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Parte terza 101

Marcello s’isolavano così bene; si sentiva fanciullo e le lagrime gli venivano agli occhi. Guardava altrove. Passava a venti passi l’elegante figura di una famosa fioraia, nel suo succinto e semplice abito nero, col viso bianco ed immobile da statuina.

— La fioraia ha il cestino pieno di mammole — notò la D’Aragona: — c’è una primavera oltraggiosa

— Non le piace la primavera, contessa?

— No, niente. I fiori molto meno. Sono troppo semplici, troppo puri, troppo celestiali; rassomigliano a certe belle persone bianche, anemiche, quasi trasparenti.

— Eppure vi sono molti fiori nella vostra serra, contessa — disse Paolo.

— Sì, è vero. Sono fiori tropicali, dal gambo contorto in istrane gibbosità, irto di spine, quasi ammalato di vegetazione, fiori appassionati, che vivono una sola notte.... Intende lei, duca Sangiorgio, questa rapidità intensa di una vita completa?

— Io la intendo — rispose Marcello, fissando il suo sguardo in quegli occhi magnetici dalle brune e misteriose profondità.

Così stettero a guardarsi per un minuto, senza sorridersi, serii, muti.

— Ecco laggiù, la duchessa Sangiorgio — disse Paolo Collemagno: — è con tuo zio, Marcello.


La duchessa Sangiorgio si avanzava lentamente pel viale. Il bel corpo si vantaggiava di un vestito nero, un nero ricco e smorto, senza strascico; il volto era placido e roseo, sotto la larga falda nera del cappello alla Rubens. Ella parlava, avanzandosi sempre, con lo zio di Marcello; parlava nel suo modo speciale, quasi a fior di labbro, lasciando cadere esattamente le parole, senza