Ben Hur/Libro Sesto/Capitolo II
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Traduzione dall'inglese di Herbert Alexander St John Mildmay, Gastone Cavalieri (1900)
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CAPITOLO II.
Per comprendere quale fosse la vita della madre e della figlia durante questi otto anni dobbiamo rammentare la raffinatezza e la coltura dell’ambiente in cui erano abituate a vivere. Le condizioni ci sono piacevoli o dolorose a seconda delle nostre abitudini e delle nostre sensibilità. Non sarebbe un paradosso l’affermare che se avvenisse un improvviso esodo di tutti gli uomini dal mondo verso il Paradiso, tal quale com’è raffigurato dalla dottrina cristiana, esso non sarebbe un paradiso per i più, e, d’altra parte, le sofferenze dell’inferno non toccherebbero tutti con la medesima intensità. E’ appunto per dar un’idea adeguata delle torture morali che attendevano le due donne nel carcere della torre d’Antonia che noi, al principio del nostro racconto, ci siamo dilungati nel descrivere il palazzo dei Hur con tanta ricchezza di particolari, e la scena svoltasi tra Giuda e la madre sul terrazzo di esso. La compassione e la simpatia del lettore saranno tanto maggiori, quanto più astraendo dai semplici dolori fisici potrà immaginare i patimenti morali e intellettuale delle due donne. Ricordiamo il discorso tra madre e figlio, in cui essa gli parlava di Dio, del suo popolo prediletto, degli Eroi, ora con la dottrina di un filosofo, ora con l’ispirazione di un poeta sempre però col cuore di madre; e in preda a tali pensieri scendiamo nella loro cella.
— «Una donna d’Israele qui sepolta con sua figlia. Aiutateci presto o morremo.» —
Tale fu la risposta che Gesio, il custode; udì dalla cella, la sesta, come appariva dal disegno da lui consegnato al tribuno. Il lettore riconoscerà dalla risposta chi fossero le infelici ed esclamerà senza dubbio: — «Ecco alla fine la madre e la sorella di Ben Hur!» —
Difatti erano esse.
Otto anni prima, la mattina della loro cattura, erano state condotte alla torre dove Grato aveva destinato che fossero rinchiuse. Egli aveva scelto quel luogo perchè era quello che rimaneva sotto la sua più immediata sorveglianza e, in esso, la sesta cella, perchè era lontana dalle altre, e perchè era infetta dalla lebbra, volendo così che le prigioniere si trovassero rinchiuse non in un carcere sicuro e sano ma in una vera tomba. Esse vi furono perciò condotte da schiavi, in un momento in cui non vi potessero essere testimoni, poi, a compimento del proposito crudele, gli stessi schiavi, murata la porta, furon fatti scomparire, nè di loro si seppe più nulla. Perchè le vittime potessero avere un martirio più prolungato, Grato collocò in una cella vicina ad esse un condannato cieco e muto ond’egli passasse loro il nutrimento attraverso ad un foro. Il pover’uomo non avrebbe potuto, in nessuna circostanza raccontare la sua storia, riconoscere le prigioniere o i loro giudici.
Così, con un’astuzia dovuta in parte a Messala, il Romano, sotto pretesto di punire una banda d’assassini, trovò modo di confiscare i beni dei Hur, dei quali nulla pervenne agli scrigni imperiali. Come, compimento dell’ultima parte del suo progetto. Grato licenziò il vecchio custode delle prigioni, non per timore che fosse a giorno dell’accaduto, perchè in realtà nulla poteva saperne, ma perchè, pratico dei sotterranei com’egli era, sarebbe stato impossibile il nasconderglielo a lungo; con sorprendente abilità il Procuratore fece disegnare delle nuove carte topografiche omettendo, come vedemmo, la sesta cella: le infelici prigioniere potevano considerarsi sepolte per sempre.
La sesta cella corrispondeva a quella che Gesio aveva disegnata. Non si son potute avere informazioni esatte sulle sue dimensioni; solo si sa ch’essa era ristretta, rustica, dal terreno e dalle pareti fatte a guisa di roccie.
In origine il Castello dei Macedoni era separato dal tempio da una stretta rupe. Gli operai, desiderosi di fabbricare un certo numero di camere, incominciarono a forare la facciata al nord di questa rupe e s’inoltrarono lasciando un soffitto naturale di pietra; poi continuarono a costruire le celle V, IV, III, II, I, senza nessuna comunicazione col numero VI. La sola cella numero V aveva un foro comunicante con essa. Fabbricarono poi il corridoio e la scala che doveva condurre al piano superiore.
I lavori furono eseguiti nel medesimo modo in cui furono intagliate le tombe dei Re, visibili anch’oggi a poca distanza di Gerusalemme, solo che, finiti gli scavi, la VI cella fu chiusa dalla parte esteriore con un muro in cui si aprivano delle feritoie per il passaggio dell’aria. Quando Erode s’impadronì del Tempio e della torre, fece ricostruire queste mura più solidamente e chiuse tutte le feritoie meno una, la quale, pure immettendo un po’ d’aria libera e un po’ di luce, lasciava la cella nella più desolante oscurità.
Le due donne erano rannicchiate vicino alla feritoia, l’una seduta, l’altra mezza sdraiata, appoggiandosi alla nuda roccia. Esse erano completamente prive di vesti e la luce, penetrando dall’alto, dava loro un aspetto spettrale. Il loro reciproco affetto, ancor vivo, ci è rivelato dal vederle l’una nelle braccia dell’altra. La ricchezza, i conforti, e le speranze, spariscono, ma l’amore rimane. L’amore è eterno.
Il terreno sul quale le due donne stavano accovacciate, era completamente levigato. Chi avrebbe potuto dire, per quanto tempo, durante gli otto anni, esse eran rimaste sedute davanti all’unica feritoia dalla quale un timido, ma amichevole raggio di luce ravvivava le loro speranze?
Quando la luce faceva capolino esse comprendevano che albeggiava, quando svaniva, capivano che scendeva la notte, in nessun altro luogo così lunga e buia come laggiù!... Il mondo?... Attraverso a quella fessura, come se essa fosse stata larga ed alta al pari della porta di un palazzo reale, esse vagavano pel mondo con la fantasia, cercando l’una il figlio, l’altra il fiatello. Esse lo pensavano navigante sul mare o sbarcato nelle isole; oggi in quella, domani in un’altra città, ma sempre viaggiando, senza tregua, giacchè, come esse vivevano attendendolo, egli doveva certo vivere cercandole. Quante volte, pur essendo lontane, esse s’incontravan con lui col pensiero! Era una così dolce lusinga per esse dirsi l’una coll’altra. — «Finchè egli vivrà non saremo dimenticate, finchè egli si rammenterà di noi ci sarà speranza!» — Chi può comprendere, se non dopo averlo provato, che un nonnulla basta per incuter coraggio? Il ricordo di quei giorni trascorsi così miseramente ci impone il rispetto; le loro sofferenze le rivestono ai nostri occhi di santità. Anche senz’avvicinarci troppo alla prigione ci accorgiamo ch’esse hanno subito un gran mutamento, non dovuto al tempo od alla prigionia. La madre era bella come donna, la figlia bella come giovinetta. Neppur una persona amica avrebbe potuto dire di loro ora la stessa cosa. I loro capelli erano lunghi, arruffati, e completamente bianchi; e da tutta la loro persona spirava un’aria di ribrezzo che avrebbe arrestato il più coraggioso visitatore. Forse soffrivano per l’aria malsana, per le torture della fame e della sete non avendo avuto di che sfamarsi dopo che il loro servo, il forzato cieco e muto, era stato allontanato. Tirzah, lamentandosi, si appoggiò alla madre e le cinse il collo dandole un bacio.
— «Quietati, Tirzah, verranno: Dio è buono. Noi ci siamo sempre ricordati di lui e non ci siamo mai dimenticate di pregarlo ogni qualvolta udivamo il suono delle trombe nel Tempio. Vedi, è ancora chiaro e il sole splende, non possono esser che le sette. Qualcuno verrà. Ne ho fede. Dio è buono!» —
Così parlò la madre.
Le sue parole erano semplici e persuasive, quantunque Tirzah, che aveva appena compiuti i tredici anni quando noi le vedemmo per l’ultima volta, ora, aggiungendole gli otto anni di carcere, non fosse più una bambina.
— «Proverò ad esser forte, mamma,» — disse ella. — «Le tue sofferenze devono essere grandi quanto le mie ed io voglio assolutamente vivere per te e per mio fratello! Ma mi sento ardere la lingua e le labbra!... Chissà dove si trova egli ora, chissà se riescirà mai a salvarci!» —
Le loro voci impressionavano stranamente: eran dure, pungenti, d’un suono metallico.
La madre avvicinò a sè la figlia e disse:
— «La notte scorsa ho sognato, Tirzah, e l’ho visto da vicino come vedo te, ora. Dobbiamo credere nei sogni perchè anche i nostri padri ci credevano.
Il nostro Signore parlò loro così parecchie volte. Mi sembrava che ci trovassimo alla Porta delle Donne proprio di fronte alla Porta Magnifica, in compagnia di molte persone, quando Giuda entrò guardando di qua e di là; lo vidi ritto all’ombra della Porta. Il mio cuore palpitò forte forte. M’accorsi ch’egli ci cercava, e gli corsi incontro aprendogli le braccia e chiamandolo per nome. Egli m’udì, mi scorse, ma non mi riconobbe. Dopo un attimo la visione scomparve.» —
— «Non accadrebbe forse così, mamma, se noi lo avessimo realmente ad incontrare? Siamo assai cambiate. Chissà se ci riconoscerebbe!» —
— «Potrebbe darsi che non ci riconoscesse, ma...» — e la madre chinò il capo: il suo viso si rannuvolò come s’essa fosse colpita da un gran dolore, poi riprendendo la parola, ella disse: — «.... ma potremmo anche farci riconoscere!» —
Tirzah alzò le braccia al cielo e supplicò, lamentandosi:
— «Dammi dell’acqua, mamma, un po’ d’acqua! Anche una goccia sola mi basterebbe!» —
La madre si guardò attorno confusa ed impotente a soddisfarla.
Ella aveva nominato Dio così spesso; aveva promesso in nome suo, ed ora le sembrava che il ripetere la preghiera sarebbe stato uno scherno.
Un’ombra passò davanti alla feritoia, oscurandole la luce fioca, ed ella pensò alla morte che si avvicinava sempre più e l’attendeva mentre la sua fede andava man mano scemando.
Inconscia delle sue azioni, parlando come un automa perchè essa doveva parlare per confortar la figlia, disse di nuovo:
— «Abbi pazienza, Tirzah; vengono; son quasi qui.» —
Le parve di udire un rumore proveniente dalla cella vicina, la loro unica comunicazione col mondo esterno. Infatti non s’era sbagliata.
Dopo un minuto o due il grido del forzato risuonò attraverso la cella.
Anche Tirzah lo sentì ed entrambe si alzarono tenendosi per mano.
— «Sia ringraziato per sempre il Signore!» — esclamò la madre col fervore di una persona che avesse ricuperata la fede e la speranza.
— «Olà» — sentirono gridare, e poi: — «Chi siete?» —
La voce era sconosciuta. Che cosa accadeva? Eccettuate le parole scambiate con Tirzah queste eran le prime e le sole che essa avesse udito in otto anni. Che gran salto — dalla morte alla vita — e che salto repentino!
— «Una donna d’Israele, qui sepolta con sua figlia. Aiutateci presto o morremo.» —
— «Fatevi animo. Ritornerò.» —
Le donne ruppero in forti singhiozzi. Erano state trovate e si veniva in loro aiuto.
Di desiderio in desiderio le loro speranze volavano veloci, come le rondini.
Poichè si sapeva dov’esse erano, verrebbero anche liberate. Avrebbero ricuperato tutto ciò che avevano perduto: casa, amici, possedimenti, libertà, figlio e fratello! La scarsa luce celava loro ancora le bellezze del giorno, ma, immemori delle sofferenze, della sete e della fame, del pericolo continuo di morte, le due donne caddero per terra piangenti, tenendosi strette l’una all’altra.
Non aspettarono a lungo; Gesio si sbrigò in due parole e il tribuno era un uomo d’azione.
— «O voi là dentro — gridò il tribuno dall’apertura — dove siete?» —
— «Qui» — rispose la madre alzandosi.
Subito essa sentì un rumore proveniente da un’altra parte come di colpi battuti contro il muro, colpi rapidi, sonori, dati da un’arma di ferro.
Madre e figlia non apersero bocca sapendo bene il significato di tutto ciò; — una via di libertà sì apriva loro d’innanzi.
Come uomini sepolti da lungo tempo nelle profonde miniere odon l’arrivo dei loro salvatori annunciati dal martello e dal colpo del piccone, esse sentivan i loro cuori palpitar più velocemente e i loro occhi si fissavano sul punto donde procedevano i colpi.
Le braccia che lavoravano al di fuori erano forti; le mani abili, e la buona volontà non mancava di certo.
I colpi si facevano ogni minuto più vigorosi; di quando in quando, un pezzo di mattone cadeva con fracasso, e la libertà s’avvicinava sempre più. Si udivano le voci degli operai.
E.... o gioia! — Un bagliore di luce rossa, luce di torcia, faceva capolino attraverso un crepaccio rompendo l’oscurità con un bagliore intenso, bello come i primi raggi del mattino.
— «E’ lui, mamma, è lui! Egli ci ha finalmente trovate!» — gridò Tirzah colla vivacità della giovinezza.
Ma la madre rispose dolcemente: — «Dio è buono!» —
Una pietra cadde nell’interno della cella, poi un’altra, poi un’ammasso intero, e la porta si aprì. Entrò un uomo sfigurato dalla polvere e dalla calcina, sollevando al disopra della propria testa una torcia, e si fermò. Altri due o tre lo seguirono con parecchie torcie e si posero in disparte per lasciar entrare il tribuno.
Il rispetto per le donne non è del tutto una cosa convenzionale, ma un naturale omaggio al loro sesso.
Il tribuno si fermò perchè esse fuggivano in un angolo, non pel timore ma per la vergogna: e, o lettore, non solo per la vergogna!
Dall’oscurità ov’esse s’erano mezze nascoste s’udirono queste parole, le più strazianti, le più tristi, le più disperate:
— «Non avvicinatevi! siamo infette! siamo infette!» —
Gli uomini guardandosi nel viso alzarono le loro torcie.
— «Siamo infette! Siamo infette!» — ripeterono le donne con un lungo gemito.
Con un tal grido possiamo immaginare uno spirito che sia fuggito dalla porta del Paradiso, e che si volga indietro a guardare la vita.
La vedova e la madre fecero il loro dovere, ma, purtroppo, si convinsero che la libertà per cui esse avevan tanto sognato e pregato, non l’avrebbero mai ricuperata intera, non avrebbero mai potuto avvicinare quel frutto d’oro che vedevano da lontano.
Essa e Tirzah erano lebbrose!
Forse il lettore non sa completamente ciò che significa questa parola. La consideri in rapporto alla durezza della legge del tempo di poco modificata nel nostro.
— «Quattro disgrazie rendono gli uomini dei paria — la cecità, la lebbra, la povertà, e la sterilità» — disse il Talmud.
Essere lebbrosi significa essere trattati come morti, allontanati dalla città, dai parenti, obbligati a parlare solo ad una gran distanza con quelli che ci sono più cari al mondo, obbligati a rimaner sempre coi lebbrosi; maltrattati, respinti dalle cerimonie del Tempio o della Sinagoga; ed obbligati a starsene in vesti logore, colle bocche coperte tranne che per gridare: — «Siamo infetti, siamo infetti!» — di trovar forse ricovero in un luogo selvaggio od in una tomba, di divenire come spettri, d’esser di peso agli altri più che a se stessi, di vivere sperando solo nella morte.
Una volta, ma la madre non si ricorda nè il giorno nè l’anno, perchè in quella cella di tortura non potevano aver un’idea del tempo, essa sentì come una piaga asciutta nella palma della sua mano destra, e cercò di lavarla. La piaga si allargò, ciò nonostante per tutta la mano, ma la donna non disse nulla fino a che Tirzah si lamentò del medesimo male. L’acqua era scarsa, ma esse cercavano di risparmiarne per usarne come un rimedio. La mano fu a poco a poco interamente inferma, la pelle si ruppe, e le unghie si distaccarono completamente dalle dita. Con tuttociò non sentivano un gran dolore ma un continuo e crescente malessere. Le loro labbra incominciarono a bruciare ed a screpolarsi. Un giorno la madre, amante della pulizia, pensando che forse il male dipendesse dalle condizioni della prigione e temendo che il viso di Tirzah fosse invaso dal terribile nemico l’avvicinò alla luce e la guardò spaventata; le sopracciglia della ragazza erano bianche come la neve.
Oh! quale angoscia a tale certezza!
La madre rimase per qualche tempo muta, immobile, coll’animo paralizzato e capace di un sol pensiero: — «Lebbrose, lebbrose!» —
Quando riacquistò un poco di padronanza la madre non pensò a sè stessa, ma alla figliuola; la sua tenerezza le infuse coraggio e la preparò all’ultimo ed eroico sacrificio. Essa seppellì nel suo cuore la triste scoperta, raddoppiò di devozioni per Tirzah, e, con meravigliosa ed inesauribile costanza continuò a tenerla all’oscuro di quanto le circondava, cercando di infonderle la speranza che non fosse nulla di grave. Ripetè i suoi scherzi, raccontò le solite storie, ne inventò anche di nuove, ascoltò con immenso piacere i canti di Tirzah: giacchè, sulle sue labbra, i salmi del Re Cantore raddolcivano la solitudine e mantenevano desto in entrambe il ricordo di Dio, e del mondo che sembrava le avesse dimenticate.
Lentamente, costantemente, con orribile certezza, l’infezione si propagava, imbiancando le loro teste, rodendo le labbra, le palpebre, coprendo i corpi di piaghe; quindi le assalì alla gola, rendendo le loro voci tremanti e prese pure le loro giunture, indurendo i tessuti e le cartilagini. La madre era ben sicura che, alla fine, anche i polmoni, le arterie e le ossa sarebbero state corrose rendendo ad ogni progresso del male sempre più ributtanti le inferme, e continuando così fino alla morte che poteva farsi attendere per anni ed anni.
Venne alfine un altro dei giorni tanto temuti dalla madre, il giorno cioè in cui il dovere le impose di rivelare a Tirzah il nome della terribile malattia; e, atterite dalla tremenda agonia che loro si preparava, pregarono insieme perchè la morte venisse presto a liberarle.
Vennero anche i giorni in cui le poverette parlavano ed osservavano con calma la ripugnante trasfigurazione delle loro persone amando di nuovo la vita. Un vincolo le legava ancora alla terra. Cercavano di mantenere alto il morale e dimenticare la loro solitudine parlando e pensando di Ben Hur. Lusingandosi a vicenda di rivederlo, e non dubitando ch’egli si sarebbe sempre mantenuto religioso e sarebbe stato felice di riabbracciarle, trovavano piacere nel torcere e ritorcere questo tenue filo di speranza. Fu proprio in uno di questi momenti che Gesio venne in loro soccorso dopo dodici ore di digiuno.
Le torcie fiammeggiarono attraverso la prigione; la liberazione era giunta. — «Dio è buono?» — gridò la vedova.
Il tribuno entrò immediatamente. Un senso di dovere scosse la più vecchia delle donne e dall’angolo ove erasi essa rifugiata gridò: — «Allontanatevi! siame infette!» —
Quale angoscia costò alla madre il compiere il proprio dovere! Ma la gioia della liberazione non le impedì di misurare tutte le conseguenze della prossima libertà. La vita felice d’un tempo non ritornerebbe mai più! Se per caso fossero passate presso la loro casa sarebbe stato solo per avvicinarsi al cancello pronunciando il consueto grido! Esse avrebbero proseguito la loro via coll’ardente desiderio d’un amore più vivo che mai, più ineffabile perchè non sarebbe mai stato ricambiato. Anche il figlio, a cui la madre aveva costantemente pensato, incontrandola, avrebbe dovuto schivarla. Se egli le avesse porta la mano chiamando: — «Mamma, mamma!» — ella avrebbe dovuto rispondergli col vero amore di una madre: — «Allontanati! sono infetta!» — E quest’altra figlia che ella cercava di ricoprire colla sua folta e bianca capigliatura, doveva dividere la sua miserabile compagna della sorte unica, maledetta vita che le rimaneva! La coraggiosa donna accettò il destino e fece risuonare quel grido che, da tempo immemorabile, era caratteristico dei lebbrosi: — «Siamo infette, siamo infette!» —
Il tribuno l’udì con un fremito, ma non si mosse.
— «Chi siete?» — domandò.
— «Due donne morenti di fame e di sete. Ma» — non esitò a dire la madre — «non avvicinatevi, non toccate nè il pavimento nè le pareti: tutto è infetto, infetto!» —
— «Raccontami la tua storia, o donna, dimmi il tuo nome, dimmi quando, per che ragione e per opera di chi, tu fosti qui rinchiusa!» —
— «Una volta v’era in questa città di Gerusalemme un principe, chiamato Ben Hur, l’amico dei generosi Romani; aveva Cesare per suo amico. Io sono la sua vedova, e questa è la sua figlia. Come posso dirti la ragione per cui fummo qui rinchiuse quando io stessa non ne so nulla, se non perchè siamo ricche? Valerio Grato vi potrà dire chi era il nostro nemico, e quando cominciò la nostra prigionia. Io non posso. Guardate allo stato in cui siamo ridotte: abbiate pietà di noi!» —
L’aria era diventata pesante causa l’odore ed il fumo delle torcie, ma il Romano chiamò a sè uno dei portatori e scrisse la risposta, parola per parola. Essa era chiara e comprensibile, e conteneva insieme una storia, un’accusa, una preghiera. Una persona comune non avrebbe potuto farne una uguale, ed egli non poteva fare a meno di crederle ed averne pietà.
— «Tu sarai aiutata, donna» — disse, chiudendo la sua tavoletta. — «Ti manderò del cibo e delle bevande.» —
— «E dei vestiti, dell’acqua pura, ve ne preghiamo, o generoso Romano.» —
— «Come desiderate.» — rispose egli.
— «Dio è buono!» — disse la donna singhiozzando — «Possa la sua pace esser con voi!» —
— «Ma» — egli aggiunse» — io non posso rivedervi. Fate i vostri preparativi, e questa sera vi farò accompagnare alla porta della torre e vi libererò. Voi conoscete la legge, addio.» —
Diede gli ordini agli uomini ed uscì.
Poco dopo altri schiavi entrarono nella cella con un gran recipiente d’acqua, un catino, dei tovagliuoli ed un piatto con pane e carne. Portarono pure degli abiti affinchè le donne li potessero indossare, e li posarono per terra ove le prigioniere avrebbero potuto facilmente prenderli allontanandosi subito.
Le due donne furono condotte alla porta e poi lasciate sulla strada, verso la metà della prima veglia. Così il Romano se ne liberò ed esse furono ancora una volta padrone di sè nella città dei loro padri.
Esse guardarono le stelle, belle e lucenti come per lo passato, e si domandarono a vicenda:
— «Cosa accadrà ora? e dove anderemo?» —