Ben Hur/Libro Quarto/Capitolo XII
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Traduzione dall'inglese di Herbert Alexander St John Mildmay, Gastone Cavalieri (1900)
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CAPITOLO XII.
Il palazzo che fronteggiava la casa di Simonide dall’altra parte del fiume, si dice fosse stato costruito dal celebre Epifanio, architetto cresciuto alla scuola dei Persiani, non dei Greci, ed amante più del colossale che del classico. Un grande muro circondava l’isola e serviva al doppio scopo di proteggerla contro l’inondazione del fiume e contro gli assalti della popolazione. Ciò nonostante, i legati la avevano abbandonato quale residenza allegando l’insalubrità dell’aria in quel punto, e s’erano costruiti un altro palazzo sul fianco occidentale del monte Sulpio. Non mancarono i maligni che attribuirono questo sgombero non a ragioni igieniche, ma alla maggior sicurezza che offriva ai governatori Romani la vicinanza delle grandi caserme o cittadelle sorgenti sul pendio orientale del monte. Il sospetto era abbastanza ragionevole. La pretesa insalubrità del palazzo sopra l’isola, non impediva di fatti che esso fosse tenuto in perfetto ordine, e quando un console, generale d’esercito, Re o principe forestiero, visitava Antiochia, che lo si ospitasse nelle sue sale.
Era un labirinto di giardini, bagni, atrii, stanze, padiglioni, tutti splendidamente adorni ed adobbati, come si conveniva alla residenza principesca della prima città d’oriente; ma siccome noi non abbiamo da fare che con una sola delle sue stanze, lasciamo la particolareggiata descrizione del palazzo alla fervida immaginazione del lettore.
L’appartamento in cui ci portiamo era un’ampia sala, pavimentata di marmo lucente, e illuminata, di giorno, da ampie finestre nelle quali lastre di mica colorate servivano da vetri: alle pareti una serie di cariatidi, rappresentanti giganti in diversi atteggiamenti di dolorosa fatica, portavano una cornice arabescata, sopra la quale spiccava la volta dipinta a vari colori — azzurro, verde, porpora di Siro ed oro. Intorno alla sala correva un divano, coperto di sete indiane e di scialli del Cachemir. Il mobiglio era costituito da alcuni tavoli e sgabelli di foggia Egiziana, grottescamente intagliati.
Noi abbiamo lasciato Simonide, nella sua poltrona, rivolgendo disegni per aiutare il re miracoloso, il cui avvento credeva vicino. Ester dorme. Abbandonando quella tranquilla dimora, attraversiamo il fiume e oltrepassando gli scolpiti leoni a guardia della porta, ed altri innumerevoli atrii e cortili babilonesi, penetriamo nella sala che abbiamo descritta.
Cinque candelieri pendono dal soffitto, attaccati a catene di bronzo, una per ciascun angolo, e il quinto nel mezzo, immense piramidi di luce che illuminano anche i volti degli Atlanti e gli arabeschi del cornicione. Intorno ai tavoli, in piedi, o seduti, o movendo irrequieti da gruppo a gruppo, sono raccolte circa cento persone che dobbiamo esaminare con una certa attenzione.
Sono tutti giovani, alcuni quasi ragazzi, Italiani di nascita, quasi tutti Romani di nazionalità. Parlano l’idioma latino in tutta la sua purezza, e indossano abiti tagliati secondo l’ultima foggia tiberina; cioè tuniche corte di manica e appena scendenti oltre il ginocchio. Sui divani e sopra gli sgabelli giacciono le toghe e le lacernae, di cui si sono spogliati in causa del caldo; alcune di esse listate dell’ambita porpora. Sopra i divani sono distesi anche alcuni corpi addormentati, vinti dal sonno o dai fumi di Bacco.
Il vocìo è alto e continuo, qualche volta interrotto da scoppi di risa, o da un grido di rabbia o di tripudio; ma sopra tutti gli altri suoni prevale lo strepito secco dei dadi o tesserae, d’avorio, agitati nei bossoli e gettati rumorosamente sui tavoli, o delle pedine, hostes, mosse sullo scacchiere.
Di chi è formata la società?
— «Buon Flavio» — dice un giuocatore tenendo sospeso il suo pezzo — «vedi tu quella lucerna là sul divano? è appena uscita dalle mani del sarto, e la fibbia ne è d’oro massiccio.» —
— «E poi?» — chiese Flavio, intento al suo giuoco. Ne ho viste altre consimili. Che vuoi dire?» —
«Nulla. Io la darei volentieri in cambio di un uomo che sapesse ogni cosa.» —
— «Un bel cambio davvero. Ma giuoca....» —
— «Ecco, partita.» —
— «E' vero per Giove! Ancora? —
— «Volentieri.» —
— «E la posta?»
— «Un sesterzio.» —
Estrassero le loro tavolette e con uno stilo notarono la scommessa, e mentre rimettevano a posto i pezzi, Flavio ritornò sull'osservazione dell'amico:
— «Un uomo che sappia ogni cosa! Hercle! gli oracoli morirebbero di fame. Che cosa vorresti fare di un simile miracolo?» —
— «Fargli rispondere a una sola domanda, mio Flavio; poi buttarlo nel fiume.» —
— «E la domanda?» —
— «Vorrei che mi dicesse l'ora e il minuto in cui arriverà domani il console Massenzio.» —
— «Ottimo, ottimo! e perchè anche il minuto?» —
— «Hai tu mai provato a startene a capo scoperto sotto la sferza del sole Siriaco, sul molo, aspettando; i fuochi di Vesta sono tiepidi al paragone; e; per Giove Statore, se debbo morire, preferisco di morire a Roma. Questo è un inferno; là, stando in mezzo al Foro, con la mano tesa così, mi parrebbe di toccare la volta degli Dei. Ah, per Venere, mio Flavio, ho parlato troppo. — Ho perduto di nuovo, o cattiva Fortuna!»
— «Ancora?» —
— «Naturalmente. Devo riconquistare il mio sesterzio.» —
— «Sia.» —
I due continuarono a giuocare, finchè la luce del giorno che sorgeva cominciò a fare impallidire il chiarore delle candele.
Come la maggior parte della compagnia, essi erano degli attachès militari al servizio del console, di cui attendevano la venuta.
Durante questa conversazione un nuovo gruppo era entrato nella stanza, e dapprima inosservato, si avvicinò al tavolo di mezzo.
I suoi componenti portavano traccie di aver passato la notte a banchetto. Alcuni si reggevano a stento sulle gambe.
Intorno alle tempia del loro duce pendeva una ghirlanda che lo indicava come anfitrione della festa trascorsa. In questi il vino non aveva fatto impressione, se non fosse per aumentare la rara bellezza del suo volto, del più puro tipo Romano.
Camminava a testa alta: il sangue gli imporporava le labbra e le gote; gli occhi scintillavano, e dalle pieghe della candida toga e da tutto il portamento della persona spirava un’aura regale.
Nell’avvicinarsi al tavolo si fece largo fra la folla, spingendo a destra e sinistra chi gli ingombrava il cammino, con la massima noncuranza e senza chiedere scusa; quando finalmente si arrestò chinandosi sopra i giuocatori, tutti si voltarono a lui con un grido altissimo:
— «Messala! Messala!» —
I più lontani fecero eco a quel grido. I gruppi si sciolsero, tavoli e giuochi furono abbandonati, e tutti fecero circolo intorno a lui.
Messala accolse questa dimostrazione con la massima indifferenza, e procedette immediatamente a dare un saggio dei metodi che gli avevano acquistata tanta popolarità.
— «Salute, a te, Druso, mio amico,» — disse ad un giuocatore alla sua destra. — «Salute, e dammi un momento le tue tavolette.» —
Guardò la superficie cerata delle tavolette, e le annotazioni di giuoco, poi le buttò sdegnosamente sul tavolo.
— «Denarii, soltanto denarii, — la moneta dei carrettieri e dei beccai!» — disse con un riso di disprezzo. — «Per l’ebbra Semele, come è decaduta Roma, se un Cesare passa le sue notti pregando la Fortuna che gli conceda di vincere un denario!» —
II discendente dei Drusi arrossì fino ai cappelli, ma gli spettatori coprirono la sua voce, stringendosi intorno al tavolo con grida di: «Messala, Messala!» —
— «Uomini del Tevere» — continuò Messala, — «strappando un bossolo di dadi dalle mani di un giuocatore.» — «Chi è il più favorito dagli Dei? Il Romano. Chi è il legislatore delle nazioni? Il Romano. Chi è, per diritto di spada, il padrone del mondo?» —
La compagnia era facilmente esaltata, e il pensiero di supremazia espresso da Messala era loro famigliare fin dalla nascita. Esclamarono in coro:
— «Il Romano, il Romano!» —
— «Eppure, eppure, vi è qualche cosa di superiore al Romano.» —
Il patrizio scosse il capo e, dopo una pausa studiata, ripetè con ischerno:
— «Avete udito? Vi è qualcuno più grande del miglior Romano.» —
— «Ercole!» esclamò uno.
— «Bacco!» — gridò un altro.
— «Giove, Giove!» — tuonò la folla.
— «No,» — disse Messala, — «parlo di uomini.» —
— «Il nome, il nome!» — essi chiesero.
— «Lo dirò,» disse: — «E’ colui che alla perfezione di Roma ha aggiunto la perfezione dell’Oriente; è colui che al braccio del conquistatore sa sposare l’arte di godere.» —
— «Per Pol! Dopo tutto egli è un Romano ancora!» — esclamò uno. Vi fu uno scroscio d’applauso, e Messala continuò:
— «Nell’oriente, non abbiamo divinità: imperano solo Bacco, Venere e Fortuna, e la maggiore di esse è la Fortuna. Donde il nostro motto: Chi osa ciò che io oso?
Parole degne del Senato, degne della battaglia, degne massimamente di chi come me cerca il meglio e non teme, sfidandolo, il peggio.» —
La sua voce da declamatoria si fece più bassa e famigliare, senza perdere il conquistato ascendente.
— «Nella cassa forte della cittadella io tengo cinque talenti. Eccone le ricevute.» —
Dal seno della sua tunica estrasse un rotolo, e, gettandolo sul tavolo, proseguì fra religioso silenzio, bersaglio di tutti gli sguardi della sala.
— «Quella somma vi darà la misura di quanto io osi. Chi osa altrettanto? Silenzio! La posta è troppo grande? Ritirerò un talento. Che! Tutti muti? Andiamo: Tre talenti, solo tre; due, uno, — uno almeno, uno solo per l’onore del fiume sulle cui sponde siete nati! La Roma d’Oriente sfida la Roma d’Occidente. Suvvia: Il barbaro Oronte contro il sacro Tevere!» —
Agitò i dadi, aspettando.
— «L’Oronte contro il Tevere» — ripetè con enfasi sprezzante.
Nessuno si mosse. Allora buttò il bossolo per terra, e, ridendo, raccolse le sue ricevute.
— «Ah, ah! Per Giove Olimpico. Ora so che siete venuti a cercar fortuna in Antiochia, Cecilio!» —
— «Son qui Messala!» — gridò un uomo dietro di lui.
— «Sono qui, che muoio fra la folla, cercando la elemosina di un dramma pel barcaiuolo d’Averno. Ma per Plutone, questi uomini nuovi non posseggono un obolo fra tutti.» —
La sortita provocò uno scoppio di risa. Solo Messala non vi si unì, ma disse con gravità:
— «Va, Cecilio, nella stanza donde venimmo, ed ordina ai domestici di portar qui le anfore e le tazze. Se questi nostri compatrioti pezzenti di Siria non hanno denari, voglio almeno vedere se posseggono una gola. Spicciati.» —
Poi si volse a Druso, con una risata che echeggiò per la stanza.
— «Ah, ah, mio amico! Non ti offendere se abbassai Cesare al livello di un denario. Lo feci per svergognare questi aquilotti della nostra vecchia Roma. Vieni, Druso, vieni!» — Raccolse il bossolo ed agitò allegramente i dadi.
— «Per che posta giuochiamo?» —
Il modo era franco, cordiale, seducente. Druso cedette immediatamente.
— «Per le Ninfe, sì; accetto!» — esclamò ridendo.
— «Io giuocherò con te, Messala, — per un denario.» —
Un giovinetto dal volto quasi infantile osservava la scena da un capo del tavolo. Improvvisamente Messala si volse a lui:
— «Chi sei?» — gli chiese.
Il giovine si ritrasse timidamente.
— «No, per Castore, no! Non intesi di offenderti. Ho bisogno d’un segretario che tenga nota delle mie scommesse. Vuoi servirmi?» —
Il giovine tirò fuori le sue tavolette e si avvicinò prontamente a Messala.
— «Fermati, Messala, fermati!» — esclamò Druso. — »Io non so se porti sfortuna arrestare i dadi con una domanda; ma mi è balenato un’idea e devo comunicartela quand’anche Venere mi frustasse con la sua cintura.» —
— «No, mio Druso; quando Venere si toglie la cintura, è Venere amorosa.» —
— «Ma la tua domanda. — Aspetta che getti, avvenga ciò che deve avvenire. Così.» —
Rovesciò il bossolo sul tavolo e lo tenne fermo sopra i dadi.
Druso chiese: — «Hai tu mai veduto un tale Quinto Arrio?» —
— «Il duumviro?» —
— «No, suo figlio.» —
— «Non sapeva che avesse un figlio.» —
— «Bene, non importa,» — soggiunse Druso; — «soltanto sappi che questo Arrio ti assomiglia come Castore a Polluce.» —
L’osservazione scatenò una tempesta di conferme.
— «E’ vero, è vero! I suoi occhi e il suo viso.» — gridarono.
— «Che?» insinuò uno con disprezzo. — «Messala è Romano; Arrio è un Ebreo.» —
— «Hai ragione» — esclamò un terzo. — «Egli è Ebreo.» —
Messala interruppe la disputa cha stava per sorgere.
— «Il vero non è ancor giunto, mio Druso; e come vedi, tengo la Fortuna pei capelli. Quanto ad Arrio, accetterò il tuo parere, purchè tu mi dia qualche altro particolare su di lui.» —
— «Ebreo o Romano — pel grande dio Pane, senza mancarti di rispetto, o Messala! — questo Arrio è bello, coraggioso e sagace. L’imperatore gli offrì il suo favore, ed egli lo rifiutò. Un’aria di mistero lo circonda ed egli si tiene lontano dagli altri come se si stimasse superiore o nemmeno di essi. Nelle palestre non aveva rivali; scherzava coi giganti del Reno e coi tori della Sarmazia come fossero balocchi. Il duumviro lo lasciò erede di una sostanza colossale. La sua passione è quella delle armi, e non pensa che alla guerra.
Massenzio lo accolse nella sua famiglia e doveva arrivare insieme a noi, ma lo perdemmo di vista a Ravenna. Ciò non ostante è arrivato. Ne udimmo parlare stamattina. Per Pol! Invece di venire al palazzo o presentarsi alla cittadella, ha lasciato i suoi bagagli ad un Khan ed è sparito nuovamente.» —
Messala aveva ascoltato il principio di questo racconto con indifferenza cortese; ma la sua attenzione crebbe a poco a poco, e alla conclusione tolse la mano dal bossolo e gridò:
— «Caio! mi ascolti?» —
Un giovane al suo fianco, — il suo Mirtilo, o compagno di cocchio della mattina, rispose:
— «T’ascolto, Messala, poichè ti son vicino ed amico.» —
— «Ti ricordi dell’uomo che ti procurò quel capitombolo oggi?» —
— «Pei riccioli di Bacco! Non dovrei ricordarmene, con una spalla ammaccata che me ne tiene fresca la memoria?» —
— «Allora ringrazia il Fato: ho trovato il tuo nemico. Ascolta.» —
Messala si rivolse a Druso.
— «Dammi altri ragguagli di costui — Per Pol! — di costui che è insieme Romano ed Ebreo, una bella combinazione davvero. Che vesti porta, o mio Druso?» —
— «Di foggia Ebraica.» —
— «Lo senti, Caio? L’individuo è giovine, — uno; ha l’aspetto di un Romano — due; ama vestirsi da Ebreo — tre; nella palestra si è guadagnato corone con la forza del braccio, di cui ha dato un saggio col nostro cocchio oggi — quattro. Prosegui Druso, ed illumina maggiormente l’amico.
Senza dubbio questo Arrio avrà una certa conoscenza di lingue, altrimenti non potrebbe essere Ebreo oggi, domani Romano; ma l’idioma d’Atene, lo conosce?» —
— «Con tale purezza, Messala, che potrebbe concorrere nelle gare Istmie.» —
— «Mi segui, o Caio?» — disse Messala. — «Il tuo amico conosce il greco, il che, secondo il mio calcolo, fa cinque. Che ne dici?» —
— «Tu l'hai scoperto, o Messala» — rispose Caio.
— «Perdonami, Druso; perdonatemi tutti di parlare di enigmi e indovinelli» — disse Messala nel suo modo seducente. — «Ma devo fare ancora appello alla tua cortesia. Guarda!» — coprì di nuovo con la mano il bossolo dei dadi. — «Guarda come celo i secreti della Pizia! Tu dicevi, io credo, che un certo mistero circondi la persona di questo Arrio. Spiegati.» —
— «Non è nulla. Messala, nulla» — replicò Druso
— «E’ quasi una leggenda: quando il vecchio Arrio partì per combattere i pirati, non aveva nè moglie nè figli; ritornò con un giovine, questi di cui ti parlo — e il giorno dopo lo adottò.» —
— «Lo adottò?» — ripetè Messala. — «Per gli dei, Druso, tu stimoli la mia curiosità. E dove trovò il duumviro questo ragazzo? E chi era costui?» —
— «Chi potrà risponderti meglio, o Messala, del giovine Arrio in persona? Per Pol! Nella battaglia il duumviro — allora soltanto tribuno — perdè la sua galera. Nella sua nave trovò lui ed un altra persona — i soli superstiti dell’equipaggio, — aggrappati alla medesima trave. Dicono che il compagno del duumviro fosse un Ebreo....» —
— «Un Ebreo!» — ripetè Messala.
— «.... e uno schiavo.» —
— «Come... Druso? Uno schiavo?» —
— «Quando i due furono raccolti e portati sul ponte, il tribuno vestiva la sua corazza, e l’altro indossava la tunica del rematore.» —
Messala si alzò in piedi.
— «Un gale....» — Non terminò la parola degradante, e guardò in volto ai compagni, come trasognato.
In quella entrarono i servitori con fiaschi di vino, cesta di frutta e di dolci, tazze e coppe d’argento e d’oro. Vi fu un movimento nella folla. Messala si riebbe e, salito sopra una sedia:
— «Uomini del Tevere» — disse con voce squillante — «aspettando il console, nostro capo, non offendiamo Bacco, nostro Dio. Chi sarà il nostro anfitrione?» —
Druso si alzò.
— «Chi sarà nostro anfitrione se non colui che darà la festa? Rispondete, Romani» —
Un grido unanime rispose.
Messala prese la ghirlanda dal capo e la diede a Druso, il quale si arrampicò sopra il tavolo, e, in vista di tutti, la ripose sul capo di Messala, consacrandolo Re della festa.
— «Mi accompagnarono» — egli disse — «alcuni amici che avevano banchettato con me questa notte. Affinché la nostra festa proceda secondo i sacri riti, portatemi qui il più briaco fra loro.» —
Un clamore di voci rispose: — «Egli è qui, egli è qui!» —
E dal pavimento dov’era caduto sollevarono un giovane di così squisita ed effeminata bellezza che avrebbe potuto passare pel Dio del vino in persona, soltanto che la corona gli sarebbe scivolata dal capo ed il tirso dalle mani.
— «Sollevatelo sopra il tavolo» — comandò il Re.
Si constatò che non poteva stare seduto.
— «Aiutalo, Druso, se vuoi che la bella Nione un giorno ti aiuti.» —
Druso prese l’ebbro fra le sue braccia.
Allora Messala, in mezzo ad un religioso silenzio, così parlò all’assopito:
— «O Bacco! Massimo fra gli Dei, sii propizio questa notte a noi, tuoi fedeli. Per me e per i miei compagni io appenderò questa ghirlanda» — sollevandola riverentemente dal capo — «io appenderò questa ghirlanda domani al tuo altare nel Bosco di Dafne» —
Fece un inchino, riordinò la ghirlanda sulle sue tempie, poi, alzando il bossolo, scoprì i dadi, esclamando:
— «Guarda, o mio Druso! Per l’asino di Sileno, il denario è mio!»
Vi fu scroscio di applausi che fece tremar la volta e gli Atlanti che la sorreggevano, e l’orgia incominciò.