Canti (1831)/All'Italia

I. All'Italia

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Lettera dell'Autore agli amici suoi di Toscana Sopra il monumento di Dante

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O patria mia, vedo le mura e gli archi
E le colonne e i simulacri e l’erme
Torri de gli avi nostri,
Ma la gloria non vedo,
5Non vedo il lauro e ’l ferro ond’eran carchi
I nostri padri antichi. Or fatta inerme,
Nuda la fronte e nudo il petto mostri.
Oimè quante ferite,
Che lividor, che sangue: oh qual ti veggio,
10Formosissima donna. Io chiedo al cielo
E al mondo: dite dite;
Chi la ridusse a tale? E questo è peggio
Che di catene ha carche ambe le braccia;
Sì che sparte le chiome e senza velo
15Siede in terra negletta e sconsolata,
Nascondendo la faccia

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Tra le ginocchia, e piange.
Piangi, chè ben hai donde, Italia mia,
Le genti a vincer nata
20E ne la fausta sorte e ne la ria.

     Se fosser gli occhi miei due fonti vive,
Non potrei pianger tanto
Ch’adeguassi il tuo danno e men lo scorno;
Chè fosti donna, or se’ povera ancella.
25Chi di te parla o scrive,
Che, rimembrando il tuo passato vanto,
Non dica; già fu grande, or non è quella?
Perchè, perchè? dov’è la forza antica,
Dove l’armi e ’l valore e la costanza?
30Chi ti discinse il brando?
Chi ti tradì? qual arte o qual fatica
O qual tanta possanza
Valse a spogliarti il manto e l’auree bende?
Come cadesti o quando
35Da tanta altezza in così basso loco?
Nessun pugna per te? non ti difende
Nessun de’ tuoi? L’armi, qua l’armi: io solo
Combatterò, procomberò sol io.
Dammi, o ciel, che sia foco
40A gl’italici petti il sangue mio.

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     Dove sono i tuoi figli? Odo suon d’armi
E di carri e di voci e di timballi:
In estranie contrade
Pugnano i tuoi figliuoli.
45Attendi, Italia, attendi. Io veggio, o parmi,
Un fluttuar di fanti e di cavalli,
E fumo e polve, e luccicar di spade
Come tra nebbia lampi.
E taci, e piangi, e i tremebondi lumi
50Piegar non soffri al dubitoso evento?
A che pugna in quei campi
L’itala gioventude? O numi, o numi:
Pugnan per altra terra itali acciari.
Oh misero colui che in guerra è spento,
55Non per li patrii lidi e per la pia
Consorte e i figli cari,
Ma da nemici altrui
Per altra gente, e non può dir morendo:
Alma terra natia,
60La vita che mi désti ecco ti rendo.

     Oh venturose e care e benedette
Le antich’età, che a morte
Per la patria correan le genti a squadre;
E voi sempre onorate e gloriose,

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65O tessaliche strette,
Dove la Persia e ’l fato assai men forte
Fu di poch’alme franche e generose.
Io credo che le piante e i sassi e l’onda
E le montagne vostre al passeggere
70Con indistinta voce
Narrin siccome tutta quella sponda
Coprìr le invitte schiere
De’ corpi ch’a la Grecia eran devoti.
Allor, vile e feroce,
75Serse per l’Ellesponto si fuggia,
Fatto ludibrio a gli ultimi nepoti;
E sul colle d’Antela, ove morendo
Si sottrasse da morte il santo stuolo,
Simonide1 salia,
80Guardando l’etra e la marina e ’l suolo.

     E di lagrime sparso ambe le guance,
E ’l petto ansante, e vacillante il piede,
Toglieasi in man la lira:
Beatissimi voi,
85Ch’offriste il petto a le nemiche lance
Per amor di costei ch’al Sol vi diede;
Voi che la Grecia cole, e ’l mondo ammira.
Ne l’armi e ne’ perigli

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Qual tanto amor le giovanette menti;
90Qual ne l’acerbo fato amor vi trasse?
Come sì lieta, o figli,
L’ora estrema vi parve, onde ridenti
Correste al passo lagrimoso e duro?
Parea ch’a danza e non a morte andasse
95Ciascun de’ vostri o a splendido convito:
Ma v’attendea lo scuro
Tartaro, e l’onda morta;
Nè le spose vi fòro o i figli accanto
Quando su l’aspro lito
100Senza baci moriste e senza pianto.

     Ma non senza de’ Persi orrida pena
Ed immortale angoscia.
Come lion di tori entro una mandra
Or salta a quello in tergo e sì gli scava
105Con le zanne la schiena,
Or questo fianco addenta or quella coscia;
Tal fra le pérse torme infuriava
L’ira de’ greci petti e la virtute.
Ve’ cavalli supini e cavalieri;
110Vedi ingombrar de’ vinti
La fuga i carri e le tende cadute,
E correr fra’ primieri

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Pallido e scapigliato esso tiranno;
Ve’ come infusi e tinti
115Del barbarico sangue i greci eroi,
Cagione a i Persi d’infinito affanno,
A poco a poco vinti da le piaghe,
L’un sopra l’altro cade. Oh viva, oh viva:
Beatissimi voi
120Mentre nel mondo si favelli o scriva.

     Prima divelte, in mar precipitando,
Spente ne l’imo strideran le stelle,
Che la memoria e ’l vostro
Amor trascorra o scemi.
125La tomba vostra è un’ara; e qua mostrando
Verran le madri a i parvoli le belle
Orme del vostro sangue. Ecco i’ mi prostro,
O benedetti, al suolo,
E bacio questi sassi e queste zolle,
130Che fien lodate e chiare eternamente
Da l’uno a l’altro polo.
Deh foss’io pur con voi qui sotto, e molle
Fosse del sangue mio quest’alma terra.
Che se ’l fato è diverso, e non consente
135Ch’io per la Grecia i moribondi lumi
Chiuda prostrato in guerra,

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Così la vereconda
Fama del vostro vate appo i futuri
Possa, volendo i numi,
140Tanto durar quanto la vostra duri.


Note

  1. [p. 25 modifica]„Il successo delle Termopile fu celebrato veramente da quello che in essa canzone s’introduce a poetare, cioè da Simonide, tenuto dall’antichità fra gli ottimi poeti lirici, vissuto, che più rileva, ai medesimi tempi della scesa di Serse, e greco di patria. Questo suo fatto, lasciando l’epitaffio riportato da Cicerone e da altri, si dimostra da quello che scrive Diodoro nell’undecimo libro, dove recita anche certe parole d’esso poeta in questo proposito, due o tre delle quali sono espresse nel quinto verso dell’ultima strofe. Rispetto dunque alle predette circostanze del tempo e della persona, e da altra parte riguardando alle qualità della materia per se medesima, io non credo che mai si trovasse argomento più degno di poema lirico, nè più fortunato di questo che fu scelto, o più veramente sortito, da Simonide. Perocchè se l’impresa delle [p. 26 modifica]Termopile fa tanta forza a noi che siamo stranieri verso quelli che l’operarono, e con tutto questo non possiamo tener le lagrime a leggerla semplicemente come passasse, e ventitre secoli dopo ch’ell’è seguita; abbiamo a far congettura di quello che la sua ricordanza dovesse potere in un greco, e poeta, e de’ principali, avendo veduto il fatto si può dire, cogli occhi propri, andando per le stesse città vincitrici d’un esercito molto maggiore di quanti altri si ricorda la storia d’Europa, venendo a parte delle feste, delle maraviglie, del fervore di tutta una eccellentissima nazione, fatta anche più magnanima della sua natura dalla coscienza della gloria acquistata, e dall’emulazione di tanta virtù dimostrata pur allora dai suoi. Per queste considerazioni, riputando a molta disavventura che le cose scritte da Simonide in quella occorrenza, fossero perdute, non ch’io presumessi di riparare a questo danno, ma come per ingannare il desiderio, procurai di rappresentarmi alla mente le disposizioni dell’animo del poeta in quel [p. 27 modifica]tempo, e con questo mezzo, salva la disuguaglianza degl’ingegni, tornare a fare la sua canzone; della quale io porto questo parere, che o fosse maravigliosa, o la fama di Simonide fosse vana, e gli scritti perissero con poca ingiuria.„ Lettera dedicatoria premessa alle edizioni di Roma e di Bologna.