Ben Hur/Libro Sesto/Capitolo I
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Traduzione dall'inglese di Herbert Alexander St John Mildmay, Gastone Cavalieri (1900)
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CAPITOLO I.
Gli avvenimenti che adesso narreremo avvennero tre giorni dopo dalla notte in cui Ben Hur lasciò Antiochia per recarsi collo sceicco Ilderim nel deserto.
Un grande avvenimento — grande almeno rispetto alle sorti del nostro eroe — è accaduto: a Valerio Grato è subentrato Ponzio Pilato.
La destituzione, rammentiamolo, costò a Simonide cinque talenti in denaro romano, pagati a Seiano che allora era all’apogeo della sua potenza come favorito imperiale; lo scopo del tentativo era quello di diminuire i pericoli di Ben Hur durante la sua permanenza in Gerusalemme e nei suoi dintorni, permanenza dovuta alla ricerca della famiglia. A questo pietoso fine il servo metteva a disposizione i guadagni di Druso e de’ suoi compagni, i quali, avendo pagate le loro scommesse, divennero tosto — com’è logico — i nemici di Messala, la cui riputazione in Roma non aveva ancor ricuperata l’antica fama. Pur essendo breve il tempo dal quale erano a Gerusalemme i Romani, gli Ebrei sapevano che il cambio non poteva, così provvisorio, esser di un gran vantaggio per sè.
Le coorti mandate a sostituire la guarnigione d’Antiochia facevano la loro entrata in città verso sera; il mattino seguente il primo spettacolo che s’offrì al popolo fu quello delle mura dell’Antica Torre ornate di insegne militari che consistevano in busti degli imperatori adorni di aquile e di sfere rappresentanti il mondo. Una moltitudine di gente si pose in marcia per recarsi a Cesarea dove Pilato indugiava e lo supplicò di togliere quelle immagini detestate. Cinque giorni e cinque notti circondò le porte del suo palazzo; finalmente egli stabilì di avere un colloquio coi capi, nel Circo. Quando essi si adunarono là, egli li attorniò di soldati, ma, invece di incontrare resistenza, trovò umiliazioni e profferte di vite; vinto da questo nuovo metodo, concesse quel che gli avevano chiesto. Fece riportare le imagini e le insegne a Cesarea, dove Grato, con giusta riflessione, aveva tenuti celati tali abbominii durante gli undici anni del suo comando.
Anche gli uomini malvagi, ogni tanto, frammettono delle buone azioni alle loro malvagità. Pilato ordinò di fatti una ispezione di tutte le prigioni della Giudea e un elenco di nomi delle persone carcerate, con una relazione sui delitti dei quali eran state accusate. Senza dubbio il motivo era quello così comune agli ufficiali appena entrati in carica: il timore della responsabilità che erano per incontrare; il popolo, nondimeno, pensando al bene che poteva derivarne, lo elogiava, e, per un po’ di tempo, fu rallegrato e confortato dal fatto. Avvenivano scoperte stupefacenti nelle inchieste eseguite. Centinaia di persone vennero liberate perchè incatenate senz’accusa; altre, ritenute per molti anni per morte, ritornavano a goder la luce della quale in tristi segrete eran state private; e, peggio ancora, furon trovate prigioni sotterranee di cui non v’era sentore e di cui le stesse autorità carcerarie si erano dimenticate. Appunto su una di queste prigioni ignorate di Gerusalemme, richiamiamo l’attenzione del lettore.
La Torre d’Antonia, che è bene rammentare come occupasse i due terzi dell’area sacra nel monte Moriah, era, in origine, un castello fabbricato dai Macedoni. Più tardi, Giovanni Ircano, ridusse il palazzo ad una fortezza per la difesa del Tempio, ed in quell’epoca esso era considerato come inespugnabile. Quando però venne Erode, col suo genio ardito, ne rinforzò le mura e le estese, lasciando un vasto fabbricato a racchiudere tutte le dipendenze necessarie alla fortezza, vale a dire scuderia, capanne, armerie, magazzeni, cisterne, e, non ultime per importanza, prigioni d’ogni qualità. Egli appianò la rupe massiccia e la forò per porvi le fondamenta di un fabbricato, unendolo con un enorme colonnato al Tempio, dal tetto del quale si poteva guardare sopra le corti dell’edificio sacro. In tali condizioni la Torre cadde alfine dalle sue mani in quella dei Romani che furono pronti ad intuirne i vantaggi e a convertirla ad usi più degni. Mentre comandava Grato era una cittadella fortificata e una prigione sotterranea pei rivoluzionari. Guai se le truppe uscivano da quelle porte per reprimere un disordine! Guai se un Ebreo v’entrava come arrestato! Ma, dopo questa piccola divagazione, ci affrettiamo a riprendere il filo della nostra storia.
L’ordine del nuovo Procuratore, che richiedeva il rapporto delle persone imprigionate, fu ricevuto alla Torre d’Antonia, e sollecitamente eseguito; due giorni eran passati dacchè l’ultimo prigioniero era stato condotto su negli uffici per essere interrogato. Il rapporto, pronto per esser spedito, giaceva sul tavolo del tribuno; fra cinque minuti sarebbe stato rimesso a Pilato che abitava il palazzo sul monte Sion.
L’ufficio del tribuno era spazioso e fresco, ammobiliato in uno stile atto alla dignità di un comandante investito d’una carica così importante. Il tribuno sembrava stanco ed impaziente; allorchè gli fosse giunto il rapporto sarebbe andato sulla terrazza del colonnato per respirare e per muoversi divertendosi ad osservar gli Ebrei giù nelle corti del Tempio. I suoi dipendenti e i suoi servi dividevan la sua impazienza. Mentre attendeva apparve un uomo sulla porta. Egli faceva risuonare un mazzo di chiavi, ognuna pesante come un martello, e riuscì così ad attrarre l’attenzione del tribuno.
— «Ah! Gesio! entra pure» — egli gli disse.
Mentre il nuovo venuto s’avvicinava al tavolo dietro al quale il Capo sedeva in una poltrona a bracciuoli, tutti i presenti lo guardarono, e, avendo osservata una certa espressione di spavento e di mortificazione sul suo viso, divennero silenziosi per poter udire ciò che egli avesse a narrare.
— «O tribuno» — cominciò egli, facendo un profondo inchino — «ho paura di spiacerti dicendo ciò che dovrò dire.» —
— «Un altro errore commesso, eh, Gesio? Una condanna ingiusta?» —
— «Se potessi persuadermi che non fosse che un semplice errore non avrei una tal paura.......» —
— «Un delitto allora? oppure una trasgressione a qualche ordine impartito? tu puoi offendere Cesare e maledire gli Dei, e vivere, ma non così se l’offesa si riferisce alle aquile.... ah tu sai, Gesio!.... ma, prosegui!...» —
— «Son ormai otto anni dacchè Valerio Grato mi scelse come custode dei prigionieri, qui, nella torre» — disse l’uomo, calmo — «Rammento ancora il giorno in cui entrai in servizio. V’era stato un tumulto il dì innanzi ed erano accadute delle zuffe per via. Noi uccidemmo parecchi Ebrei ed avemmo vittime per parte nostra. Il baccano avvenne, così almeno mi dissero, per un tentato assassinio contro Grato, ch’era caduto da cavallo a cagione, di una tegola gettatagli addosso da un tetto. Io trovai Grato seduto dove precisamente siedi tu, o tribuno, con la testa fasciata. Egli mi comunicò la mia nomina e mi diede queste chiavi, numerate in corrispondenza delle celle; erano i distintivi del mio ufficio e non avrei mai dovuto abbandonarli. Sul tavolo v’era un rotolo di pergamena. Chiamandomi a sè, egli aprì il rotolo. — «Qui vi son le piante delle celle» — disse. Ve ne erano raffigurate tre. — «Questa — proseguì — mostra la disposizione dell’ultimo piano; questa vi da a comprendere come sia fatto il secondo piano, e quest’altra è quella del primo. Ve le affido.» — Io le presi. — Egli continuò:
— «Ora avete le chiavi e le piante; andate subito e famigliarizzatevi di tutto l’ordinamento delle carceri; visitate ogni cella ed osservate in che condizioni essa si trovi. Quando occorra qualche riparo, per assicurarvi meglio del prigioniero, ordinate secondo quel che meglio vi sembra, poichè, finch’io comanderò, sarete il capo delle prigioni e niun altro in esse avrà l’autorità vostra.» —
Io lo salutai e mi volsi per andarmene, ma fui richiamato addietro.
— «Ah, mi dimenticavo — soggiunse — datemi la pianta del secondo piano.» —
Gliela diedi ed egli la distese sul tavolo.
— «Qui, Gesio, vedete una cella» — e pose il dito su quella segnata col numero V.
— «In essa vi son tre uomini, di carattere rivoluzionario. Impadronitisi di un segreto di Stato, scontano ora la propria curiosità, la quale — e mi guardò severamente — è, in casi come questi, peggiore di un delitto. In pena della colpa commessa son stati resi ciechi e muti e dovranno rimanere tali per la vita. Non dovranno ricevere che cibo e bevande attraverso un buco che troverete nel muro. Comprendete, Gesio?» —
Gli risposi di aver capito.
— «Sta bene» — continuò — «un’altra cosa non dovete dimenticare» — e mi fissò con cipiglio minaccioso — «la porta della loro cella — cella numero V sul medesimo piano — questa qui, Gesio — » e mise il dito sopra il disegno della cella perchè mi rimanesse impressa — «non dovrà mai esser aperta per qualsivoglia motivo, nè per lasciar entrare o sortire alcuno, neppur voi stesso.» —
— «Ma se essi muoiono?» — chiesi. —
— «Se muoiono — rispose — la cella sarà a loro tomba. La cella è infetta di lebbra. Capite?» —
Detto ciò, mi congedò.
Gesio tacque e dalla sua tunica estrasse tre pergamene tutte ingiallite dal tempo e dall’uso; scegliendone una la stese sul tavolo innanzi al tribuno dicendo semplicemente:
— «Questo è il primo piano.» —
Tutti quelli che eran li presenti osservarono la pianta:
CORRIDOIO | • | |||
V | IV | III | II | I |
— «Questa è, precisamente, o tribuno, la pianta così quale la ricevetti da Grato. — Guarda: qui è la cella numero V» — disse Cesio. —
— «Vedo,» — rispose il tribuno — «Prosegui. La cella è infetta di lebbra....» —
— «Desidererei chiederti una cosa» — interruppe il carceriere.
Il tribuno fece un segno d’incoraggiamento.
— «Non avevo io il diritto, date le affermazioni fattemi, di presumere che la pianta fosse esatta?» —
— «Non potevi credere diversamente.» —
— «Ebbene: la pianta non è esatta.» —
Il Tribuno lo guardò sorpreso.
— «Non è esatta — ripigliò il custode. — Non parla che di cinque celle esistenti in quel piano, mentre ve ne sono sei.» —
— «Sei, dici?» —
— «Vi mostrerò il piano com’è realmente — o come credo ch’esso sia. Sopra una pagina del suo taccuino disegnò la pianta che segue e la offrì da osservare al tribuno:
CORRIDOIO | • | |||
V | IV | III | II | I |
VI |
— «Tu hai fatto bene disse il tribuno esaminando narrazione fosse finita. — «Farò correggere la pianta, o, meglio ancora, ne farò fare una nuova da dare a te. Vieni a prenderla domattina.» —
Così dicendo s’alzò.
— «Odimi ancora, o tribuno.» —
— «Domani, Gesio, domani.» —
— «Ciò che ho ancora da dirti è urgente.» —
Il tribuno riprese con bonarietà il suo posto.
— «Mi sbrigherò» — disse il custode umilmente — «solo lascia che ti domandi ancora una cosa. Non avevo il diritto di credere a Grato riguardo a quanto mi disse intorno ai prigionieri della cella numero V?» —
— «Sì, era tuo dovere di credere che vi fossero tre prigionieri nella cella — prigionieri di Stato — ciechi e muti.» —
— «Ebbene» — disse il carceriere — «neppur quello era vero.» —
— «No?» — interruppe il tribuno con interessamento.
— «Senti e giudica tu stesso, o tribuno. Come mi hai ordinato, visitai tutte le celle incominciando da quelle dell’ultimo piano e terminando con quelle del primo. L’ordine che la porta del V. non venisse aperta era stato rispettato; durante tutti gli otto anni, cibi e bevande per tre uomini erano stati passati attraverso al buco esistente nel muro. Ieri andai ad aprir la porta curioso di veder i miserabili che, contro ogni previsione, eran vissuti così a lungo. La chiave non entrava nella toppa. Spingemmo un po’, e la porta cadde arrugginita sui cardini. Entrando, non trovai che un uomo, vecchio, cieco, muto, e nudo. I suoi capelli cadevano in disordine oltre la vita. La sua pelle era indurita come pergamena. Tendendo le mani mostrava le sue unghie lunghe ed attorcigliate come gli artigli di un uccello. Gli chiesi ove fossero i suoi compagni: egli scosse il capo in segno di diniego. Credendo di trovare gli altri frugammo per la cella. Il pavimento e le mura erano nude. Se tre uomini fosser stati rinchiusi là dentro, e due di essi fossero morti, almeno le loro ossa si sarebbero trovate.» —
— «Perciò tu credi...» —
— «Credo, o tribuno, che un solo prigioniero sia stato là per otto anni.» —
Il tribuno guardò il carceriere scrutandolo profondamente e disse;
— «Bada; tu accusi Valerio Grato di qualche cosa più che d’una menzogna.» —
Gesio s’inchinò ma disse:
— «Egli potrebbe essersi sbagliato.» —
— «No; egli aveva ragione» — replicò il tribuno vivamente. — «Ciò risulta dal tuo stesso rapporto. Non hai tu detto or ora, che, per otto anni, furono somministrati cibi e bevande per tre uomini?» —
Gli astanti approvarono l’avvedutezza del loro capo: tuttavia Gesio non sembrò darsi per vinto.
— «Tu non hai udito neppur la metà del mio racconto, o tribuno. Allorchè l’avrai udito per intero sarai del mio stesso parere. Vuoi sapere che feci di quell’uomo? Gli feci fare un bagno, lo feci calzare e vestire e poi lo condussi alla porta della torre e gli diedi la libertà. Credevo di essermene sbrigato. Oggi invece egli tornò indietro e fu condotto da me. Con cenni e lagrime finì per farmi comprendere che desiderava far ritorno nella sua cella e gliene diedi il permesso.
Mentre stavano per condurlo via, egli si liberò un momento, mi baciò i piedi, poi, con una pietosa e muta preghiera, insistette perchè andassi con lui. Accondiscesi. II mistero dei tre uomini era tuttavia impresso nella mia mente. Ero insoddisfatto di non esserne venuto a capo. Ora son contento di aver ceduto alla preghiera di quel cieco.» —
Tutti i presenti si fecero silenziosi.
— «Allorchè fummo nella cella ed il prigioniero lo seppe, prese la mia mano premurosamente e mi condusse vicino ad un buco simile a quello attraverso al quale noi passavamo il cibo dal corridoio. Sebbene avesse la grandezza d’un elmo, ieri m’era sfuggito. Sempre tenendo la mia mano nella sua egli accostò il viso al buco e diede in un grido simile a quello di una belva. Una voce debole rispose. Io ne fui stupito e chiamai forte: — «Olà!» — a tutta prima non ebbi nessuna risposta. Chiamai di nuovo e udii queste parole: — «Che tu sia benedetto, o mio Dio!» — Ancor più sorprendente, o tribuno, la voce era quella di una donna. Ed io chiesi:
— «Chi siete?» — ed ebbi in risposta:
— «Una donna d’Israele sepolta qui con sua figlia. Aiutateci presto o morremo!» —
Dissi loro di star di buon animo e corsi qui per saper la tua volontà.
Il tribuno si alzò frettolosamente.
— «Avevi ragione, Gesio;» — diss’egli, — «e adesso capisco. La pianta era falsa e bugiarda era pure la storia dei tre uomini, Vi sono stati dei Romani migliori di Valerio Grato.» —
— «Sì, disse il carceriere, poichè seppi dal prigioniero che aveva regolarmente dato alla donna i cibi e le bevande che aveva ricevuti.» —
— «Il perchè ne è chiaro» — disse il tribuno, e osservando il contegno degli amici e riflettendo che avrebbe fatto bene l’avere dei testimoni, soggiunse:
— «Salviamo quelle donne. Venite tutti.» —
Gesio era raggiante.
— «Bisognerà che foriamo la parete» — egli disse: — «Io potrei trovare il posto ove era la porta, ma essa è stata murata con pietre e calcina» —
Il tribuno si fermò per dire al suo scrivano:
— «Manda degli uomini dietro a me cogli utensili necessari. Fa presto, e conserva la pianta che dev’essere corretta.» —
Poco dopo essi erano partiti alla volta del carcere.