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VI. Poemetti guerreschi - La guerra senza poeti

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LA GUERRA SENZA POETI

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Tempo è di dare quel che fu promesso.
Popolo, assai giovò muovere in cerca
3di un’altra Italia, e ritrovar te stesso!

Ripreso ha ’l sonno, e lascia oggi a la Berca
le macchine pulsare il marabutto.
6Ma che si trae di Libia? e che si merca?

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Sterminati poderi eran da frutto
le arene rosse nel supremo sforzo
9per cui tu desti l’oro, il sangue, tutto!

Or negano il frumento, e scarso l’orzo
ti prometton le zone sizïenti
12da cui speravi tutto il tuo rinforzo.

Sì pochi al natìo greto son gli stenti,
forse, che cerchi più selvagge steppe
15e senza polle per i tuoi armenti?

O forse ti fiorisce ne le zeppe
metropoli la sorte del lavoro,
18e d’agi sì gran fonte aprir ti seppe,

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da coltare i deserti co ’l tesoro
che tu avanzi ove l’erbe l’ortolano
21a peso d’or ti vende, a peso d’oro?

Sibilano questi echi di lontano
a le coste che ne l’armi per poco
24non folgorò l’evento sovrumano,

quando i tuoi fantaccini sotto il fuoco
de’ fucilieri arabi a manciate
27le palle raccattavano per giuoco.

E, speranze di guerra pur mo’ nate,
gli ascari, più veloci che destrieri,
30proteggeano l’eroiche avanzate.

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Sempre a la luce che rifulse ieri
ne la mente una grigia ombra s’addopa.
33Ma non per fasciar d’ombra i tuoi pensieri

fuor de la notte l’arco e la metopa
quindici secoli esce a trionfare,
36mentre a la vecchia civiltà d’Europa

risorride la culla e il focolare.
Natìe virtù, ne l’anima risorte
39con le reliquie! E tu, che dove il mare

disuniva la stirpe, unica forte,
carità patria, ad integrarla sei!
42Troppo divine per rimaner morte

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sotto le dune, giù negl’ipogei,
con la forza rompeste che il germoglio
45urge perchè la pianta si ricrei.

Com’è del fiore, che nel suo rigoglio
si va sfacendo: i petali cadenti
48piovono a terra da l’inerte invoglio;

e prima via se ’n portarono i venti
a grandi ondate il polline fecondo,
51così nel lor destino anche le genti.

Quello ch’è più possente dal suo fondo
con la vita c’ha in sè vassene altrove,
54e muore in esse quel ch’è moribondo.

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Nè, forse, a gli occhi le bruttezze, dove
il deserto saggiò la repentina
57forza de l’armi, tutte apparver nuove.

E l’adultera tenda beduina
soffermò, forse, e fe’ chinar la fronte
60di sè pensosa, la virtù latina.

Questa spargea su le sanguigne impronte
tutto ’l nerbo che i popoli solleva,
63di rinascite empiendo l’orizzonte.

E dietro a lei la civiltà longeva
seppe lo stremo. Come ’l fiore vizzo
66qualcosa anche di qua sfatto cadeva;

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l’anima stanca, che non dà più guizzo,
le vane audacie de l’idea senz’ali,
69lo scetticismo, in cor fumido tizzo.

Un’altra gente usciva a le campali
fatiche da le case ove s’ingabbia
72avvezza a sopportar disagi e mali.

Un’altra gente, monda d’ogni scabbia,
cibava il rancio là dove al convito
75companatico al pane era la sabbia.

E quando riparar vide l’ardito
ufficiale dal tiro che non sbaglia
78portando in collo il soldato ferito,

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ell’aprì gli occhi a la legge che agguaglia,
ciascun giogo d’umana sudditanza
81ne la fraternità de la battaglia.

Quella fede ch’è sol forte abbastanza
quando davanti al tripode idolatrio
84il martire ne afferma la costanza,

le franchigie così del suolo patrio
munìa: chè, dove rondano i predoni,
87guai a la casa se indifeso è l’atrio.

E tu bensì mentre a l’ascesa sproni,
o socïale idea, pacata e bella
90del tuo raggio il pensiero alto coroni:

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l’antica belva in cor non si cancella;
e ne gli assalti de la fame eterna
93la ferocia de l’uomo è sempre quella,

Rosseggiò prima dentro la fraterna
pupilla astiosa de la pingue greggia;
96rosseggiò quando ne la sua caverna

su strati d’ossa la silicea scheggia
al sangue confricava il troglodita;
99da l’irte baionette ancor rosseggia.

Ecco, la furia che parea sopita
nel tempo più da studii utili arriso
102e leggiadre arti, in mezzo, ecco, a la vita

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da ignoti abissi scagliasi. Improvviso
ne’ volti umani erra la sfida atroce:
105— uccidere per non essere ucciso — .

Questa, sol questa. Nessun’altra voce.
Nè amor di patria nè odio di razza
108nè fede alcuna l’impeto feroce

co ’l grido inebria che di piazza in piazza
preme le folle e va: come il rovaio
111polverulento cielo e terra spazza.

Questa, sol questa. E un luccicor d’acciaio
ne gli occhi dove imperano i decreti
114del più forte, impassibili al carnaio.

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Trista la guerra che non ha poeti!
Senz’amor, senza odio, ecco, le loro
117valli lasciano, i lor monti, i quïeti

lor focolari, l’urbano ristoro
lasciano, meta a’ lucri ed a’ risparmi,
120le pacifiche squadre del lavoro,

e senza inni, prendono le armi
docili al muto voler che sovrasta.
123Chi agiterà su i morituri i carmi?

Quando da i fati cui non si contrasta,
uomo, per rivelar la tua grandezza
126sorge il dovere, la sua voce basta.

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Tutto ella innova allorchè tutto spezza:
solo per lei la vita che combatte
129 tanto più vale quanto più si sprezza.

Chè di là sempre ove il cimento ha tratte
le spade esce un vigore più profondo
132a far potenti e libere le schiatte.

Palpito ferve ed ansia il furibondo
cozzo: e balzar da i materni ginocchi
135vede al dominio un'età nuova il mondo

che di secolo in secolo apre gli occhi.