Clelia/XIX
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CAPITOLO XIX.
LE TERME DI CAEACALLA.
Lascio pensare a voi quale scompiglio vi fosse in Roma il giorno quindici febbrajo — che seguì la notte tragica di Palazzo Corsini
— Un andirivieni — un diavolio per le strade — un chiedersi: «che è — che non è? — È ora di menar le mani? — Di mandare a rotoli questo esoso temporale e lo spirirituale con lui?»
Frattanto i tre cadaveri penzolavano dalle finestre — e siccome in quella tana di birbanti — uno diffidava dell’altro — niuno ardiva di avvicinarsi alla stanza fatale — per non suscitare sospetti. — Finalmente, un battaglione straniero — che la paura dei preti aveva richiesto — comparve nella Lungara — ed invase l’immenso palazzo. — I soldati se la ridevano sotto i baffi nel vedere appiccati i due chercuti e l’eunuco. — Senza nessuna reverenza al mondo s’andavan dicendo fra loro «Che bei salami! — Se ne hanno esposti per mostra tre — vuol dire che ne ha molti il pizzicagnolo.»
Nella folla ognuno diceva la sua — mentre i soldati davano opera a far rientrare i cadaveri.
«Lasciali andar giù a rompicollo — avrai più presto fatto,» diceva l’uno. «Maneggia il pesce che non ti strappi,» diceva l’altro — e tutti — a fischiare — mentre sforzandosi i soldati a tirar su il corpulento cadavere di Procopio — si spezzava la fune — e il corpo precipitava sul lastrico con grande fracasso.
Nella folla, mentre durava l’osceno schiamazzo — il mendico diceva a Silvio:
«Questo popolaccio mi nausea — esso ama ridere di tutto — Pasquino solo ci rimane dell’antica Roma. — Io vorrei che questo popolo avesse la gravità, con cui i nostri padri — nel Foro — vendevano e comperavano ad alto prezzo il terreno occupato dalle schiere di Annibale vincitore — oppure eleggevano un Dittatore per salvare la Repubblica in pericolo — senza ingannarsi mai nella scelta. — Ma quanto tempo dovrà passare — prima di averlo degno ancora dell’antica fama — corrotto com’è dai preti? — Di tutti i danni fatti da questi impostori al nostro paese — il più imperdonabile è la corruzione con cui han potuto talmente snaturarlo.»
«Cosa vuoi?» rispondeva Silvio. «Il servaggio fa dell’uomo una belva — e questo nostro è stato il più maligno, il più perverso di quanti si conoscono. — I chercuti hanno il garbo di farci schiavi e farci adorare i nostri tiranni.»
Così discorrendo i due amici quasi istintivamente s’avviarono verso lo studio d’Attilio — che trovarono dinanzi la mensa modestamente imbandita - — alla quale parteciparono di tutto cuore. — Dopo d’avere ragguagliato l’amico delle faccende del giorno — i tre si sdrajarono per cercare un po’ di riposo — ed era loro ben necessario dopo le fatiche della notte.
Verso le dieci della sera, — i nostri tre amici giungevano alle Terme di Caracalla; — ove sappiamo che i trecento dovevano riunirsi.