Cattive compagnie (Deledda)/La lepre
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LA LEPRE.
In mezzo ad un’isoletta, che a sua volta emergeva in mezzo ad un fiume larghissimo, splendeva un piccolo lago d’argento verdognolo, o meglio uno stagno circondato di pioppi e di salici, di cespugli di gaggia selvatica, di erbe alte, carnose e vellutate, fiorite di strani girasoli violacei. Riflessa da questo piccolo stagno, la natura circostante pareva più bella e fantastica, come nell’opera di un artista.
Di giorno lo sfondo del cielo autunnale, con le sue tinte cangianti e le sue nuvole capricciose; di notte la grande luna rossastra, le stelle vivissime, i fantasmi tremuli dei pioppi, riprodotti dallo specchio profondo del lago, davano al luogo un aspetto romantico.
Il cacciatore che aveva lasciato il suo canotto sull’orlo fragile dell’isoletta deserta, e aveva segnato sulla sabbia vergine le sue orme di uomo primitivo, un sera vide appunto la luna grande e rosea affacciarsi tra i pioppi; la rivide, più bella, entro il piccolo stagno, e per un momento si fermò, con gli occhi fissi sul quadro luminoso dell’acqua, affascinato da quel mondo ignoto, da quel cielo lontano e misterioso che appariva come nel cuore della terra. Una vecchia lepre, che abitava fra le macchie di gaggia della riva, vide l’uomo nero, il nemico per lei mostruoso, e scappò agile e silenziosa, lunga e con le orecchie rigide e dritte come coltelli pronti alla difesa.
L’uomo rimase coi suoi sogni: la lepre perdette i suoi, ma si salvò. Arrivata nel più folto del bosco si raggomitolò sotto un cespuglio nero, e stette lungamente in ascolto, sporgendo e ritirando il musino tremante. Il suo cuore batteva forte, come da mesi e mesi non batteva più.
Sì, dopo le ultime inondazioni, durante le quali le lepri che abitavano risola erano completamente scomparse, o cacciate, o prese dai pescatori, o travolte dal fiume invasore, la vecchia lepre s’era creduta sola padrona del luogo, e aveva sognato di vivere tranquilla per tutto il resto dei suoi giorni. Era vecchia, stanca, sola. I suoi piccini l’avevano abbandonata; i leproni non la volevano più. Tanto valeva starsene tranquilla in un angolo solitario dell’isola, senza paure e senza pericoli.
Durante la primavera, nel tempo delle inondazioni, era vissuta fra alcuni tronchi che la corrente aveva trasportato sulla riva alta, sopra lo stagno. Nessuno si arrischiava ad attraversare il deserto paludoso dell’isola, e anche dopo, quando la sabbia s’era indurita e l’erba aveva ricoperto le rive dello stagno, i cacciatori e i pescatori non s’erano fatti più vivi.
Silenzio e solitudine. Gli usignuoli soltanto, dall’alto dei pioppi, accompagnavano col loro canto il tremolar delle foglie che salutavano l’acqua corrente. Dicevano le foglie, che pareva si fossero immerse in un bagno di luna:
— Addio, acqua: meglio correre che star fermi.
E l’acqua, che andava verso il mare, rispondeva:
— Addio; meglio star fermi che correre sempre.
La vecchia lepre ascoltava, e si sentiva allegra e credeva d’esser più forte dei pioppi e più agile dell’acqua, perchè aveva la soddisfazione di poter correre o star ferma a suo piacere.
I mesi passarono: gli usignuoli tacquero, le foglie dei pioppi cominciarono a cadere. La vecchia lepre si sentiva sicura e tranquilla come non lo era stata mai: ed ecco che improvvisamente il fantasma nero e terribile ricompariva! Che veniva a fare?
Raggomitolata sotto il cespuglio, coi grandi occhi immobili sotto le palpebre rossastre, essa scorgeva in lontananza un tratto di sabbia circondato di macchie e illuminato dalla luna: era una specie di piazza, dove anche lei, nei tempi felici della sua giovinezza, aveva saltato e corso dietro la propria ombra, o aveva atteso il suo amante, nelle notti di luna.
Un’ombra passò laggiù, poi un’altra: la vecchia lepre credette di sognare. Le ombre però ritornarono, si fermarono, ripresero la loro corsa fantastica. Non c’era da sbagliarsi: erano due lepri. La vecchia solitaria comprese allora perchè il nemico nero, il cacciatore notturno, era ricomparso nell’isola.
E una rabbia feróce, quanto può esserlo la rabbia d’una lepre, le agitò nuovamente il cuore. Invece di convincersi che ritenendosi oramai sola nell’isola si era ingannata, le parve che i suoi simili avessero ripreso possesso del luogo senza averne il diritto.
La vecchiaia e la solitudine l’avevano resa selvatica ed egoista: le dispiacque più la ricomparsa delle lepri che quella del nemico nero, e quando uscì dal suo nascondiglio per avanzarsi fino alla radura sabbiosa, e si accorse che le due lepri erano due amanti, il suo dolore si fece più acuto e più rabbioso.
Questo non impedì che le due lepri continuassero a divertirsi, a saltare, a correre. La femmina era grassa, con le orecchie quasi diafane, rosee all’interno, bionde al di fuori: era civetta, correva intorno al maschio fingendo di non vederlo, si sdraiava lunga sulla sabbia, saltava e scappava quando l'amante le si avvicinava. L’amante invece, magro e consunto di passione e di piacere, non vedeva che lei, non faceva altro che correrle dietro e saltarle addosso. Erano felici; allegri, incoscienti come tutti gli amanti felici.
La vecchia lepre non si saziava di guardarli, e anche quando la coppia graziosa, stanca di salti e di carezze, sparve dalla radura, lei rimase al suo posto di osservazione, raggomitolata, ma con le orecchie dritte, frementi come due foglie secche mosse dal vento.
*
I giorni e le notti passarono, la luna declinò, le sere si fecero buie.
La vecchia lepre non tornò in riva allo stagno. Aveva paura del cacciatore. Nascosta nel più folto del bosco, solo qualche notte si avanzava fino alla radura, dove i due amanti giocavano allegramente.
Un giorno, però, sentì un colpo di fucile, poi un altro, poi altri ancora, vaghi, lontani, come ripetuti dall’eco.
E quella notte, per quanto fosse una notte da innamorati, dolce, tiepida, e la luna nuova declinasse dietro i pioppi oramai spogli, i due amanti non ricomparvero.
Il nemico nero doveva averli presi. La vecchia ne provò tale gioia feroce, che si mise a saltare sulla sabbia ancora segnata dalle orme dei poveri amanti.
Ma il rumore d’un passo d’uomo la costrinse a fuggire: cieca, anelante, s’internò nel bosco, arrivò fin quasi all’altra riva del fiume, e rimase nascósta fino all’alba in un luogo dove prima non era mai stata.
All’alba si mosse. La nebbia velava il bosco, le macchie stillavano grosse goccie d’acqua gelata. La lepre fece un giro di perlustrazione, scese sino in fondo ad una specie di piccola valle, e scoprì una cosa che, nonostante tutta la sua cattiveria, la intenerì e la commosse. Trovò un nido di leprotti! Erano due, questi leprotti; grassolini, con le orecchie diafane, gli occhioni immobili e lucenti: dovevano essere i figli della coppia uccisa dal cacciatore.
Uno dei leprotti leccava le orecchie e la testa al fratellino, e quando vide la vecchia lepre la guardò e sporse e ritirò il musino con un po’ di paura.
La vecchia passò oltre, ma più tardi ritornò ancora e rivide i due poveri leprotti che giocavano e si leccavano a vicenda.
Era una giornata triste, fredda: verso sera cominciò a piovere e la vecchia lepre ritornò al suo antico nido fra i tronchi, sulla riva alta dello stagno. Pioveva e pioveva. La vecchia lepre non si rattristava per questo. Anzi! La pioggia significava la fine della bella stagione, e quindi la solitudine e la sicurezza. La sabbia dell’isola si sarebbe presto rammollita: il cacciatore non s’arrischierebbe più ad attraversare il bosco umido e nudo.
E i poveri leprotti? Che ne sarebbe di loro, in fondo alla piccola valle? La vecchia solitaria ricordava i suoi piccini, il tepore del nido, le gioie materne? Non è facile saperlo; ma è certo che verso l’alba scese dal suo nascondiglio e andò a vedere i leprotti. Le povere bestiole dormivano, l’una sull’altra, ma anche nel sonno dovevano aspettare la madre, perchè quando la vecchia lepre si avvicinò allungarono il musino e scossero le orecchie.
E la vecchia li guardava, coi suoi grandi occhi umidi, e anch’essa sporgeva il muso come fiutando l’odore del nido.
*
Ricominciò a piovere. Per otto giorni e otto notti un velo grigio di nebbia e di pioggia avvolse e coprì l'isola. Lo stagno parve riempirsi di un inchiostro nero argenteo e l’acqua salì, salì, arrivò fin quasi al rifugio della lepre. Questa aveva tentato di ritornare ancora verso il nido dei leprotti, ma qua e là, intorno al suo rifugio, la sabbia si era spaccata e impregnata d’acqua. Impossibile arrivare fino alla piccola valle. E pioveva e pioveva: s’udiva un rumore lontano, pauroso, come il rombo di un esercito nemico che passasse invadendo e distruggendo ogni cosa.
La vecchia lepre conosceva bene quel rombo, che era la voce cupa del fiume vincitore, e non osava più muoversi dal suo rifugio, tormentata dal freddo e nutrendosi solo con qualche foglia secca. Un giorno dovette star digiuna perchè l’acqua arrivava proprio fino ai tronchi del rifugio, ed era pericoloso muoversi di lassù.
L’acqua saliva, saliva, grigiastra, cupa, silenziosa. Il cielo, la terra e l’aria, paravano oramai composti solo d’acqua fredda e sporca.
Ma la sera dell’ottavo giorno la pioggia cessò, e tutto d’un tratto le nuvole s’aprirono. Qua e là fra la nebbia cinerea apparve il cielo verdastro, e in una spaccatura di nuvola brillò, come nella profondità di una miniera, l’argento dorato della luna.
L’acqua calò, parve ritirarsi, stanca di conquista, trascinandosi dietro un bottino di fronde, di rami, di sabbia, di animaletti morti.
L’indomani il sole illuminò il luogo desolato, e la lepre, bagnata e affamata, uscì dal suo nascondiglio e potè riscaldarsi e guardarsi intorno.
Lo stagno era scomparso: un fiume lento e fangoso passava sotto la riva alta che aveva resistito come un argine: e l’acqua continuava a trasportare le sue vittime e il suo bottino.
Ed ecco che fra i rami nudi e le foglie secche e fra mille bollicine che parevano le perle d’una collana rotta, la lepre vide i due leprotti morti. Lunghi stecchiti, con gli occhi spalancati e le orecchie dritte, essi correvano, correvano sull’acqua, sempre l’uno accanto all’altro da buoni fratellini che anche dopo morti si volevano bene.
Oramai la vecchia lepre era proprio sola nell’isola.