Compendio del trattato teorico e pratico sopra la coltivazione della vite/Parte II/IV/Art III

Parte II - Capitolo IV
Articolo III

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IV - Art II V - V
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ARTICOLO III.


Precetti generali sull’ arte di regolare la fermentazione.


Se la maturità dell’uva fosse sempre completa, e che la temperatura dell’atmosfera fosse costantemente favorevole alla fermentazione, ella si opererebbe benissimo sola, e senza soccorso dell’arte; ma queste condizioni sono talmente variabili, che non si possono sempre sperare risultati soddisfacenti. Il suco può per molte ragioni trovarsi in troppo piccola quantità nel frutto per somministrare al vino la quantità di spirito necessaria. Bisogna allora riparare il torto della natura, aggiungendo al mosto quel principio zuccherino del quale ne à essenzialmente bisogno. Gli antichi che sentivano la necessità di questo metodo, aggiungevano del miele al prodotto della vendemmia. Ecco le sperienze di questo genere, fatte da uomini celebri, i risultati autentici delle quali meritano intera confidenza.

Nel mese di ottobre 1776 Macquer si procurò delle uve bianche di pineau 1, e di meslier 1,

[p. 105 modifica]la cui maturità era tanto ritardata, che la metà dei grappoli era verde a segno che non si poteva sopportare l’acidità. Dopo levata la marcita, fece pestare tutto colle mani. Il succo torbidissimo era di un verde sporco, e talmente acido, che non si poteva assaggiarne senza ripugnanza. Avendo fatto sciogliere in questo mosto quanto basta di zucchero brutto per fargli acquistare il sapore zuccherino di un buon vino dolce, lo mise in una botte, e lo pose senza precauzione in una sala in fondo al giardino. Tre giorni dopo la fermentazione era incominciata, e terminò in capo ad otto. Questo vino aveva in seguito acquistato un sapore, che sebbene un poco aspro, era ben compensato dall’odore vivo, piccante, e vinoso che spargeva: il suo primo sapore, e lo zucchero aggiunto erano interamente scomparsi.

Il vino lasciato nella sua botte sino alla metà di marzo, era divenuto chiaro senza alcuna preparazione, ed aveva qualche cosa di più dolce, e più midolloso. Messo in bottiglie, ed assaggiato nel mese di ottobre 1777 era chiaro, squisito, brillantissimo, aggradevole al gusto, generoso, caldo, ed eguale in tutto a vino proveniente da una buona vigna, in un buon anno. Questo è il giudizio dei più intendenti, che non ànno mai potuto credere, che provenisse da uve verdi corrette dallo zucchero.

Questo successo di Macquer m’impegnò a fare una nuova sperienza ancora più decisiva, per l’estrema verdura, e la cattiva qualità di uva, che ò impiegata.

Li sei novembre 1777 feci cogliere da una [p. 106 modifica]pergolata in un giardino di Paris, di quelle uve, che servono a fare dell’agresta. Sebbene la stagione forse avanzatissima, era appena formata, ed era abbandonata come uva, che non poteva più maturire. Era dessa così dura, che sono stato obbligato farla scoppiare sul fuoco per cavare lo succo, il quale era tanto acido, che mi abbisognò una maggior quantità di rottame per condurlo al sapore zuccherino Questo miscuglio, dove il zucchero, e l’acido dominavano separatamente, in modo assai pronunciato, era molto spiacevole.

Lo posi in vaso in una sala, la cui temperatura fu costantemente dal 12 al 13 grado.

Li 14 la fermentazione era così violenta, che una candela presentata allo spazio voto del vaso si estingueva subito.

Li 30 la fermentazione aveva cessato.

Il vino sebbene torbido, e biancastro, non aveva più quasi niente di zuccherino: il di lui sapore era vivo, piccante, assai aggradevole, come quello di un vino generoso, caldo, ma un poco aspro.

Li 17 marzo, era quasi rischiarato. Il sapor zuccherino, e l’acido erano scomparsi, e gli restava quello di un vino di pura uva, assai forte, il quale potendo guadagnare colla fermentazione insensibile, promette diventare generoso, succoso, ed aggradevole. Queste sperienze facendoci conoscere l’azione della materia zuccherina, ci provano chiaramente, ch’ella solo può rimediare al difetto di maturità del frutto, e convertirsi in principio spiritoso.

Un gran numero di persone, cui questo metodo è ancora straniero, e che perciò non può [p. 107 modifica]apprezzare i vantaggi, potrà obbiettare, può darsi, che la compra del miele, del mielazzo, dello zucchero accresceranno a pura perdita le spese della fabbrica del vino. Noi c’impegniamo ad appellarsene alla sperienza, le lezioni della quale non si scordano mai; acquisteranno presto la prova convincente, che qualunque sia la spesa in materia zuccherina, sarà ben inferiore ai grandi vantaggi che procura.

Il marchese de Boullion, che per il primo à fatte sperienze esatte sopra il mosto, aggiungeva ad ogni moggio della cattiva uva di pergola del suo parco di Bellejames da quindici a venti libbre di zucchero. Con questo mezzo ricavò un vino di buona qualità.

Le proporzioni, che à indicate Rozier da lungo tempo, sono quelle di una libbra di miele sopra dugento libbre di mosto.

Se la bietola-rossa, che si à tanto tormentato per ricavare lo zucchero, che contiene, potesse perdere colla fermentazione il gusto terroso, che à d’ordinario, servirebbe senza dubbio nello stato di siroppo a rimpiazzare vantaggiosamente le diverse sostanze, che abbiamo indicate a quest’oggetto.

Nelle contrade settentrionali la fermentazione è sempre lenta, ed imperfetta per la poca maturità dell’uva, e per l’abbondanza della parte acquosa, che divide, ed allunga la piccola quantità di zucchero, che contiene. Si può disimbarazzarsi facilmente da questa porzione di acqua soprabbondante facendo seccare l’uva, esponendola in stufe, mettendo nella tina del gesso 2, come facevano già [p. 108 modifica]antichi, o ciò ch’è più da preferirsi, facendo bollire il mosto nella proporzione di venti a trenta pinte per ogni trecento bottiglie. Questo modo di correggere il mosto sembra rimontare ad una rimota antichità. Se si crede alla storia riferita da Fabroni, e che si trova l’Egitte de Mutardi ben Gasif, autore arabo, Noè, essendo sortito dall’arca, ordinò a ciascheduno de’ suoi figli di fabbricare una casa. Si occuparono in seguito a seminare, ed a piantare degli alberi, dei quali avevano trovati nell’arca e gli acini, e i frutti. La sola vite mancò a Noè, che non potè trovare giammai. Gabriele l’avvertì allora, che il diavolo l’aveva rubata, perchè era in diritto di farlo. Noè lo fece venire subito, e gli disse: Oh maledetto! perchè mi ài tu tolta la vite? Perchè mi appartiene, rispose. Dividetela, riprese Gabriele. Vi acconsento, continuò Noè, e glie ne lasciò un quarto. Non basta per lui, dice Gabriele. Ebbene! Ne prenderò io una metà, ed egli l’altra. Ciò non basta ancora, replicò [p. 109 modifica]Gabriele. Bisogna ch’egli ne abbia due terzi, e ta un solo, e quando il tuo mosto avrà bollito sul fuoco, sino che sia consumato due terzi, ti sarà accordato l'uso del resto.

Bisogna aver cura di non far bollire, che del mosto che non abbia fermentato, perchè senza questo, il suco che si otterrebbe, sarebbe propriissimo a dare al vino dell’asprezza, ed a farlo guastare prontamente. L’acido che contiene agendo benissimo sul rame, non solo gli comunicherebbe un gusto disaggradevole, ma potrebbe anche incomodare le persone che lo bevessero. Si evita tale pericolo, facendo questa operazione in vaso di rame stagnato 3. [p. 110 modifica]Se il mosto è troppo denso, o troppo zuccherino, il che non arriva mai nei nostri climi, si può allungarlo con acqua, e meschiarlo molto. Ma bisogna ricordarsi che la fermentazione dev’essere modificata, secondo la natura dalle uve, la qualità dei vini, e l’uso cui si destinano. Nei paesi freddi, sopra tutto, importa praticare i diversi modi di affrettare, di sviluppare la fermentazione. Essi si riducono ai seguenti:

1. Introdurre del mosto bollente, secondo il metodo indicato dietro Maupin.

2. Follare tratto tratto per ristabilire la fermentazione, e renderla attiva, ed eguale in tutti i punti della tina.

3. Coprire la tina con coperchj, e turare esattamente tutti i buchi che potrebbero dar sortita all’aria. Inalzare la temperatura dell’atmosfera nella stauza dove si fa fermentare.

Note

  1. 1,0 1,1 Varie specie di uva. — Il Trad.
  2. Si proceda però cautamente col gesso, giacchè è noto che deglutito agisce sull’economia animale come un potente veleno. Ad un tale oggetto tendono gli avvisi di E. F. Heistero (Delect. Opusc. med. T. Frank. T. III p. 311.) relativi all’attenzione de’ principi per la salute dei sudditi. E questo giudizioso scrittore, e il giovine P. Frank (Manuale di Tossicologia p. 45. Ed. di Parma 1805.) e il D. G. A. Unzer (Bibl. med. brown germ. V. v. p. 70.) ànno unanimi descritti in modo spaventoso gli effetti di questo avvelenamento.— Il trad.
  3. Avvenenza importantissima, non solo nella operazione accennata, ma in ogni altro uso di detti vasi di rame nella cucina. Oltre i moltiplici luttuosi esempj che rapportano molti scrittori, ò avuto l’amarezza di essere io stesso l'inutile testimonio dell’avvelenamento crucioso di un povero questuante. Aveva mangiato in un casale di campagna dei fagiuoli bolliti in pentola di rame con carne salata porcina, alcune ore dopo che giacevano in essa lungi dal fuoco, avanzo di quelli che avevano, ore prima, servito alla famiglia. Si trovano eccellenti precetti sull’arte di stagnare apunto in Chaptal (Op. cit. T. II p. 376). Nella superba opera di Fourodoy (Systême des connaissances chimiques ec. T. VI., p. 264, Paris an IX.), nel cap. I. della terza parte di questo stesso trattato, dei quali consiglio caldamente di farne il più gran conto possibile. — Il Trad.