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Gli uomini guardandosi nel viso alzarono le loro torcie.
— «Siamo infette! Siamo infette!» — ripeterono le donne con un lungo gemito.
Con un tal grido possiamo immaginare uno spirito che sia fuggito dalla porta del Paradiso, e che si volga indietro a guardare la vita.
La vedova e la madre fecero il loro dovere, ma, purtroppo, si convinsero che la libertà per cui esse avevan tanto sognato e pregato, non l’avrebbero mai ricuperata intera, non avrebbero mai potuto avvicinare quel frutto d’oro che vedevano da lontano.
Essa e Tirzah erano lebbrose!
Forse il lettore non sa completamente ciò che significa questa parola. La consideri in rapporto alla durezza della legge del tempo di poco modificata nel nostro.
— «Quattro disgrazie rendono gli uomini dei paria — la cecità, la lebbra, la povertà, e la sterilità» — disse il Talmud.
Essere lebbrosi significa essere trattati come morti, allontanati dalla città, dai parenti, obbligati a parlare solo ad una gran distanza con quelli che ci sono più cari al mondo, obbligati a rimaner sempre coi lebbrosi; maltrattati, respinti dalle cerimonie del Tempio o della Sinagoga; ed obbligati a starsene in vesti logore, colle bocche coperte tranne che per gridare: — «Siamo infetti, siamo infetti!» — di trovar forse ricovero in un luogo selvaggio od in una tomba, di divenire come spettri, d’esser di peso agli altri più che a se stessi, di vivere sperando solo nella morte.
Una volta, ma la madre non si ricorda nè il giorno nè l’anno, perchè in quella cella di tortura non potevano aver un’idea del tempo, essa sentì come una piaga asciutta nella palma della sua mano destra, e cercò di lavarla. La piaga si allargò, ciò nonostante per tutta la mano, ma la donna non disse nulla fino a che Tirzah si lamentò del medesimo male. L’acqua era scarsa, ma esse cercavano di risparmiarne per usarne come un rimedio. La mano fu a poco a poco interamente inferma, la pelle si ruppe, e le unghie si distaccarono completamente dalle dita. Con tuttociò non sentivano un gran dolore ma un continuo e crescente malessere. Le loro labbra incominciarono a bruciare ed a screpolarsi. Un giorno la madre, amante della pulizia, pensando che forse il male dipendesse dalle condizioni della prigione e temendo che il viso di Tirzah fosse invaso dal terribile nemico l’avvicinò alla luce e la guardò spaventata; le sopracciglia della ragazza erano bianche come la neve.