Canti (Leopardi - Ginzburg)/Amore e Morte

XXVII. Amore e Morte

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Giacomo Leopardi - Canti (1819 - 1831)
XXVII. Amore e Morte
Il pensiero dominante A se stesso

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XXVII

AMORE E MORTE

Ὅν οἱ θεοὶ φιλοῦσιν, ἀποθνήσκει νέος.
Muor giovane colui ch’al cielo è caro.

.



     Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte
ingenerò la sorte.
Cose quaggiú sí belle
altre il mondo non ha, non han le stelle.
5Nasce dall’uno il bene,
nasce il piacer maggiore
che per lo mar dell’essere si trova;
l’altra ogni gran dolore,
ogni gran male annulla,
10Bellissima fanciulla,
dolce a veder, non quale
la si dipinge la codarda gente,
gode il fanciullo Amore
accompagnar sovente;
15e sorvolano insiem la via mortale,
primi conforti d’ogni saggio core.
Né cor fu mai piú saggio
che percosso d’amor, né mai piú forte
sprezzò l’infausta vita,
20né per altro signore

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come per questo a perigliar fu pronto:
ch’ove tu porgi aita,
Amor, nasce il coraggio,
o si ridesta; e sapiente in opre,
25non in pensiero invan, siccome suole,
divien l’umana prole.

     Quando novellamente
nasce nel cor profondo
un amoroso affetto,
30languido e stanco insiem con esso in petto
un desiderio di morir si sente:
come, non so: ma tale
d’amor vero e possente è il primo effetto.
Forse gli occhi spaura
35allor questo deserto: a sé la terra
forse il mortale inabitabil fatta
vede omai senza quella
nova, sola, infinita
felicitá che il suo pensier figura:
40ma per cagion di lei grave procella
presentendo in suo cor, brama quiete,
brama raccorsi in porto
dinanzi al fier disio,
che giá, rugghiando, intorno intorno oscura.

     45Poi, quando tutto avvolge
la formidabil possa,
e fulmina nel cor l’invitta cura,
quante volte implorata
con desiderio intenso,
50Morte, sei tu dall’affannoso amante!
quante la sera, e quante
abbandonando all’alba il corpo stanco,
sé beato chiamò s’indi giammai
non rilevasse il fianco,

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55né tornasse a veder l’amara luce!
E spesso al suon della funebre squilla,
al canto che conduce
la gente morta al sempiterno obblio,
con piú sospiri ardenti
60dall’imo petto invidiò colui
che tra gli spenti ad abitar sen giva.
Fin la negletta plebe,
l’uom della villa, ignaro
d’ogni virtú che da saper deriva,
65fin la donzella timidetta e schiva,
che giá di morte al nome
sentí rizzar le chiome,
osa alla tomba, alle funeree bende
fermar lo sguardo di costanza pieno,
70osa ferro e veleno
meditar lungamente,
e nell’indotta mente
la gentilezza del morir comprende.
Tanto alla morte inclina
75d’amor la disciplina. Anco sovente,
a tal venuto il gran travaglio interno
che sostener nol può forza mortale,
o cede il corpo frale
ai terribili moti, e in questa forma
80pel fraterno poter Morte prevale;
o cosí sprona Amor lá nel profondo,
che da se stessi il villanello ignaro,
la tenera donzella
con la man violenta
85pongon le membra giovanili in terra.
Ride ai lor casi il mondo,
a cui pace e vecchiezza il ciel consenta.

     Ai fervidi, ai felici,
agli animosi ingegni

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90l’uno o l’altro di voi conceda il fato,
dolci signori, amici
all’umana famiglia,
al cui poter nessun poter somiglia
nell’immenso universo, e non l’avanza,
95se non quella del fato, altra possanza.
E tu, cui giá dal cominciar degli anni
sempre onorata invoco,
bella Morte, pietosa
tu sola al mondo dei terreni affanni,
100se celebrata mai
fosti da me, s’al tuo divino stato
l’onte del volgo ingrato
ricompensar tentai,
non tardar piú, t’inchina
105a disusati preghi,
chiudi alla luce omai
questi occhi tristi, o dell’etá reina.
Me certo troverai, qual si sia l’ora
che tu le penne al mio pregar dispieghi,
110erta la fronte, armato,
e renitente al fato,
la man che flagellando si colora
nel mio sangue innocente
non ricolmar di lode,
115non benedir, com’usa
per antica viltá l’umana gente;
ogni vana speranza onde consola
sé coi fanciulli il mondo,
ogni conforto stolto
120gittar da me; null’altro in alcun tempo
sperar, se non te sola;
solo aspettar sereno
quel dí ch’io pieghi addormentato il volto
nel tuo virgineo seno.