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Parte terza 97

— Contessa, il duca Sangiorgio, un amico, a cui ho osato promettere un benevolo accoglimento. La contessa D’Aragona.

— Di ritorno dal viaggio di nozze, mi sembra? — chiese Lalla con la sua voce velata, alzando il capo a fissare Marcello.

— Solo da una settimana.

Sedettero accanto a lei, l’uno a dritta, l’altro a sinistra, ma in modo da potere ambedue vederla di fronte; ella rimaneva al suo posto, con la spalliera della seggiola addossata al tronco della quercia, appoggiando i piedi ad una seggiola che aveva davanti, su cui aveva posato l’ombrellino. Sotto il diadema del cappello di feltro grigio, scendevano sulla fronte i capelli di un castano-biondo, un po’ ispidi, un po’ arricciati; i grandi occhi neri, dalla incassatura troppo profonda che accresceva la lentezza voluttuosa dello sguardo, erano sottolineati da un semicerchio bruno; tutto il volto di un pallore caldo, uguale, di avorio fiorentino, un volto scarno, dai pomelli salienti; la bocca grande, dalle labbra sottili, troppo vivide, dipinte forse, aveva quel sorriso un po’ stirato, che scopre con un fremito i dentini superiori, che pare voglia mordere; il corpo magro si perdeva nelle pieghe di velluto grigio dell’abito, nel dolman largo e pesante, si abbandonava sulla seggiola di ferro come stanco ed abbattuto. La veletta grigia le scendeva appena sotto gli occhi, come un’ombra lieve e strana. Le mani non si vedevano, nascoste freddolosamente nel manicotto.

— Sangiorgio è rimasto cinque mesi a Parigi — riprese Collemagno per avviare il discorso: — credevamo che non ritornasse più.

— Invece sono ritornato — rispose Marcello, con un sorriso incerto. — Avevo la nostalgia.