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dove entrava col cavallo nella chiesa di Santa Maria ed egli e i suoi cortigiani, ritti sulle staffe, abbeverassero i cavalli nella pila dell’acqua santa.
Noti so quale dei due fatti tornasse più ostico ai vassalli del marchese. Cito a memoria cose udite da bambino, e non ho tempo a dilungarmi in queste minutaglie della storia. Il certo si è che i finarini perdettero la pazienza, e mentre Genova ne pigliava ansa a tornare su Castelfranco, i maltrattati e disputati sudditi si richiamavano contro il loro marchese e contro il doge di Genova, al tribunale del sacro Romano Impero; che, imitando il giudice famoso della favola esopiana, volle per sè il feudo aleramico e vi mandò commissarii a governarlo in suo nome.
Ciò fu nell’anno 1568. Tre anni dopo vi si allogarono gli Spagnuoli, per avere una rada sicura donde procurarsi la via più spedita al milanese; e signoreggiarono il marchesato, spendendovi tesori, fino al 1713; nel quale anno Carlo VI lo vendè per sei milioni di lire alla repubblica di Genova. Questa a sua volta lo tenne, quantunque agognato, e per due anni anche carpito dai duchi di Savoia, fino al giorno della ingloriosa sua morte.
Vedete mo’ quante vicende in quattro palmi di terra! Ma altri luoghi d’Italia ebbero peggio, e per le divisioni dei popoli, e per le gare dei maggiorenti; donde le ambizioni dei condottieri, le male arti dei principi e le armi straniere in casa nostra. L’esempio di ciò che patirono gli avi, insegni la concordia e la temperanza ai nipoti.
Torno indietro fino al 1450, per dire ai lettori benevoli che questo racconto può non aver annoiati del