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tivo vezzo d’ostinarsi vieppiù nel proprio parere, magari di esagerarlo, quando insorge qualcuno che vuol dimostrarci il contrario. Parlando subito di quel libro, fresca di lettura e trovandomi contro al gusto dei più, non osai, confesso, di impancarmi a dir crudo e netto il mio parere, come lo spifferavo al piccolo crocchio dei miei amici, ma vi gettai su un velo di dubbio, abbastanza trasparente, mi parve per farlo conoscere a chi lo voleva intendere.
Ora che non temo più l’immaturità delle mie impressioni, ora che la falange partigiana dell’astro novello non s’è accresciuta, non solo, ma si sfronda di molte illusioni; ora con voi, signorina, e in un giornale di signore, mi attento a togliere quel velo e a confidarvi all’orecchio che l’autore della mastodontica Vita, secondo il mio umilissimo modo di vedere, non è niente affatto poeta, che qualche emanazione di poesia fresca e gentile e il corruscare di gemme e i fili d’oro e tante belle cose che scovai esultante fra i fossili della Vita, e anche i bei versi vigorosi iridati fluenti, di cui feci perfino al signor Checcucci un’aureola (badate; scrissi i bei versi per distinguerli da... quegli altri del poema), tutta questa fragilità in sboccio, insomma, — il fummo del ruscel di sopra aduggia — e, come io temevo, ora un po’ di lontano, stempera tutto in una tinta greve e monotona di cielo piovorno.
Non dallo scienziato scorgevo io sprigionarsi il poeta, ma ascoltavo con malinconica curiosità lo scienziato delirare, poichè, persuadetevi, signorina, anche agli scienziati è permesso di aver il delirio qualchevolta, e fantasticavo monellescamente (non lo dimenticate!) su un incubo punitore cagionato dal rimorso di aver abbandonata una professione