Voltaire

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Candido Parte I
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VOLTAIRE



Nella camera di Voltaire, che si conserva intatta nel silenzioso castello di Ferney, e nella quale si sente ancora sì fresca l’orma del filosofo, attrasse i nostri sguardi un piccolo ritratto di papa. Un papa in casa del nemico implacabile d’ogni formola religiosa? C’era bene di che maravigliarsene. Ma sotto al ritratto leggemmo queste parole: «Papa Clemente XIV, indignato dalle dottrine perverse e dalla politica ambigua dei gesuiti, distrusse la loro potenza formidabile e li spogliò delle immense ricchezze acquistate coll’intrigo.» Era la spiegazione: Voltaire dava l’ospitalità al papa, il quale, colla sconfitta della Società dei gesuiti, compì la coraggiosa lotta che egli aveva sostenuto con tanto ardore. E ancor oggi i gesuiti, rinati come l’idra lernea, si vendicano di lui col dipingerlo a paurosi colori e coll’inventargli colpe e difetti, quasichè non bastassero quelli che realmente ebbe pur troppo. In Voltaire vi sono due uomini, scriveva il nostro Giuseppe Ferrari: quello che scrisse nel 1718 l’Edipo e la Marianna e l’Enricheide, e quello che compose il Saggio sui costumi e sullo spirito delle nazioni: il primo si prostra ai piedi di re Luigi XIV, il secondo è il demolitore della società corrotta, il precursore della grande rivoluzione.

Gli uni fan nascere Francesco di Voltaire il 20 febbrajo 1694: gli altri il 20 novembre dello stesso anno: vi sono medaglie battute per lui che portano quale l’una quale l’altra data. Appena nato era sì debole che pareva dovesse morire da un momento all’altro: e il battesimo fu protratto di parecchi mesi. Adolescente di 12 anni scrisse alcuni versi che parvero buoni e fu presentato dall’abate Châteauneuf alla famosa e vecchia cortigiana Ninon de Lenclos, che piacendogli il piccolo prodigio, gli lasciò nel suo testamento 2000 lire perchè comperasse libri. Voltaire confessa che questo fatto lo avviò più risolutamente verso le lettere, mentre il padre voleva fargli studiare giurisprudenza: a 18 anni compose la tragedia [p. 4 modifica]Edipo e a 24 la fece rappresentare. Bizzarro qual era, alla prima rappresentazione si mostrò al pubblico come comparsa, portando la coda del gran sacerdote. La marescialla di Villars trovò che ciò era spiritoso: fece venire Voltaire nel suo palco, lo presentò al duca di Richelieu, e il giovane ebbe di botto due protezioni potenti e l ’ invidia dei rivali. E quest’ultima fu più forte della prima: giacchè Voltaire pensò nel 1726 di recarsi in Inghilterra, dove fu accolto con gran festa dal re Giorgio I e dalle principesse di Galles. Ivi fece stampare la sua Enricheide, poema ricalcato sui precetti scolastici, nel quale intendeva celebrare Enrico IV, il re più popolare di Francia. Ma il genio di Voltaire non istava nell’entusiasmo della fantasia poetica, bensì nella critica: e il poema è tanto freddo e indifferente quanto sono vivi e mordenti i suoi lavori di satira e di esame. Per questo egli odiava Rousseau, nel quale vedeva, non solo il suo più grande emulo, ma altresì le qualità che a lui mancavano, fra cui l’abbondanza del sentimento. La prima volta che i due filosofi si videro, Rousseau gli mostrò una sua Ode alla posterità. «Amico mio, gli rispose Voltaire, ecco una lettera che non perverrà mai al suo indirizzo.» Quel frizzo fece aperta la discordia latente fra i due.

Sul teatro non trovava sempre conforti. Il Bruto, che è forse la sua tragedia più fortemente scritta, fu molto criticata; della Zaira si fece una parodia alla Commedia italiana, col titolo: I fanciulli trovati; fu invece assai applaudita l’Alzira, alla rappresentazione della quale egli non assisteva. «Per questa mia assenza, diceva Voltaire, ebbe buon successo: laudantur ubi non sunt, sed cruciantur ubi sunt. La Merope, rappresentata il 20 febbrajo 1743 fu applaudita assai; e a noi italiani ricorda la polemica che sostenne contro il Maffei di Verona, autore della tragedia dello stesso titolo. Nondimeno, le tragedie, per conoscenza di effetti scenici, sono fra le sue opere migliori.

Per dilettare la sua marchesa di Chatelet, colla quale s’era messo a studiare fisica, compose la Pulzella d’Orleans, opera biasimevole sotto ogni aspetto, sia per le oscenità che contiene, sia per l’oltraggio ad una grande figura patriotica. [p. 5 modifica]

Nella Storia di Carlo XII ha il merito di trattare di un eroe dotato di grandi virtù guerresche senza lodare le guerre: fatto istoriografo di Francia scrisse il Secolo di Luigi XIV, opera superficiale e tutta panegirico. Una commediola fatta per la bella signora d’Etoile, che diventò poi marchesa di Pompadour, gli procacciò il favore di questa favorita reale che lo fece nominare gentiluomo di camera del re, colla facoltà, che caratterizza l’epoca corrotta, di vendere la carica per far danaro, e di conservarne il titolo.

Federico, re, di Prussia, che aveva pretese di letterato, lo chiama alla sua corte, lo fa ciambellano, lo carica di croci, gli regala 20 mila lire all’anno di pensione: colà Voltaire visse tranquillo alcun tempo quando fu perduto dalla sua maligna lingua. Un giorno stava correggendo l’opera di uno scrittore, quando il re gli mandò alcuni versi da lui scritti perchè li rivedesse. «Mio caro, disse Voltaire allo scrittore ch’era con lui: uno alla volta; ecco il re che mi manda la sua biancheria sporca da lavare: laverò la vostra dopo.» Il motto fu riferito a Federico; e questi, offeso nella sua doppia vanità di re e di letterato, gli mandò a ritirare la chiave di ciambellano. Nel renderla, Voltaire vi aggiunse un epigramma, nel quale diceva che «la restituiva con dolore, come l’amante geloso, in un momento di cattivo umore, rende il ritratto della sua bella.» La chiave gli fu rimandata, ma Voltaire partì da Berlino.

Dopo varie vicende lo troviamo a Ferney, signoria ch’egli acquistò perchè era franca d’ogni servitù e assolutamente libera. Quella terra era stata danneggiata dalla revoca dell’editto di Nantes, impolitico atto d’intolleranza che privò la Francia di operosi protestanti e quando Voltaire comperò, il castello, non v’erano che alcune capanne abitate da quarantanove contadini. Egli fece costruire cinquanta case in pietra, ajutò i contadini, accolse i perseguitati d’ogni paese che a lui ricorrevano e in pochi anni il borgo ridivenne popoloso e fiorente per industria. Là vivevano in pace protestanti e cattolici; e rispettando le vicendevoli credenze, si ajutavano perfino nelle funzioni dei rispettivi culti. E intanto il nostro filosofo scriveva il Trattato della tolleranza. [p. 6 modifica]

— Vedete, diceva Voltaire a’ viaggiatori che si recavano a visitarlo, questa iscrizione sulla chiesuola che ho fatto costrurre? Deo erexit Voltaire. E a Dio padre comune di tutti gli uomini: e forse è la sola chiesa dedicata a Dio solo.

Quando il filosofo, in età di 84 anni, lasciò il diletto soggiorno di Ferney, per rivedere Parigi, Beniamino Franklin si recò a visitarlo e gli presentò un suo nipote perchè lo benedicesse. «Dio e la libertà, disse Voltaire, ecco la benedizione che si addice al nipote di Franklin.»

Voltaire è accusato di trattare la storia con un sistema prestabilito, cercando a tutti i grandi fatti le cause più piccole, a tutti gli avvenimenti un’origine nel caso. Nei romanzi satirici (de’ quali il Cardido è il più importante) scoppia libero ed argutissimo il riso della satira. Ma, a differenza di Rousseau, dopo aver atterrato i pregiudizi, non edifica nulla nel posto lasciato dalla distruzione. Come demolitore però non ha chi l’uguagli; bastano a dimostrarlo la vigorosa carica a fondo nel Saggio sui costumi e sullo spirito delle nazioni, nel quale scompigliò tutte le tradizioni con indipendenza di giudizio senza pari. Ed egli diceva di sè stesso: «Io ho fatto di più che Lutero e Calvino insieme.»

Prima di morire ebbe la maggiore delle soddisfazioni: l’apoteosi che gli rese tutta Parigi, inebbriata dal suo genio, e alla quale si unì il fiore dei letterati e dei filosofi d’ogni paese. A lui corone d’alloro, quando non erano ancora avvilite ai piedi di mime: a lui statue quando l’onore era più raro, a lui inni d’entusiasmo da quel popolo che undici anni dopo danzava sulle rovine della Bastiglia atterrata.

Una pagina simpatica della sua vita fu la difesa delle vittime del sistema giudiziario e della prepotenza e nel rivendicare l’innocenza oppressa consacrò gli ultimi anni: anzi udendo che si rendeva giustizia a un martire, per il che egli aveva tanto combattuto, scriveva pochi giorni prima di morire (anno 1778). A questa grande notizia il morente risuscita un istante!»