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è cosi svantaggioso come che che sia. Vivete felici, e lasciate gli studi, che vogliono gran fatica; o coltivategli a dovere, che portano gran fama. Se non che la vanitá della vita è maggiore che l’utilitá. Per me non è piú tempo a deliberare: voi altri considerate quello che sia piú spediente. — E cosi dicendo spirò». Altre cose dette da Teofrasto vicino a morte si trovano mentovate da Cicerone e da san Girolamo, e sono piú divulgate; ma non fanno al nostro proposito. Per queste che abbiamo veduto, si risolve che Teofrasto in etá di sopra cent’anni; avendola spesa tutta a studiare e scrivere, e servire indefessamente alla fama; ridotto, come dice Suida, all’ultimo della vita per l’assiduitá medesima dello scrivere; circondato da forse duemila discepoli, eh’è quanto dire seguaci e predicatori delle sue dottrine; riverito e magnificato per la sapienza da tutta la Grecia, moriva, diciamo cosi, penitente della gloria, come poi Bruto della virtú. Le quali due voci, gloria e virtú, non veramente oggi, ma fra gli antichi sonavano appresso a poco il medesimo. E però Teofrasto non seguitò dicendo che la stessa gloria le piú volte è opera della fortuna piuttosto che del valore; il che non si poteva dire anticamente cosi bene come oggidí: ma se Teofrasto l’avesse potuto aggiungere, non mancava al suo concetto nessuna parte che esso non fosse ragguagliatissimo a quello di Bruto. Questi tali rinnegamenti, o vogliamo dire, apostasie da quegli errori magnanimi che abbelliscono o piú veramente compongono la nostra vita, cioè tutto quello che ha della vita piuttosto che della morte, riescono ordinarissimi e giornalieri dopo che l’intelletto umano coll’andare dei secoli ha scoperto, non dico la nuditá, ma fino agli scheletri delle cose, e dopo che la sapienza, tenuta dagli antichi per consolazione e rimedio principale della nostra infelicitá, s’è ridotta a denunziarla e quasi entrarne mallevadrice a quei medesimi che, non conoscendola, o non l’avrebbero sentita, o certo l’avrebbero medicata colla speranza. Ma fra gli antichi, assuefatti com’erano a credere, secondo l’insegnamento della natura, che le cose fossero cose e non ombre, e la vita umana destinata ad altro