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100 | Cuore infermo |
— Io?
— Sì, voi. Eravate distratto? Vi chiedevo se credevate alla jettatura!
— Sì, ci credo — affermò egli impallidendo lievemente nella sua onesta e vigorosa figura.
— Qui tutti ci credono, del resto. Non può immaginare, duca Sangiorgio, quanto mi piacciono tutte queste superstizioni che hanno un carattere orientale. È bella l’idea della fatalità; è bello pensare a qualche cosa d’ignoto, d’indefinito, che si determina e si definisce nell’oscurità.
— C’è qualcuno che non crede alla fatalità, signora — rispose con dolcezza Marcello.
— E chi dunque?
— Colui che crede all’amore, signora.
Lalla fissò su lui uno sguardo lungo, quasi investigatore, e nel medesimo tempo Marcello sentì uno sbuffo più forte dell’acuto profumo salirgli alla testa. La musica taceva. Qualche persona passava nel viale circolare. Due bambine da cinque a sei anni passeggiavano, dandosi gravemente il braccio.
— I bambini sono belli e saggi — disse Lalla: non sanno nulla di fatalità e di amore.
— Io non li invidio, io non ho mai desiderato rivivere l’infanzia. A che servono il dolore e la gioia senza la conoscenza?
— I bambini sono belli — ripetè Lalla, pensierosa — e la bellezza è molto.
Paolo Collemagno se ne rimaneva silenzioso, escluso dal discorso, quasi dimenticato. Egli stesso cercava trarsi fuori da quella conversazione, sentendosi soverchio, prendendo ogni momento la decisione di andarsene, ma vinto della presenza di Lalla. Si sentiva ridicolo, fanciullo, a fare da terzo in un dialogo dove Lalla e