggettivo. La vecchia duchessa, Marina, il povero russo tisico e milionario, il poeta abruzzese sempre un po’ selvaggio, Dino Follemare dalla grazia rassegnata, la grossa zia d’Elisa, Tecla, la mamma di Roberto valetudinaria, Marcello Plana ci popoleranno la mente per un pezzo, come creature fra cui avessimo veramente vissuto per qualche tempo. L’autrice, ripeto, non ci mette di suo che la leggiadria soave e piana della narrazione, nè frettolosa nè lenta, interrotta con una chiusa sempre efficace nei brevi capitoli che paiono una ghirlanda di roselline di maggio. Se Memini non è una figliuola della Toscana, lo è per la lingua agile e pieghevole, per una punta d’arguzia sempre latente nel dialogo, per quella grazia armoniosa, soffusa anche nella gaiezza d’una certa mestizia che raggentilisce in Toscana ogni opulenza della natura o dell’arte, che fa ripensare alle concezioni delicate che sorgevano fra i fiori dei calendimaggi fiorentini del quattrocento.
Si potrebbe notare, per amor del vero, qualche piccola sciatteria sfuggita nella scorrevolezza del dire, qualche strozzatura, qualche vocabolo esotico