Cuore infermo/Parte Terza/I
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PARTE TERZA
I.
— È in collera teco? — chiese all’amico.
— Bah! — esclamò l’altro, con una energica stretta di spalle.
— Vale a dire?
— Vale a dire che non si sa mai quando Lalla sia in collera o in bontà, di buonumore o di malumore. Gli osservatori ci si perdono.
— Figurarsi chi ne è innamorato! Tu, per esempio.
— Lo dicono. Non ne so niente.
Erano arrivati all’angolo, sempre ventoso, della via Mergellina, dove voltano per lo più tutte le carrozze che vanno a far la passeggiata alla Riviera.
— Voltiamo? — chiese Paolo.
— Voltiamo pure — rispose Marcello, col suo sorrisetto un po’ stanco, un po’ ironico — ma ti avverto che ora incrocieremo la D’Aragona.
Difatti, dopo due minuti, le carrozze s’incrociano. I giovani si scappellarono. La D’Aragona salutò e sorrise, mentre il venticello marzolino faceva agitare la piuma grigia del suo cappello.
— Lo vedi ora? — esclamò Paolo, mordendosi le labbra e facendo schioccare la frusta come un cocchiere da nolo: — ora ella ci sorride.
— Tanto meglio.
— Tanto peggio. Non mi fido di quel sorriso.
— Ha bellissimi occhi — mormorò distrattamente Marcello, divenuto pensoso.
Tacquero, mentre il loro carrozzino li trasportava di nuovo verso la città, in quel va e vieni monotono della Riviera. Ad un tratto la victoria della D’Aragona passò ad un trotto serrato. Ella si volse e fece lieve cenno a Paolo Collemagno.
— Ti ha fatto un segno, mi pare — disse Marcello, guardando in volto Paolo, che era diventato pallido.
— Sì. Va alla Villa per passeggiare. Andiamoci.
— Perchè?
— Mi ha detto di raggiungerla.
— Sei contento dunque. La tua dama ti chiama.
— Bah! mi chiama molto spesso.... per dirmi o farmi delle malignità. Ogni giorno ne inventa una nuova, e, capirai, mi mantiene in una certa curiosità. Sentiremo quella d’oggi: ho idea che sarà graziosa.
— Io non vengo.
— Perchè?
— Non conosco la contessa.
— Ti presento.
— No, no, lascia stare....
— Hai paura forse? — chiese Paolo, con una piccola risata. — Non ti salva l’amore della duchessa?
— Qui non entra la duchessa — rispose Marcello, abbassando gli occhi.
— Scusa, ho scherzato. Vieni, anche per rendermi un favore. Lalla è sempre meno cattiva quando siamo in tre che quando siamo in due.
— Sai, la conoscerò, dovrò andare a casa sua... farle forse la corte...
— La grazia del fastidio! Quando tu badi bene non innamorartene, in compagnia sua ti ci diverti. Vieni, vieni, vedrai un bel caso di donna.
Scesero dal carrozzino alla seconda porta laterale della villa. Paolo dette le redini al suo cocchiere che sedeva sul seggiolino di dietro.
— Va a casa. Avverti che ritornerò per l’ora del pranzo.
Poca gente alla Villa. In quei primi giorni di marzo, nel cominciare della primavera, dopo un inverno eccezionalmente rigido, non ci si affidava ancora al bel tempo. Poi era un martedì: e la Villa si vede piena solo nelle domeniche. Nei viali passava qualche coppia esotica, qualche istitutrice inglese che li attraversava per recarsi alla casa principesca della Riviera o di Posillipo, dove la chiamava la sua dura occupazione; qualche vecchietto lento, qualche giovanotto elegante, venuto lì per ragioni misteriose o poco misteriose di convegno. Attorno alla musica tre o quattro gruppi di nutrici tarchiate, vestite a colori vivaci, con la pettinessa di argento; bambinaie con la cuffietta e il grembiule bianco; cameriere vestite con l’abito smesso e il cappellino vecchio della signora, rimodernato; allegre compagnie di fanciulletti vispi, belli, vestiti di flanella bianca, coi cappelli buttati indietro sulle testoline, si perseguitano, corrono dietro al loro cerchio, saltano intorno alla trottola. Qualche signora è seduta all’ombra del suo ombrellino, solitaria, con lo strascico raccolto intorno alla sedia di ferro. Una fanciulla francese legge a suo padre il Figaro. E lontano, nell’ultimo viale, presso il mare, nel sole, passa il carrozzino-letto, spinto a mano da un servo, coperto da un manto di velluto azzurro con gli stemmi ricamati agli angoli, dove una principessa toscana, bionda, rosea, ventenne, fa trascinare il suo bel corpo paralizzato.
I due amici camminavano in silenzio lungo il viale più vicino alla strada. Erano andati su e giù due volte, senza ritrovare Lalla D’Aragona. Paolo Collemagno che, entrando nella Villa, era molto nervoso e parlava a scatti, veniva ora dominato da una viva inquietudine. Era un giovane molto alto, robusto, più forte che bello, con una testa possente, una criniera bionda e riccia, gli occhi di un azzurro di porcellana, il volto un po’ corto, ma corretto da una barba alla Enrico IV, fulva e riccia. Marcello gli veniva daccanto, guardando anche lui pei viali, cominciando ad essere tormentato dal desiderio di vedere Lalla D’Aragona.
— Eccola — egli disse ad un tratto.
— Dove, dove?
— Laggiù, a dritta della musica, sotto un albero.
— Sì, sì, hai ragione.
Ed affrettarono il passo.
— Contessa, il duca Sangiorgio, un amico, a cui ho osato promettere un benevolo accoglimento. La contessa D’Aragona.
— Di ritorno dal viaggio di nozze, mi sembra? — chiese Lalla con la sua voce velata, alzando il capo a fissare Marcello.
— Solo da una settimana.
Sedettero accanto a lei, l’uno a dritta, l’altro a sinistra, ma in modo da potere ambedue vederla di fronte; ella rimaneva al suo posto, con la spalliera della seggiola addossata al tronco della quercia, appoggiando i piedi ad una seggiola che aveva davanti, su cui aveva posato l’ombrellino. Sotto il diadema del cappello di feltro grigio, scendevano sulla fronte i capelli di un castano-biondo, un po’ ispidi, un po’ arricciati; i grandi occhi neri, dalla incassatura troppo profonda che accresceva la lentezza voluttuosa dello sguardo, erano sottolineati da un semicerchio bruno; tutto il volto di un pallore caldo, uguale, di avorio fiorentino, un volto scarno, dai pomelli salienti; la bocca grande, dalle labbra sottili, troppo vivide, dipinte forse, aveva quel sorriso un po’ stirato, che scopre con un fremito i dentini superiori, che pare voglia mordere; il corpo magro si perdeva nelle pieghe di velluto grigio dell’abito, nel dolman largo e pesante, si abbandonava sulla seggiola di ferro come stanco ed abbattuto. La veletta grigia le scendeva appena sotto gli occhi, come un’ombra lieve e strana. Le mani non si vedevano, nascoste freddolosamente nel manicotto.
— Sangiorgio è rimasto cinque mesi a Parigi — riprese Collemagno per avviare il discorso: — credevamo che non ritornasse più.
— Invece sono ritornato — rispose Marcello, con un sorriso incerto. — Avevo la nostalgia.
— Io non amo Parigi — disse la D’Aragona, con un moto lento della testa — ma c’è una vita inquieta di grande città che mi seduce.
— Si finisce poi per provare un bisogno di pace — mormorò Marcello — che laggiù non si trova in nessun luogo.
— Nè altrove — disse recisamente Lalla.
Marcello s’inchinò un poco, senza rispondere.
— Del resto — riprese ella subito, quasi volesse raccogliere la conversazione caduta — io non amo che un paese solo....
— Nizza, nevvero? — chiese con un tono singolare Paolo.
— Appunto, Nizza. Si vive laggiù....
E i grandi occhi si fissavano nella profonda contemplazione di un punto lontano, tutto il volto si distraeva in una attenzione condensata e la bocca stretta, rossa, si chiudeva quasi volesse scomparire.
— E ci si muore bene — aggiunse poi, fissando l’un dopo l’altro i suoi interlocutori.
— Realmente, contessa — rispose Paolo, quasi scherzando, ma con voce tremante — fareste venire la voglia di prendere il treno diretto di domattina, per andare a seppellirsi laggiù.
— Senza scopo, Collemagno — diss’ella, con noncuranza. — Ci è stato lei, duca Sangiorgio, a Nizza?
— Da scapolo, sì. Volevamo, nel nostro viaggio di nozze, passarci al ritorno: poi.... non ci pensammo più.
— Se fate un viaggio di nozze, andateci voi, Collemagno — disse ella, morsecchiandolo col suo cattivo sorriso.
Egli non le rispose, voltando la testa dall’altra parte. Per fortuna la banda musicale cominciò a suonare lentamente una mazurka, motivo molle ed indeciso. Lalla si mosse un poco sulla sedia. La musica parve l’agitasse. Intanto dalla sua persona, dal suo abito, dai suoi capelli si staccava un profumo forte, penetrante, che l’aria libera non riusciva a portar via.
— Sa lei, duca Sangiorgio, che noi siamo un po’ parenti?
— Difatti, i D’Aragona ed i Sangiorgio si sono due o volte alleati. Un’affinità triplicata, signora contessa.
— Quando venni a Napoli, ho cercato di suo zio, duca. Sapevo che sarei rimasta un po’ sola qui. Ebbi il piacere di vederlo due o tre volte. In seguito non più: la compagnia di un’ammalata non è piacevole per un uomo, sia anche vecchio....
E la voce si abbassò in un mormorio dolente. In quel momento, con l’abbandono di tutta la persona nelle morbide onde dell’abito che non ne celavano la magrezza, con quei tristi lividi degli occhi che si allargavano, quasi volessero divorare tutto il viso, ell’era una creatura misera e degna di compassione. Marcello la guardava, colpito, commosso nel suo cuore buono e leale, che non poteva veder soffrire una donna, o udir piangere un fanciullo.
Ma la musica, con un rapido colpo, attaccò la stretta della mazurka, un motivo trillato, perlato, un po’ affannoso. Lalla si scosse, si rianimò, diede un colpetto col piedino sullo scalino della seggiola, per far discendere l’orlo della sottana.
— Ad ogni modo, duca Sangiorgio, io spero che il nipote avrà maggior coraggio e buona volontà dello zio, nevvero? Il venerdì dalle due alle cinque.
— Il venerdì, giorno funesto — rispose poi ella, con un risetto stridente: — ci credete alla jettatura, voi Collemagno?
— Io?
— Sì, voi. Eravate distratto? Vi chiedevo se credevate alla jettatura!
— Sì, ci credo — affermò egli impallidendo lievemente nella sua onesta e vigorosa figura.
— Qui tutti ci credono, del resto. Non può immaginare, duca Sangiorgio, quanto mi piacciono tutte queste superstizioni che hanno un carattere orientale. È bella l’idea della fatalità; è bello pensare a qualche cosa d’ignoto, d’indefinito, che si determina e si definisce nell’oscurità.
— C’è qualcuno che non crede alla fatalità, signora — rispose con dolcezza Marcello.
— E chi dunque?
— Colui che crede all’amore, signora.
Lalla fissò su lui uno sguardo lungo, quasi investigatore, e nel medesimo tempo Marcello sentì uno sbuffo più forte dell’acuto profumo salirgli alla testa. La musica taceva. Qualche persona passava nel viale circolare. Due bambine da cinque a sei anni passeggiavano, dandosi gravemente il braccio.
— I bambini sono belli e saggi — disse Lalla: non sanno nulla di fatalità e di amore.
— Io non li invidio, io non ho mai desiderato rivivere l’infanzia. A che servono il dolore e la gioia senza la conoscenza?
— I bambini sono belli — ripetè Lalla, pensierosa — e la bellezza è molto.
Paolo Collemagno se ne rimaneva silenzioso, escluso dal discorso, quasi dimenticato. Egli stesso cercava trarsi fuori da quella conversazione, sentendosi soverchio, prendendo ogni momento la decisione di andarsene, ma vinto della presenza di Lalla. Si sentiva ridicolo, fanciullo, a fare da terzo in un dialogo dove Lalla e Marcello s’isolavano così bene; si sentiva fanciullo e le lagrime gli venivano agli occhi. Guardava altrove. Passava a venti passi l’elegante figura di una famosa fioraia, nel suo succinto e semplice abito nero, col viso bianco ed immobile da statuina.
— La fioraia ha il cestino pieno di mammole — notò la D’Aragona: — c’è una primavera oltraggiosa
— Non le piace la primavera, contessa?
— No, niente. I fiori molto meno. Sono troppo semplici, troppo puri, troppo celestiali; rassomigliano a certe belle persone bianche, anemiche, quasi trasparenti.
— Eppure vi sono molti fiori nella vostra serra, contessa — disse Paolo.
— Sì, è vero. Sono fiori tropicali, dal gambo contorto in istrane gibbosità, irto di spine, quasi ammalato di vegetazione, fiori appassionati, che vivono una sola notte.... Intende lei, duca Sangiorgio, questa rapidità intensa di una vita completa?
— Io la intendo — rispose Marcello, fissando il suo sguardo in quegli occhi magnetici dalle brune e misteriose profondità.
Così stettero a guardarsi per un minuto, senza sorridersi, serii, muti.
— Ecco laggiù, la duchessa Sangiorgio — disse Paolo Collemagno: — è con tuo zio, Marcello.
La duchessa Sangiorgio si avanzava lentamente pel viale. Il bel corpo si vantaggiava di un vestito nero, un nero ricco e smorto, senza strascico; il volto era placido e roseo, sotto la larga falda nera del cappello alla Rubens. Ella parlava, avanzandosi sempre, con lo zio di Marcello; parlava nel suo modo speciale, quasi a fior di labbro, lasciando cadere esattamente le parole, senza darsi cura di seguirle col pensiero. Alla distanza di venti passi vide il gruppo formato da Lalla D’Aragona, Paolo Collemagno e suo marito; passando, rispose al saluto di Paolo, guardò un momentino Lalla, fece un amichevole sorriso a Marcello e si allontanò verso il boschetto della Villa, senza interrompere il suo discorso.
Marcello, che si era turbato appena alle parole di Paolo, riprese subito la sua disinvoltura. Aveva salutato sua moglie con un’amabilità simile a quella di lei. Lalla l’aveva seguita con lo sguardo, lungamente. Ora sorrideva. Pure tra quei tre regnava un senso d’imbarazzo, come una sospensione dello spirito, un dubbio di voler pronunziare la prima parola dopo quel silenzio che si prolungava.
— Ebbene, signora contessa — disse infine Marcello — si parlava di fiori, mi pare?
— No, duca; non se ne parlava.
— Di passione, allora?
— Neppure.
— Mi sembrò...
— Che importano le parole di poc’anzi, duca? Se non si dimenticasse qualche cosa, sarebbe molto noiosa la giornata.
— E la vita, contessa?
— È altro la vita. La vita è divertente.
— Sempre?
— Quasi sempre. Io ammiro la vita.
— Da ammiratrice indifferente?
— No, interessata invece.
— Dev’essere così.
— Perchè? Chi glielo dice?
— Nessuno. Lo immagino, guardandola.
Parlavano a botta e risposta. Lalla con la sua voce secca e rotta, col sorriso breve, mordente; Marcello con una grazia disinvolta, un po’ pensierosa. Collemagno si ostinava a guardare altrove, per celare il suo turbamento. Ma il crepuscolo violento scendeva, la Villa si faceva deserta.
— Lei, duca, ha, mi pare, sposato una signorina Revertera? — chiese lentamente Lalla.
— Revertera è il titolo; Manso è il cognome — rispose con la medesima lentezza Marcello.
— Una figlia unica, mi sembra?
— Unica, signora contessa.
— Ho visto, per una sola volta, il duca padre. È in viaggio ora?
— In Sicilia; al nostro ritorno non lo ritrovammo.
— Meglio soli... — soggiunse lei, e si strinse nel mantello, quasi provasse una sensazione di freddo. — Lo stare più lungamente qui mi farebbe male. Sono eterni questi vostri tramonti di Napoli! Andiamo.
E si alzò di scatto, stringendosi sempre più nel mantello, lasciando lo strascico sul terreno, con una indolenza freddolosa. Collemagno, sempre muto, prese l’ombrellino dalla sedia, mentre ella si avviava lentamente con Marcello.
— Siete andata in chiesa prima della passeggiata? — disse Collemagno, raggiungendola.
— Avete trovato il mio libriccino? datemelo. Sì, sì, sono andata in chiesa.
— Per chi pregate, contessa? Per voi o per gli altri? — esclamò Paolo, sentendo il bisogno di dire qualche cosa di cattivo.
Ella lo guardò con una certa dolcezza.
— Per tutti — rispose. — Ma ho sofferto anche oggi un poco, nella chiesa. Non posso rimanere molto tempo inginocchiata. Credo di essere svenuta...
— Quale imprudenza! — mormorò Collemagno, ridiventato buono come un bambino. — Ci terrete sempre in pena.
— A che serve? È inutile stare in pena per me. Già nulla si muterà per questo.
— Lo so — disse lui, e chinò il capo.
Camminavano tutti tre in fila, ella in mezzo, col suo passo molle, quasi stanco; la persona flessuosa si muoveva con una grazia malaticcia ed incantevole, con quel profumo che ondeggiava nell’aria, come lei passava. Oramai non s’incontrava più nessuno. Si faceva scuro. Tacevano tutti tre, dominati dall’influenza dell’ora, o del proprio pensiero; pareva che ognuno camminasse da solo, dimenticando di essere in compagnia. Arrivarono alla porta grande della Villa, quella della piazza Vittoria. Davanti al marciapiedi era ferma la carrozza della D’Aragona.
— Signor duca — disse lei, salutandolo col capo, senza porgergli la mano.
— A rivederci, Collemagno — aggiunse, dandogli due dita della mano sinistra.
E salì senza l’aiuto di alcuno, con una sveltezza singolare in quel corpo così abbattuto. Collemagno, nell’oscurità, sorrideva lievemente. Lalla dovette sentire quel sorriso. Mentre il servo richiudeva il piccolo sportello, ella disse:
— Signor duca, non mi dimenticherà?
E gli tese la mano, lasciandola nella sua, chinandosi un poco per guardarlo, con le labbra che si agitavano ancora, quasi mormorassero parole sommesse. Egli tremò un momento, come se gli si scuotessero tutti i nervi.
— Avrò presto l’onore di venire ad ossequiarla, signora contessa.
Ella ringraziò col capo, senza rispondere; la carrozza voltò e si allontanò rapidamente, scomparendo dietro l’angolo della via Chiatamone. Sangiorgio e Collemagno erano rimasti fermi sul marciapiedi, tenendole dietro con lo sguardo.
— Ebbene, Marcello?
— Vo a casa — rispose costui brevemente.
— Ti accompagno sin là.
E risalirono la strada di Chiaia, rientrando nel movimento e nel chiasso della città. Si accendevano i lumi, le vetrine rilucevano. I due amici andavano daccanto, come distratti, urtando la gente.
— Che te ne pare, Marcello?
— Di che?
— Di Lalla.
— La contessa D’Aragona?
— Lalla.
— Nulla, amico mio.
— Come, nulla?
— ....Non la comprendo ancora, forse.
E stette zitto, quasi non gli garbasse il discorso. Ma Collemagno voleva una parola decisiva.
— Non ti pare che sia una donna capace di sedurre?
— Tutte le donne possono sedurre.
— Non t’innamorerebbe?
— Me?
— Te.
— ....Non so. N’ebbi pietà due o tre volte in un’ora. È molto ammalata. Il profumo che porta è assai strano. Ho mal di capo, credo.
Decisamente Marcello non ne voleva più parlare. Pure, mentre salivano per Pizzofalcone, egli stesso chiese a Collemagno:
— Quale era poi la malignità di oggi?
— ....Non so — fece l’altro, imitandolo.
Dopo pochi minuti erano davanti al portone del palazzo Sangiorgio, in via Monte di Dio. Si dettero la mano.
— Dopo tutto, io credo di aver indovinato la malignità di oggi.
— E quale era?
— Tu forse, Marcello — disse Collemagno, rivelando la sua tortura.
— No — ribattè l’altro, seriamente.
— Tutto è inutile, tutto — ripetè malinconicamente Paolo: — addio, caro mio.
— Addio, amico mio.
E mentre Paolo si allontanava, curvando la forte ed elegante persona sotto il travaglio del suo cuore, Marcello rientrando in casa, sentiva aggravarglisi più forte, più crudele il cruccio dell’esistenza.