Colombi e sparvieri/Parte III/I
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I.
Una notte Columba, agitata dall’insonnia, s’alzò e scese in cucina.
Il nonno aveva già ribattuto i piuoli sul muro del portico come prima delle nozze di Banna, ed ella aveva finito di spezzare le mandorle e di pulire il grano per i dolci e il pane dello sposalizio. Ancora una settimana e sarebbe sposa; le sembrava già di veder le bisacce appese qua e là nella cucina e nel portico, le pecore squartate, le galline appese a testa in giù col sangue che sgocciolava dai becchi aperti e faceva una piccola buca rossa nella polvere del cortile; tuttavia le pareva che ancora lungo tempo dovesse passare prima di Pentecoste. A Pentecoste doveva far quasi caldo, mentre adesso il vento e il freddo regnavano ancora sul paese e sui monti.
Dopo il bel tempo di Pasqua la pioggia tanto invocata era giunta in abbondanza, seguita anche dalla neve; nuvole grigie e rosse salivano continuamente dal mare e anche quando il sole splendeva sopra la valle, Monte Bardia e Monte Albo, Monte Acuto e Monte Gonare, da un capo all’altro dell’orizzonte si guardavano attraverso un velo di nebbia come quattro vecchioni seduti in mezzo al fumo attorno a un focolare di pietra. Passava il vento e spegneva il sole: allora tutto era triste davvero; la pioggia scrosciava fragorosa e i viottoli del paese diventavan torrenti. Poi di nuovo il sole brillava, il cielo diventava simile a un mosaico azzurro e grigio e in lontananza verso l’agro di Siniscola un raggio di sole illuminava una striscia verde che sembrava acqua ed era invece un campo di orzo già alto. Tutti i cespugli della valle eran fioriti, ma curvi, arruffati, sfogliati, quasi avviliti dalle incessanti frustate del vento. Che primavera melanconica! Pareva che la terra e gli elementi fossero in disaccordo: la prima s’ostinava a sorridere ed a fiorire, il vento la schiaffeggiava come un amante feroce.
E Columba aveva anche lei un aspetto di donna percossa; aveva la schiena fiaccata dalle notti insonni, il pensiero pieno di nebbia, e nulla tranne la sua angoscia la interessava.
Neppure le chiacchiere delle sue vicine di casa intorno ai più importanti avvenimenti di quei giorni, — il ritorno definitivo in paese del vecchio Arras, la festa ci San Francesco, la scomparsa di Dionisi Oro il mendicante, — la scuotevano dalla sua idea fissa, Dionisi s’era appunto recato alla festa campestre e non aveva più fatto ritorno; le donnicciuole ogni tanto penetravano nella casupola di lui, nera puzzolente come una tana di cinghiale, e ne uscivano tenendosi su le gonne o scuotendo la testa.
— Dev’esser morto.
— Deve aver seguito qualche altro mendicante, recandosi con lui alle feste di Fonni....
— L’hanno veduto qui, l’hanno veduto là.... L’avranno ammazzato.... si sarà trovato presente a qualche fatto di sangue e l’avranno soppresso perchè non testimoniasse....
Il ritorno di zio Innassiu Arras diede un diversivo alla curiosità delle donne. I parenti e gli amici del vecchio fecero una specie di questua per lui, ottenendo una capra o qualche altro capo di bestiame da quasi tutti i pastori del paese; così gli formarono un gregge ed egli riprese l’antica vita. Solo alla domenica lo si vedeva in chiesa rigido e solenne, con la sua lunga barba in colore del granito, calmo come un patriarca che avesse passato tranquillamente la sua vita tra i suoi figliuoli e i suoi nipoti. All’uscita di chiesa andava a sedersi sulle panchine della piazza con gli altri vecchioni, o si recava da Jorgj Nieddu.
Un giorno nel passare davanti alla casa dei Corbu vide il nonno sul limitare della porta intento a ritagliare un pezzo di canna per farne un astuccio da fiammiferi. Si salutarono con un cenno del capo, ma sul viso di entrambi passò un sorriso di reciproco scherno; mentre gli occhi verdastri del nonno guardavano il bastone biforcuto, il mite vincastro al quale l’ex-bandito era tornato dopo tanti anni di fiera ribellione, gli occhietti porcini di zio Innassiu fissavano il coltellino e l’astuccio di canna del suo nemico: ed entrambi pareva si dicessero con lo sguardo:
«Ecco a che cosa sei ridotto!»
★
Columba accese il fuoco e preparò il caffè. Il nonno era assente e la sua stuoia arrotolata e appoggiata all’angolo dietro il focolare pareva vegliasse anch’essa nella notte fredda aspettando il ritorno del vecchio. Il vento sibilava nel cortile. Appena Columba aprì la porta per andare a prender la legna dal portico, un odore di erba e di terra bagnata la colpì, ricordandole l’odore della stamberga di Jorgj.
Tenendosi coi denti il fazzoletto che il vento voleva portarle via, prese la legna, rientrò e chiuse; ma l’odore la seguiva, ed egli era lì, davanti a lei, piccolo e cereo in viso come un bambino morto, immobile sul suo letto tutto bianco in fondo alla stamberga nera. Sì, ella aveva fatto questo: era andata due volte da lui: la prima volta la notte di Pasqua, senza osare di avanzar dalla porta, poi una mattina all’alba, prima che le vicine si alzassero. Egli dormiva con la testa avvolta in un fazzoletto bianco; il suo viso era ancora più bianco del fazzoletto, e i capelli neri divisi sulla fronte, il cerchio violetto delle palpebre, l’ombra sopra il labbro superiore si vedevano da lontano.
Sembrava un bimbo, un bimbo morto; era diventato così piccolo, doveva esser leggero come un uccellino. Ecco perchè Pretu riusciva a sollevarlo e ad aiutarlo come un fratellino minore. Ed ella era fuggita senza svegliarlo, s’era chiusa in casa, aveva ripreso a vagare per le camere e i nascondigli quasi cercando il suo Jorgj d’altri tempi, quello che l’aveva baciata e insultata, offesa e abbandonata. Ma non le riusciva più di trovarlo: era sparito per sempre, lo studente protervo, il nemico di nonno Corbu; era morto, soffocato forse dalle sue collere e dal suo orgoglio; ed era un altro Jorgj quello che adesso giorno e notte viveva nel pensiero di lei, un piccolo Jorgj debole, un bambino morente....
A volte ella desiderava di andare ancora da lui, di prenderlo fra le sue braccia e cullarlo sul suo seno.
Il suo desiderio era simile a quello di una madre per un suo bambino lontano, e anche la sua gelosia, al pensiero che un’altra donna era là, accanto a lui, che lo curava e lo baciava, che giorno per giorno glielo prendeva tutto, era la terribile gelosia della madre per un’altra donna che il suo bambino ama più di lei. Davanti a questa passione materna sparivano i rimorsi, la pietà, l’amore, la stessa gelosia d’amante. Il pensiero che Jorgj morisse senza perdonarle, portandosi al di là il ricordo dell’altra, la straziava giorno e notte.
Tutto questo non le impediva di dare l’ultima mano ai preparativi per le nozze. Anche quella, notte, fatto ch’ebbe il caffè ne bevette una tazza, poi un’altra; depose il lume sopra una sedia accanto al focolare e si mise a cucire.
Il cane mugolava di tanto in tanto, altri cani rispondevano, e il vento nella valle pareva l’eco di questi lamenti irrequieti. Columba sollevava la testa ricordando le notti di terrore della sua infanzia, quando la mamma ascoltava paurosa il vento che annunzia disgrazia; poi ripensava ai convegni con Jorgj, alla sua paura di venir scoperti, e le pareva di sentir ancora i passi di lui, nella strada, così leggeri che i palpiti del suo cuore le sembravan più forti.
Ma è un inganno del suo cuore? Ecco che esso palpita di nuovo come allora, così forte che i passi ch’ella crede di sentire, ch’ella sente davvero davanti alla sua porta, risuonano meno. Per un attimo un velo lo cade davanti agli occhi e la separa dal presente; egli è lì.... egli è lì.... e batte con le unghie alla porta. È guarito, o forse è morto: ad ogni modo s’è alzato, ed è là, come un tempo, e la vuole....
D’un balzo fu alla porta e aprì senza neppure domandare chi fosse.
— Zia Colù Sono io! Ho veduto luce e ho detto: forse lei deve fare il pane. Datemi un po’ di fuoco, perchè il mio padrone si sente male, e il mio carbone è così umido che non si accende, malanno al tempo! Vi siete spaventata?
Pretu entrò con una tegola in mano e andò dritto al focolare.
— Tu stai lì anche alla notte? Che ha? — domandò Columba con voce rauca.
— No, di notte non ci sto quasi mai, ma si sentiva male già da ieri e allora donna Mariana ha voluto che io dormissi là.... Lei ci ha regalato anche una macchinetta a spirito, ma io ho paura ad accenderla può scoppiare e allora è come se entrasse in casa il diavolo. Vi sentite male anche voi?
— Mi sono alzata perchè ho da lavorare. Prendine, prendine pure, — ella disse, spingendo con la paletta la brage nella tegola. — Che ha?
— Lo so io il male che ha! E viziato, adesso. Gli farò un po’ di caffè. Voi l’avete già fatto?
— Senti. Pretu: vuoi prenderne un po’ in una scodella?... Ebbene, gli dirai che lo avevi già pronto....
— Sì! Uomo da ingannarsi così, quello! E tutt’occhi....
— Va, va, anima mia. — ella disse, visto che il ragazzo s’indugiava. — Magari, dopo, se si addormenta, ritorni....
Dalla porta vide la figurina nera di lui scender la strada rasentando il muro: il vento rapiva un po’ di scintille dalla tegola; i cani urlavano nelle tenebre come anime infernali.
«Io vado....» — disse Columba a sè stessa, e sceso lo scalino attirò a se la porta: ma il vento gliela prese di mano e la respinse, quasi per significarle che faceva male ad allontanarsi di casa sua. Ella risalì lo scalino, richiuso, aspettò il ragazzo.
«Jorgj morrà; ecco perchè il vento sibila e i cani gemono. Madonna mia del Consolo, egli s’è ammalato per colpa mia e una straniera bada, a lui.... una che non lo conosceva, che non lo ha veduto ragazzo, che non ha ballato con lui!...»
Sedette di nuovo accanto al fuoco e nascose il viso fra le mani. Eccolo, egli è di nuovo davanti a lei, piccolo, cereo, magro.... È ancora bambino: la matrigna lo bastona ed egli fugge attraverso il viottolo: dall’alto si volge e piange e ride nello stesso tempo, mentre lei, Columba, curva sulla finestra, lo segue con uno sguardo di beffa crudele....
«Da bambina ero cattiva, — pensa in un momento di lucidità cosciente. — Perchè avevo piacere che la matrigna lo bastonasse? E adesso? È la stessa cosa. E Banna è cattiva con me, e il nonno peggio ancora.... Noi lo abbiamo bastonato, il povero orfano: lo abbiamo ridotto così, entro quel letto, così piccolo, così giallo.... E la straniera....»
Il ricordo della straniera le dava un tremito nervoso; tutto il dispetto e il rancore che aveva nutrito per Jorgj, adesso si riversavano sopra Mariana.
«Ma io vado e glielo riprendo; io vado e appena egli mi vede dimentica l’altra. Essa non può volergli bene: essa, m’han detto, si lava le mani dopo che lo ha toccato, e non rimane a vegliarlo alla notte. Io posso star là cento notti, mille notti, senza stancarmi, finchè egli guarirà. E poi? E il mio sposo? Ebbene, che egli vada in ora mala....»
Adesso le sembra di odiare anche il suo sposo. Di nuovo si alza, respinge col piede il cestino da lavoro, torna alla porta. Il vento e i cani mugolano sempre più lamentosi; forse Jorgj muore.... Columba chiude la porta, lotta un po’ col vento che le solleva le vesti, scende il viottolo rasentando il muro, come ha visto fare a Pretu.... Il suo fazzoletto svolazza come un grande uccello nero, contro il muro; ma arrivata all’angolo della casa dove questa svolta verso il cortile di Jorgj, un colpo più furioso di vento la investe tutta. Ha mutato parere, il vento; adesso la spinge laggiù, verso la porticina nera filettata di oro, laggiù, verso il suo destino....
II.
Quando la vide apparire sulla porta, Pretu accoccolato presso il fornello a mano in attesa che il pentolino del caffè bollisse, diede un grido di sorpresa.
Jorgj invece guardò silenzioso senza muoversi sembrandogli di continuare a sognare. Una delle tante figure che la febbre faceva correre intorno a lui s’avanzava nella stamberga illuminata da un moccolino deposto accanto a Pretu, mentre l’ombra enorme del servetto copriva tutto il soffitto movendosi sfrangiata sulle pareti come un ragno mostruoso. S’avanzava... s’avanzava.... Era Columba....
E Columba si tirava il fazzoletto sugli occhi mordendone le cocche per un istinto di nascondersi, o per celare e frenare il suo turbamento: ma arrivata davanti al letto cadde in ginocchio, come un giorno il mendicante, affondò il viso