XXXVIII. — L'Antiquario

../XXXVII ../XXXIX IncludiIntestazione 31 maggio 2022 75% Da definire

XXXVII XXXIX

[p. 211 modifica]

CAPITOLO XXXVIII.

L’ANTIQUARIO.

Era la vigilia di Pasqua — tutto si trovava in ordine nel castello — ed i proscritti che non eran di guardia stavano con Orazio, Attilio e le donne nella vasta sala da pranzo. — Là dopo una cena lieta ed alcuni brindisi patriottici — per rallegrar la serata — poichè bisognava tenersi desti e stare sull’avviso per qualunque cosa potesse succedere — Emilio l’antiquario chiese permesso al suo comandante di narrare una sua istoria alla brigata — e così cominciò: —

«Giacchè noi dovremo viaggiare per sotterranei e catacombe — vi voglio raccontare un fatto — che accadde proprio a me, or fan pochi anni, nelle vicinanze di Roma.

«Voi ricordate il superbo Mausoleo di Cecilia Metella, eretto dal padre in onore della figlia morta dodicenne. — Anche quel mausoleo voi sapete — è l’orgoglio delle rovine — e come il Pantheon — è una [p. 212 modifica] delle meglio conservate. — Ciò che voi non sapete forse, si è l’esistenza dell’immensa catacomba, che comincia nell’interno del monumento — e non si sa dove vada a finire.

«Un giorno — io mi proposi d’investigar da me le latebre di quell’immenso sotterraneo; — mi sembrò che facendolo accompagnato avrei menomato il merito dell’impresa — quindi nel mio orgoglio giovanile ed inconsiderato — mi accinsi ad eseguirla da solo.

«Provvisto di un voluminoso gomitolo di filo — un mazzo di torcie — pane in sacoccia ed un fiasco di vino a tracolla — mi avventurai di buon mattino nel seno della terra — legai un capo del filo all’entrata della catacomba e cominciai il mio misteriosa viaggio.

«Cammina — cammina — sotto quelle tetre vôlte — più avanzavo e più cresceva in me la curiosità di scoprire.

«Pare impossibile — come l’essere umano destinato da Dio alla superficie della terra — godendone i frutti — e la luce benedetta del sole — si sia condannato a quelle tenebre eterne — e vi abbia lavorato tanto per costruirsi — simile alla talpa — un’abitazione sicura — ma spaventosa! — [p. 213 modifica] Dovevano essere ben infelici e fieramente perseguiti coloro che si procuravano questa terribile dimora — a furia di tante fatiche! — E molto ricco doveva essere chi pagava l’ecuzione di opere sì gigantesche.

«Mentre questi pensieri — mi passavano per la mente — io camminava al chiaror del mio cero — scioglievo il filo del gomitolo — e procedevo — procurando di seguire la direzione indicata dalla ristretta linea dell’imboccatura. — Ma coll’andare innanzi il sotterraneo si dilatava e presentava tra le colonne di tufo, che ne sostenevano l’immenso tetto — vari anditi — che conducevano in direzioni diverse — e un po’ fantastiche e fuori di simmetria — come se l’architetto avesse voluto gettare nell’inganno il visitatore — raggirandolo in una specie d’inestricabile labirinto.

«Tutte queste viste ed osservazioni m’inquietavano alquanto — e dico il vero: qualche volta mi sentivo fallire il coraggio — ed ero sul punto di tornare indietro — ma l’amor proprio mi gridava: vergogna! a che tanti preparativi per fare un fiasco? e allora mi adontavo contro me stesso per la mia paura. — Poi non avevo in mano il filo salvatore, che doveva ricondurmi a rivedere il cielo? [p. 214 modifica]

«E cammina, e cammina — sgomitolando il mio filo — ed accendendo un nuovo cero a misura che si consumava l’acceso!

«Giunsi finalmente al termine — non del sotteraneo. ma del mio filo — e con mio dispiacere riscontrai che non avevo nella mia impresa scoperto altro che la terribile solitudine che mi stava ancora davanti. Stanco — forse alquanto scoraggiato di dover rifare sì lungo tratto di strada — me ne stavo lì — preoccupato dalla vanità delle ricerche e dalla noja della mia posizione. — Stringevo il filo che temevo di perdere e contemplando il lume che temevo di spegnere — credo che dovessi essere alquanto istupidito — quando uno strascinare — come di veste di donna — si fece udire dietro di me — e mi destò quasi di soprassalto. — Curioso, sorpreso, impaurito mi volgo verso la parte dove mi pareva aver udito il fruscio — ma nell’atto di volgermi — un soffio spegne il lume — il filo mi vien strappato di mano. — robuste braccia cingono e stringono le mie in modo da stritolarmi le ossa — ed un panno mi viene avvolto intorno alla testa forse per bendarmi gli occhi, ma in guisa da impedirmi quasi la respirazione. [p. 215 modifica]

«Il presentimento del pericolo — spesso è peggiore del pericolo stesso: — ed io che veramente era stato colpito da timore al primo segno dell’avvicinarsi di qualcuno — come fui in potere di quel qualcuno — sentendomi condotto per mano come un bambino — il timore si dileguò e camminai francamente dietro la guida.

«Benchè cogli occhi bendati — m’accorsi che un nuovo lume era stato acceso: — dal tocco e dai passi che io udiva accanto a me — conobbi ch’ero guidato da esseri viventi — non da spiriti — ma le mie scoperte rimasero lì, — ed in tal guisa procedetti per vari minuti.

«Finalmente la benda mi fu levata — e allora i miei occhi poterono vedere che ero stato condotto — con mio gran stupore — in un salotto magnificamente illuminato, in mezzo al quale stava una mensa imbandita — ed intorno una ventina di gioviali e festosi commensali.»

Durante il racconto dell’antiquario — un sorriso di compiacenza — velato d’una tal quale mestizia — sfiorava la ruvida guancia di Gasparo. — Quando il primo ebbe finito, il vecchio si levò, avvicinossi — lo prese per la mano — la scosse — e con voce commossa: [p. 216 modifica] «quelli erano bei tempi, amico caro!» sclamò — poi dirigendosi alla brigata: «Io allora abitavo» — continuò — «le catacombe colle mie bande — e gli sgherri di Roma — pria di avventurarsi in questa immensa campagna — erano soliti a far testamento.

«La donna che vi spense il lume, e che poi fu ben gentile con voi — come lo era con tutti — era la mia Alba — morta non è molto dal dolore de’ miei patimenti e della mia prigionia.

«Oh!» esclamò alla sua volta l’antiquario, eravate dunque quello seduto in capo alla mensa — e tenuto in tanto rispetto dai vostri — che un sovrano non potrebbe esser di più?

«Era io,» rispondeva dolorosamente il bandito. «Gli anni hanno corrugata questa fronte — e s’è imbiancato il pelo — tra i ferri e le sevizie di quegli scellerati che si chiamano ministri di Dio — la mia sola coscienza è rimasta pura! — Io ho trattato ogni creatura infelice benignamente — e lo potete attestar voi — se vi fu torto un capello — se alcun danno v’incolse tra noi. — Certo! ho voluto abbassare quei superbi sibariti, che vivono nel vizio e nella lussuria — a spese dell’umanità sofferente — come [p. 217 modifica]ora coll’aiuto vostro e di Dio — vecchio come sono — io non dispero — di vedere la mia patria libera da quei mostri.

«Sì» — rispose l’antiquario affettuosamente — «io fui trattato con gentile cortesia dalla vostra donna e da voi — e lo ricorderò tutta la vita con gratitudine.» — Poi rivolto ai compagni, proseguì: — «scosso dalla fatica del viaggio — forse dalle commozioni dell’incontro, rimasi due giorni febbricitante in quel sotterraneo — e in tutto quel tempo — ebbi cordiali affettuosissime cure da quell’amabile Alba — la quale non solo di ogni cosa necessaria mi provvide — ma assiduamente mi visitava al mio capezzale.

«Dopo due giorni — rinvigorito — appena ne feci richiesta, fui condotto per una nuova via che mi parve lieve — alla luce del sole — che io aveva creduto sulle prime di non più rivedere. — La nuova uscita delle catacombe si trovava nella foresta. — Data la mia parola d’onore di mantenere il segreto sulla mia involontaria scoperta — uno della banda mi scortò sulla via di Roma.»