Così parlò Zarathustra/Parte seconda/Della plebe
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Della plebe.
«La vita è una sorbente di gioia; ma le fonti cui attinge anche la plebe divengono attossicate.
Io amo tutto ciò che è nitido; non so tollerare le bocche ghignanti e la sete degli impuri.
Essi gettarono lo sguardo nella profondità del pozzo; ed ora il lor sorriso ripugnante mi si offre rispecchiato dal fondo del pozzo. Hanno avvelenato la santa acqua con la loro concupiscenza: e quando diedero nome di gioia ai loro luridi sogni, attossicarono anche le parole.
La fiamma si ritrae nauseata, quando essi avvicinano al fuoco i loro viscidi cuori: lo spirito stesso gorgoglia e manda fumo, quando la plebe s’affaccia al fuoco.
Dolciastro e vizzo si fa il frutto nelle lor mani; malfermo e disseccato diviene l’albero fruttifero quand’essi lo guardano.
E parecchi non s’allontanarono dalla vita, se non per allontanarsi dalla plebe: poi che non volevano dividere con la plebe le fonti, la fiamma, il frutto.
E molti, che si ridussero a vivere nel deserto e vi soffrirono la sete in compagnia delle fiere, ciò fecero per non doversi trovar seduti intorno alla cisterna coi sudici conduttori di camelli.
E più d’uno che appariva quale uno sterminatore minaccioso, quale grandine per i campi ubertosi, non intendeva che a porre il piede su la bocca della plebe e soffocarne così la voce.
E il più amaro boccone, che dovetti ingoiare, non fu già il sapere che nella vita è necessaria l’inimicizia e la morte e le croci tormentose, ma il domandare a me stesso: la vita ha proprio anche bisogno della plebe?
Son necessarie le fonti avvelenate, i fuochi puzzolenti, i lividi sogni e gli acari nel pane della vita?
Non il mio odio, bensì la mia nausea fu il verme roditore della mia vita! Ah, mi stancai presto dell’ingegno, quando trovai arguta anche la plebe!
E ai governanti voltai le spalle, quando vidi che cosa era ciò che essi chiamavano governare: il mercanteggiare e il patteggiare per la potenza con la plebe!
Dimorai tra popoli che parlavano un altro linguaggio — con le orecchie chiuse: affinchè mi restasse estraneo il linguaggio con cui mercanteggiavano e patteggiavano per la potenza.
E turandomi il naso riandai indispettito il passato e il presente: invero l’uno e l’altro puzzano di plebe che scrive!
Simile ad uno storpio, che sia cieco e sordo e muto: così vissi a lungo, per non dover vivere con la plebe che domina, che scrive e che gode.
Faticosamente, guardingo, il mio spirito salì i gradini; l’elemosina del godimento era il suo ristoro: nell’appoggiarsi al suo bastone così trascorre la vita del cieco.
Che successe? In qual modo mi liberai dalla nausea? Come ringiovanì il mio sguardo? Come raggiunsi a volo l’altezza, là dove al fonte più non si siede la plebe?
Forse la mia nausea mi ha creato le ali e le forze presaghe di nuove sorgenti? In verità, molto alto dovetti volare per discoprir un’altra volta la sorgente della gioia!
Or l’ho trovata, fratelli! Oh come limpido qui nella più sublime altezza scorre per me il fonte della gioia! Una vita esiste, in cui la plebe non attinge alla fonte!
Quasi troppo presto per me trascorri, o fonte di gioja! E bene spesso tu vuoti la coppa, mentre credi riempirla!
E ancora devo imparare ad appressarmi a te con maggior riserbo: soverchio impeto è questo con cui il mio cuore ti corre incontro — il mio cuore, su cui arde la mia estate breve, calda, mesta, oltre ogni misura beata. Quanto il mio cuore estivo ardentemente anela alla tua frescura!
Scomparsa è la trepida malinconia della mia primavera! Scomparsa la tristezza dei miei fiocchi di neve nel giugno! Divenni tutto estate e meriggio d’estate!
Un’estate sulla più sublime altezza, con fonti fresche, beate e silenziose; oh, venite, miei amici, a rendermi più beata ancora la quiete!
Poi che questa è la nostra altezza e la nostra patria: noi viviamo in alto, inaccessibili agli impuri e alla lor sete.
Gettate i vostri chiari sguardi nella fonte della mia gioja, miei amici. Come mai essa potrebbe intorbidarsene? Io voglio che vi sorrida nella sua purezza.
Su l’albero dell’avvenire noi edifichiamo il nostro nido; le aquile rechino a noi solitari il cibo nel loro becco!
In verità, non un cibo di cui possano gustare anche gli impuri! Essi crederebbero di mangiar fuoco e si brucerebbero la bocca!
In verità, questa dimora non è per gli impuri! Una caverna di ghiaccio sembrerebbe la nostra felicità ai loro corpi e al loro spirito!
E noi vogliamo vivere alto su essi, simili a venti gagliardi: vicini all’aquila, vicini alla neve, vicini al sole: così vivono i venti gagliardi.
E come il vento voglio un dì soffiare su loro e col mio spirito spegnere il loro: ciò richiede il mio avvenire.
In verità, un vento impetuoso è Zarathustra per tutto ciò che si trova nella bassura: e il suo consiglio ai nemici è questo: Guardati dallo sputar contro il vento!
Così parlò Zarathustra.