Ben Hur/Libro Settimo/Capitolo IV
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Traduzione dall'inglese di Herbert Alexander St John Mildmay, Gastone Cavalieri (1900)
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CAPITOLO IV.
La carovana, allungantesi nel deserto, presentava un aspetto molto pittoresco; il suo muoversi sembrava lo svolgersi delle spire di un serpente. A poco a poco quella tediosa lentezza divenne intollerabile a Balthasar, ch’era di solito così paziente, e, dietro suo suggerimento, la compagnia si decise di proseguire da sola.
Se il lettore è giovane, o se ancora serba un ricordo del romanticismo della sua gioventù, s’immaginerà il piacere col quale Ben Hur, cavalcando vicino al cammello degli Egiziani, diede un ultimo sguardo alla lunga colonna oramai quasi scomparsa nella pianura scintillante.
La presenza di Iras esercitava un grande fascino sopra il giovane Ebreo. S’ella lo guardava dall’alto, dal suo posto, egli si affrettava ad avvicinarsi a lei; s’ella gli parlava, il suo cuore palpitava violentemente. Il desiderio di compiacerla sempre divenne un impulso costante. Gli oggetti sulla via, sebbene comuni, divenivano interessanti allorchè ella vi rivolgeva la sua attenzione; una rondine librantesi nell’aria, se essa la segnava a dito, sembrava sparire in una aureola luminosa; se un pezzo di quarzo, un fiocco di mica, luccicavano nella sabbia sotto i raggi del sole, in un lampo egli volava a portarglieli e s’ella li gettava via in segno di delusione, lontana dal pensare alla fatica che gli erano costati, spiacente che fossero stati di nessun valore, egli si metteva in cerca di qualche cosa di meglio — un rubino, o forse un diamante. Così il colore purpureo dei monti lontani diveniva più intenso e più bello, s’ella lo scorgeva e vi dedicava una esclamazione di lode. E quando ogni tanto la tenda dal baldacchino si abbassava, gli sembrava che una improvvisa oscurità scendesse dal cielo. Così disposto, cullato da quella dolce influenza, come avrebbe potuto resistere a lungo alla malìa della bella Egiziana, cui la solitudine del deserto accresceva la potenza pure aumentando il pericolo?
In amore, il più debole fisicamente è spesso il più forte. L’eroe diventa come la cera, nelle mani di una fanciulla. Iras era pienamente conscia del potere che esercitava sull’animo di Ben Hur. Fin dal mattino aveva estrato una reticella di monete d’oro da un ripostiglio nel baldacchino e se l’era accomodata in modo che le frange lucenti cadessero sulla fronte e sopra le guancie, confondendosi con l’ammasso dei suoi capelli neri. Dal medesimo ripostiglio aveva preso alcuni monili — anelli, orecchini, un vezzo di perle ed uno scialle ricamato con fili d’oro — completando l’effetto del tutto con una sciarpa di trina Indiana, artisticamente drappeggiata sopra le spalle. In questo abbigliamento essa attirava Ben Hur con innumerevoli civetterie, con mille lenocini nel discorrere e nei modi; tempestandolo di sorrisi — ridendo con un tremolìo rassomigliante a quello del flauto — per tutto il tempo seguendolo con sguardi, ora tenerissimi, ora splendenti di luce. Con tali furberie Cleopatra privò Antonio della sua gloria; eppure colei che lo trascinò alla rovina, non fu più bella di questa sua compatriota.
Rapidamente giunse per essi il mezzogiorno, e, quasi senza che se ne avvedessero, cadde la sera. Quando il sole tramontò dietro allo sperone del vecchio Bashan, la compagnia si fermò presso uno stagno d’acqua limpida che la pioggia aveva accumulato in un punto del deserto. Là fu piantata la tenda, allestita la cena e furono fatti i preparativi per la notte.
La seconda veglia spettava a Ben Hur; ed egli stava ritto dinanzi alla tenda con la lancia in mano, alla distanza di un braccio dal sonnolento cammello, fissando ora le stelle sopra il suo capo, ora la distesa del deserto che l’oscurità della notte fasciava. Il silenzio era intenso; solo di tanto in tanto un alito caldo passava nell’aria, ma senza disturbarlo, assorto com’era nei pensieri dell’Egiziana, della quale enumerava i fascini, cercando di indovinare discutendo, talora il modo in cui ella era venuta a giorno dei suoi segreti, e talora l’uso che ne avrebbe fatto. E durante tutto il tempo della veglia lo spirito d’Iras era vicino a lui e gli sussurrava dolci tentazioni all’orecchio.
Proprio nel momento in cui egli stava per cedere alla lusinga, una mano bianca, e scintillante nell’oscurità crepuscolare, si appoggiò leggermente sulla sua spalla. Egli trasalì al contatto e si voltò. Era Iras.
— «Ti credevo addormentata» — egli disse dopo un momento.
— «Il sonno è per la gente vecchia e pei bambini. Io venni fuori per vedere le mie amiche, le stelle nel sud — quelle che ora splendono sul Nilo. Ti confessi sorpreso?» —
Egli prese la mano ch’era caduta dalla spalla e disse:
— «Ebbene, sì, ma lo sono stato da un nemico?» —
— «Oh no! L’essere nemici significa odiare, e l’odio è una malattia che Iside tiene lontana da me. Ella mi baciò sul cuore, devi sapere, quand’ero bambina.» —
— «Il tuo discorso assomiglia poco a quello di tuo padre. Non sei tu della stessa sua fede?» —
— «Forse lo sarei stata» — essa disse piano, — «forse lo sarei stata se avessi veduto ciò che vide lui. Potrò esserlo quando avrò la sua età. Non dovrebbe esistere altra religione per la gioventù, tranne la poesia e la filosofia; e nessuna poesia eccettuata quella inspirata dal vino, e dall’amore, e nessuna filosofia che non insegni a giustificare le passeggiere follie di una stagione. Il Dio di mio padre è troppo terribile per me. Non lo trovai nella grotta di Dafne e non credo che esista negli atri di Roma. Ma io ho un desiderio, figlio di Hur.» —
— «Un desiderio! Dov’è colui che potrebbe rifiutarlo?» —
— «Ti metterò alla prova.» —
— «Parla allora.» —
— «E’ molto semplice. Desidero di aiutarti.» —
Mentre parlava gli si fece più vicina.
Egli rise, e rispose dolcemente: — «O Egitto! — stavo per dire cara Egitto! — non è essa la sfinge nativa del tuo paese?» —
— «Ebbene?» —
— «Tu sei uno dei suoi enigmi. Abbi compassione, e dammi la chiave che mi faccia comprenderti. In che ho io bisogno d’aiuto? E come puoi tu aiutarmi?» —
Ella ritirò la sua mano, e, voltandosi verso il cammello, gli parlò amorosamente, ed accarezzò la sua testa mostruosa, come se fosse d’una rara bellezza.
— «O tu, ultimo e più rapido e più grande degli animali di Giobbe! Qualche volta tu pure, inciampi, perchè la via è scabrosa ed il fardello è grave. Ma com’è che tu conosci con una parola la gentile intenzione di chi ti guida, e sempre rispondi con gratitudine, benchè l’aiuto venga offerto da una donna? Ti voglio baciare!» — ella si abbassò e toccò l’ampia fronte lanosa con le sue labbra, aggiungendo — «poichè nella tua mente non alligna ombra di sospetto!» —
Ben Hur, reprimendosi, disse tranquillamente:
— «Il tuo rimprovero non mancò di colpire nel segno, o Egitto. Ma quand’anche avessi detto di no, non potrebbe darsi ch’io fossi costretto da un giuramento o che dal mio silenzio dipendessero le vite e le sorti di altri?» —
— «Potrebbe darsi?» — ella disse freddamente — «Lo è!» —
Egli indietreggiò di un passo, e domandò, pieno di stupore.
— «Che cosa ne sai tu?» —
Ella rispose ridendo: — «Perchè gli uomini negano che i sensi delle donne sono più acuti dei loro? Io ebbi il tuo viso sotto ai miei occhi tutta la giornata. Non avevo che a guardarlo per leggere il peso che vi gravava sulla mente, e per trovare il peso, cosa dovevo io fare, se non rammentarmi le discussioni tue con mio padre? Figlio di Hur!» — ella abbassò la voce con singolare destrezza, ed avvicinandosi a lui in modo che il suo alito caldo gli sfiorasse la guancia, disse: — «Figlio di Hur, colui del quale tu vai in cerca, dev’essere Re degli Ebrei, non è vero?» —
Il cuore gli palpitò violentemente.
— «Un Re degli Ebrei come Erode, solamente più grande.» — ella continuò.
Egli vagò con lo sguardo lontano nella notte, fra le stelle; poi i suoi occhi incontrarono quelli di lei e si fermarono. L’alito profumato gli riscaldava il viso.
— «Fin dal mattino,» — ella continuò — «noi abbiamo avuto delle visioni. Adesso se io ti racconto le mie, farai tu altrettanto? Che? ancora taci?» —
Ella respinse la mano di lui, e fece per andarsene; ma egli l’afferrò e disse con veemenza: — «Resta! Resta e parla!» —
Ella tornò indietro e gli si appoggiò colla mano sulla spalla; egli le cinse la vita e se la trasse vicina, molto vicina, avendo nelle sue carezze la promessa ch’ella domandava.
— «Parla e raccontami le tue visioni, o Egitto! Nè il Tisbita nè il Legislatore avrebbero potuto rifiutare una tua domanda. Abbi compassione: sii pietosa, ti prego.» —
La supplica sembrò passar inosservata, poichè, guardando verso di lui, e cercando un rifugio nelle sue braccia, ella disse lentamente:
— «La visione che ebbi fu quella d’una splendida guerra combattuta per terra e per mare — con clamore di armi e cozzo di eserciti, come se Cesare e Pompeo fossero tornati in terra, e con loro Ottavio ed Antonio. Una nube di polvere e di cenere si alzò e coperse il mondo e Roma non si vide più; tutta la potenza ritornò all’Oriente; dalla nube uscì un’altra razza di eroi, che si divise la terra in satrapie più ricche di quelle di Dario e di Serse. E mentre la visione svaniva, figlio di Hur, e dopo che se ne fu andata, io continuai a chiedermi: — «E cosa non dovrà avere quegli il quale servì il Re per il primo, e meglio tutti?» —
Ben Hur trasalì nuovamente. La domanda era quella stessa che l’aveva tormentato tutto il giorno. Finalmente s’immaginava di aver trovata la guida che gli mancava.
— «Oh! Oh!» — egli disse — «io ti capisco ora. Per ottenere le satrapie e le corone tu mi vuoi prestare aiuto. Vedo! Vedo! E non vi fu mai una regina come saresti tu, così sagace, così bella, così regale, mai! Ma, ahimè, cara Egitto! La visione di cui parli promette solo i premi da conquistarsi con le armi, e tu non sei che una donna, benchè Iside t’abbia baciata sul cuore. Le corone son doni celesti e non scendono sul capo di una donna, a meno che tu non conosca una via più sicura di quella della spada. S’è così, o Egitto, mostramela e io la percorrerò, se non altro per amor tuo.» —
Essa si svincolò da lui e disse:
— «Distendi il tuo soprabito sulla sabbia, qui, affinchè io possa riposarmi appoggiando la testa al cammello. Mi siederò e ti racconterò una storia nota sulle sponde del Nilo e popolare anche in Alessandria, ove io l’appresi.» —
Egli fece quanto ella disse, piantando prima la lancia per terra, a portata di mano.
— «Ed ora che cosa devo fare?» — egli domandò con tristezza, allorchè ella si fu seduta. — «In Alessandria, chi ascolta usa sedersi o stare in piedi?» —
Dal suo comodo posto, appoggiata al vecchio animale, ella rispose, ridendo: — «Il pubblico dei cantastorie è ostinato, e di solito fa ciò che crede.» —
Senz’altre cerimonie, egli si stese sulla sabbia, vicino a lei, e le cinse il collo col braccio.
— «Sono pronto» — egli disse.
— «Ecco il titolo del mio racconto,» — essa cominciò:
IN CHE MODO IL BELLO DISCESE IN TERRA.
— «Prima di tutto devi sapere, che Iside fu — e, per quanto io sappia, potrebbe essere ancora, la più bella delle divinità: ed Osiride, suo marito, benchè saggio e potente, era qualche volta punto da gelosia per lei, poichè soltanto nei loro amori gli Dei assomigliano ai mortali.
Il palazzo della moglie divina era d’argento e coronava la più alta montagna nella luna, dalla quale essa passava spesso nel sole, la fonte dell’eterna luce dove Osiride aveva il proprio palazzo d’oro, che abbaglia col suo splendore gli uomini che lo osano guardare.
Una volta — per gli Dei non esistono giorni — mentre stava con lui sul tetto del palazzo d’oro, ella guardò per caso, lontano, all’estremo limite dell’universo, e vide passare Indra con un esercito di scimmie portate sul dorso di aquile. Egli, l’amico delle cose viventi — così vien chiamato Indra — ritornava vittorioso dall’ultima guerra con l’odioso Rassaka e lo seguivano l’eroe Rama e Sita, sua sposa, la più bella delle donne dopo di Iside. E Iside si alzò, si levò la cintura di stelle, e l’agitò verso Sita; Rama rispose invece ma agitando lo scudo lucente. Tosto; tra l’esercito in marcia ed i due sul tetto d’oro, scese qualche cosa che assomigliava alla notte e impediva interamente la vista; ma non era la notte — era soltanto Osiride che corrugava la fronte.
Ora avvenne che il soggetto del loro discorso in quel momento fosse appunto tale, quale soltanto gli Dei possono tenere fra sè; ed egli si alzò e disse maestosamente: —
«Torna a casa, compirò da solo il lavoro. Per fare una creatura completamente felice non ho bisogno del tuo aiuto.» —
Devi sapere che Iside aveva gli occhi grandi come quelli della sacra mucca, e dolci del pari. Essa li girò sorridendo in faccia al suo Signore, e alzandosi essa pure, disse: — «Ti saluto, Osiride, e ti dico arrivederci perchè io so che quanto prima mi chiamerai, poichè tu non puoi fare, senza il mio aiuto, una creatura perfettamente felice.» —
— «Vedremo» — egli disse.
Essa tornò al suo palazzo d’argento sui monti della luna, e, seduta sulla torre più alta, si chinò sopra il suo telaio.
Grandi pensieri volgeva Osiride nella sua mente, e tale era lo sforzo della sua volontà che le stelle nella volta celeste tremarono e alcune si staccarono e caddero. Iside dalla sua torre le vide, ma non disse nulla, e tranquilla attese all’opera dell’ago.
In breve un punto nero apparve contro il disco del sole, e crebbe e crebbe, finchè raggiunse dimensioni maggiori della luna, ed essa seppe che quello era un nuovo mondo, un gigantesco pianeta che gettò la sua ombra sopra il suo palazzo, mostrando quanto fosse il corruccio del Dio, suo marito.
Ma essa continuò a ricamare sul suo telaio.
A poco a poco dalla massa confusa del nuovo pianeta si distaccarono montagne e mari, e fiumi e torrenti. Poi vide qualche cosa a muoversi; ed essa si arrestò stupita. Il Primo Uomo era quello, che, meravigliato, volgeva lo sguardo al sole, in tacita riconoscenza della comune fonte di vita e calore. E intorno a lui fiorì la terra, e si coperse di selve, e di prati, e si riempì di animali.
E l’uomo era felice e non si stancava di osservare con l’occhio pieno di meraviglia per quelle sconosciute bellezze; ed Iside udì attraverso l’atmosfera, come rombo di tuono lontano, un riso beffardo:
— «Ho avuto bisogno del tuo aiuto? Guarda una creatura perfettamente felice.» —
Ma Iside si chinò silenziosa sopra il telaio. Aspettava.
Non durò molto che un mutamento si verificò nel Primo Uomo. Egli divenne melanconico, giaceva giornate intere sulla sponda di un fiume, noncurante e annoiata. E mentre Iside osservava con gioia questi segni, la volta celeste ebbe un altro fremito, donde Iside seppe che l’intelligenza creatrice di Osiride era nuovamente al lavoro. Ed ecco che la Terra, prima una fredda massa grigia, fiammeggiò di mille colori; le montagne divennero purpuree, verdi le piante, azzurro il mare, infinite le tinte delle nuvole. E l’uomo battè le mani per la gioia, risanato e nuovamente felice.
Iside sorrise sopra la sua torre nel palazzo d’argento.
Ma in breve l’uomo si stancò dei colori, e preso dalla medesima apatia, girò sconsolatamente pel mondo, sospirando. E di nuovo si udì il rombo della volontà del Dio Creatore, e ad un tratto l’uomo fu visto tendere l’orecchio, ed ascoltare; il suo viso divenne raggiante, ed egli per la prima volta ebbe la percezione del suono. Il vento gli mormorava ignote armonìe, musica erano lo stormir delle fronde, il mormorio dei ruscelli, e i mille trilli degli uccelli nei boschi. E l’uomo era felice.
Allora Iside divenne pensierosa, e pure ammirando il genio del suo sposo divino, disse fra sè: — «Colore, Movimento, Suoni, Luce, non vi è altro elemento di bellezza, e tutto è già stato dato alla Terra.» — Se ora quella creatura si fosse annoiata di nuovo, Osiride avrebbe avuto bisogno del suo aiuto. Rapido volava l’ago sopra la trama d’argento.
E l’Uomo fu lungamente felice, più a lungo che non lo fosse mai stato prima; sembrò quasi che non avesse a stancarsi più mai. Ma Iside non era impaziente e sopportò in silenzio i sorrisi del sole. Aspettò, aspettò, e finalmente vide i segni di un mutamento nell’Uomo. I suoni divennero famigliari alle sue orecchie; l’abitudine lo rese indifferente allo stridere del grillo, come al canto dell’usignuolo, come al ruggito del mare. Egli languì e si gettò desolato lungo la sponda del fiume, e giacque senza moto.
La compassione di Iside la fece parlare.
— «Mio signore, la tua creatura sta morendo.» —
Ma Osiride, pur comprendendo, tacque; non poteva far altro.
— «Devo aiutarlo?» — essa chiese.
Osiride era troppo orgoglioso per rispondere.
Allora Iside diede l’ultimo punto col suo ago, raccolse la trama in un rotolo scintillante, e lo gettò nello spazio, lo gettò in modo che cadesse vicino all’Uomo. Ed egli, udendo il suono della caduta, sollevò il capo e guardò. O meraviglia! Una Donna, la Prima Donna, si chinò sopra di lui per aiutarlo. Essa gli tese la mano. Egli la prese, si alzò, e da allora in poi più non provò la noia e fu felice per sempre.» —
— «Tale o figlio di Hur! è la genesi del bello come la raccontano sul Nilo.» —
Iras tacque.
— «Una bella invenzione, e graziosa.» — egli disse subito: — «ma è imperfetta. Che cosa fece Osiride poi?» —
— «Te lo dirò» — essa rispose. — «Egli richiamò la moglie divina a sè, e vissero felici d’allora in poi aiutandosi reciprocamente.» —
— «E non devo io fare come il Primo Uomo?» — disse egli portando la mano di lei alle labbra. — «Amore, amore!» —
Appoggiò la testa lievemente sulle ginocchia di lei.
— «Tu troverai il Re» — essa disse, ponendogli la mano carezzevolmente sopra il capo. — «Tu troverai il Re; lo servirai fedelmente. Con la tua spada guadagnerai i doni più ricchi; ed il suo più valoroso soldato sarà il mio eroe.» —
Egli si voltò e vide il volto di Iras chino sopra di lui.
In tutto il firmamento non v’erano in quel momento due stelle più brillanti di quegli occhi che lo guardavano. Egli si rialzò, e, presala fra le sue braccia, la baciò appassionatamente, dicendo: — «O Egitto, Egitto! Se il Re avrà corone da regalare una sarà per me; io la porterò a te e la metterò qui sul posto che le mie labbra sfiorarono. Tu sarai Regina, la mia Regina. — Nessuna può esser più bella di te! Saremo felici! sempre felici!» —
— «E tu mi dirai tutto, nevvero? e lascerai che io ti aiuti in tutto?» — ella disse contraccambiando il bacio.
La domanda calmò il suo ardore.
— «Non basta che io ti ami?» — egli chiese.
— «Amore perfetto significa perfetta fiducia» — essa disse: — «Ma non importa, tu imparerai a conoscermi meglio.» —
Essa ritirò la mano e si alzò.
— «Sei crudele» — egli disse.
Nell’allontanarsi essa si fermò presso il cammello e toccando la sua fronte con le labbra:
— «Tu sei il più nobile della tua razza, perchè il tuo amore non è offuscato dal sospetto.» —
Quindi sparì nella tenda.