Ben Hur/Libro Quarto/Capitolo III
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Traduzione dall'inglese di Herbert Alexander St John Mildmay, Gastone Cavalieri (1900)
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CAPITOLO III.
All’indomani, per tempo, sprezzando le belle vie della città, Ben Hur andò in cerca della casa di Simonide. Dopo essere penetrato sotto l’arco di una torre merlata, passò una fila di moli: di là continuò a camminare lungo il fiume fra una folla di affacendati, finchè, raggiunto il Ponte Seleucio si fermò e diede un’occhiata all’ingiro. Là, immediatamente sotto al ponte, stava la casa del negoziante, una mole di pietra grigia a pareti ruvide, senza alcuno stile, e, come disse appunto il viaggiatore, formando apparentemente il contrafforte della muraglia alla quale s’appoggiava. Due portoni immensi aprentisi sulla facciata, davano accesso al palazzo. Alcuni vani, nella parte superiore muniti di forti inferriate tenevano luogo di finestre. Dai crepacci dondolavano erbe ed arbusti mentre in altri punti un muschio nerastro copriva la pietra nuda. Le porte erano spalancate: attraverso ad esse fluiva ininterrotta e frettolosa la doppia corrente del vasto commercio di Simonide. Sul molo stavano ammonticchiate merci imballate in varia guisa, e gruppi di schiavi, nudi sino alla cintola, si aggiravano intorno ad esse, intenti al lavoro.
A valle del ponte trovavasi una flottiglia di galere, alcune in atto di caricare, altre di scaricare merci. Da ogni albero sventolava una bandiera gialla. Dalla flottiglia al molo, da nave a nave, gli schiavi passavano e ripassavano chiassosamente. Sull’opposta sponda del fiume, dall’altro capo del ponte, sorgeva dall’acqua una muraglia, al disopra della quale dominavano i fantastici cornicioni e le torricelle del palazzo imperiale occupante l’intiera area dell’isola di cui aveva fatto cenno l’Ebreo nella sua descrizione. Ma per quanto suggestivo fosse lo spettacolo Ben Hur, appena se ne accorse. Egli era tutto assorto nel pensiero che fosse finalmente giunta l’ora d’avere contezza dei suoi, se, come era certo, Simonide era stato in realtà lo schiavo di suo padre. Ma riconoscerebbe egli questi rapporti passati? Ciò equivarrebbe all’abbandono delle sue ricchezze e di quella sovranità commerciale di cui facevan regal mostra il molo ed il fiume, e ciò che era più doloroso ancora, rovinerebbe la sua fortuna, mentre si trovava all’apice di una bellissima carriera. Sarebbe inoltre stato un dichiararsi volontariamente schiavo. L’idea sola d’una tal domanda appariva mostruosa: infatti, ridotta ai minimi termini, essa suonava così: — «Tu sei mio schiavo, dammi tutto quello che hai, te stesso compreso.» — Ciò nonostante Ben Hur attingeva forza per l’imminente colloquio dalla coscienza dei proprii diritti e dalla speranza che gli batteva in cuore. Se la storia narratagli era vera, Simonide e tutti i suoi beni gli appartenevano. Ma le ricchezze, ad onor del vero, non gl’importavano affatto. Allorchè si avanzò risoluto verso la porta egli aveva già in cuor suo giurato, che, purchè ottenesse notizie di sua madre e di Tirzah, avrebbe lasciato libero Simonide, nè altro gli avrebbe chiesto.
Senza esitare più oltre, penetrò nella casa.
L’interno era semplicemente quello d’un vasto deposito, diviso in riparti ove in buon ordine merci d’ogni genere si trovavano immagazzinate. Quantunque la luce fosse fioca e l’aria soffocante, vi si lavorava alacremente, e qua e là scorgevansi operai con seghe e martelli occupati a preparare casse d’imballaggio. Egli seguì lentamente una specie di sentiero attraverso i cumuli di merci, chiedendo a sè stesso se veramente l’uomo, del cui genio vedeva intorno a sè tante prove, era mai stato lo schiavo di suo padre: se sì, a qual classe egli aveva appartenuto? Se Israelita, era egli figlio d’un servo? Forse un debitore o figlio d’un debitore? ovvero sarebbe egli mai stato condannato e venduto per furto? Questi pensieri, che gli attraversavano la mente non scemarono — forse sembrerà strano — menomamente il rispetto e l’ammirazione che sentiva crescere in sè pel negoziante.
Un uomo gli venne incontro e gli chiese:
— «Che cosa desiderate?» —
— «Vorrei parlare con Simonide, il negoziante.» —
— «Favorite da questa parte.» —
Percorrendo parecchi vani, lasciati sgombri dalle casse o dalle balle di mercanzia, arrivarono ai piedi di una scala, che li condusse sopra il tetto del magazzeno. Ad un lato di questo sorgeva l’abitazione di Simonide, un ampio fabbricato dal tetto pure terminante a terrazza, dall’ampio cornicione del quale Ben Hur vide con sorpresa pendere fiori ed arbusti bellissimi. Anche il terrazzo del magazzeno era ordinato a giardino, adorno di cespugli di rose persiane, delle quali Ben Hur aspirava con voluttà il dolcissimo profumo. Entrati nella casa e passato una specie di corridoio, tenuto in semi-oscurità, si arrestarono davanti ad una cortina in parte sollevata, mentre la guida annunziò ad alta voce:
— «Un forestiero che vuol vedere il padrone.» —
Una voce limpida rispose:
— «Lasciatelo entrare, in nome di Dio.» —
Il locale in cui Ben Hur entrò sarebbe stato chiamato atrium da un Romano. Le pareti erano rivestite di tavolati di legno, da cui sporgevano scaffali e riparti, come si usano ancor oggi nelle case di commercio, ripieni di fogli polverosi ed ingialliti dal tempo. Al di sopra e al di sotto dei tavolati, correvano eleganti cornici di legno, in origine bianche, ora brune e polite. Il soffitto era a volta, con una cupola centrale ricoperta da centinaia di lastre di mica violacea, che diffondeva una luce deliziosamente tranquilla per tutta la stanza. Il pavimento era coperto da tappeti grigi, dal pelo così lungo e morbido che i piedi vi si sprofondavano e il rumore dei passi era inavvertibile. In mezzo alla camera, rischiarate da quella luce calma, stavano due persone; un uomo seduto in un seggiolone dallo schienale alto e foderato da soffici cuscini; alla sua destra, appoggiata alla seggiola, una fanciulla nella primavera della età. Alla loro vista Ben Hur sentì il sangue martellargli le tempie ed arrossirgli le gote. Si inchinò, parte per rispetto, parte per guadagnar tempo. Così facendo vide un gesto di sorpresa dell’individuo seduto, e un tremito che al suo apparire ne scosse la persona. Quando Ben Hur rialzò il capo, questi segni di emozione erano spariti, e l’unico cambiamento del quadro dinanzi a sè era avvenuto nell’atteggiamento della giovinetta, che ora teneva la mano appoggiata leggermente alla spalla del vecchio.
Entrambi lo guardavano attentamente.
— «Se siete Simonide, ed Ebreo» — Ben Hur esitò — «che la pace del Dio di nostro padre Abramo sia con voi e coi vostri.» — Quest’ultima parte era rivolta alla giovine.
— «Io sono Simonide, Ebreo di nascita» — rispose l’altro con voce chiara e sonora. — «Vi contraccambio i saluti e nello stesso tempo vi prego di dirmi con chi ho l’onore di parlare.» —
Ben Hur guardò il suo interlocutore, e invece di una figura umana vide un corpo deforme, sprofondato nei cuscini, coperto d’un mantello di seta scura trapunta; ma su quelle povere carni si ergeva una testa di apparenza regale — la testa ideale d’un uomo di Stato o di un conquistatore — una testa larga alla base e dalla fronte nobile ed ampia, quale Michelangelo avrebbe modellato in una statua di Cesare. Bianchi capelli inanellati gli scendevano sulle tempie accentuando l’intensità dello sguardo di due occhi nerissimi e lucenti. Il volto era scolorito. Le gote gonfie erano poste in maggiore rilievo da profonde rughe. In una parola la testa ed il volto indicavano essere quegli d’un uomo più atto a muovere il mondo che a lasciarsene smuovere, un uomo capace di sopportare dodici volte le torture che lo avevano ridotto in quello stato, senza lasciarsi sfuggire un lamento e molto meno una confessione; un uomo che rinuncerebbe alla vita ma non mai a un suo proponimento; un uomo invulnerabile tranne nei suoi affetti. A lui Ben Hur stese la mano col palmo rivolto all’insù come offrente pace nel tempo stesso che pace chiedeva.
— «Io sono Giuda, figliuolo di Ithamar, l’ultimo capo della casa di Hur, principe di Gerusalemme.»
La destra del negoziante uscì dal mantello; era una mano lunga e sottile, dalle articolazioni deformate dai tormenti. Essa si schiuse con forza, ma fu quello l’unico segno di sorpresa e d’emozione dato dal vecchio. Con voce calma egli disse:
— «I principi di Gerusalemme, principi del sangue, sono sempre i benvenuti in questa casa; siatelo voi pure. Ester appressa una sedia per questo giovane.» —
La fanciulla avanzò un’ottomana che le era vicina, ed in quest’atto i suoi sguardi s’incontrarono con quelli di Ben Hur.
— «La pace del Signore sia con voi» — diss’ella modestamente — «sedete e riposate.» —
Essa non aveva indovinato lo scopo della sua visita. Le facoltà della donna non si spingono molto lontano. E’ solo nei sentimenti più delicati, come la pietà, la compassione, la riconoscenza che il suo intuito ha del meraviglioso. La giovine era semplicemente convinta che il forastiero soffrisse di qualche ignoto dolore, e che fosse venuto in cerca di sollievo e di conforto. Ben Hur non approfittò del sedile offertogli, ma continuò in tono di profondo rispetto.
— «Prego messer Simonide di non ritenermi importuno. Nel risalire il fiume appresi che egli conobbe mio padre.» —
— «Conobbi infatti il principe Hur. Fummo associati in parecchie imprese commerciali, in terre lontane, alcune oltre il mare e il deserto. Ma vi prego, sedete; tu, Ester, dagli del vino. Neemia parla di un figlio di Hur che ai suoi tempi era padrone di mezza Gerusalemme; è una stirpe antica, molto antica ed illustre. Persino ai tempi di Mosè e Giosuè qualcuno del loro sangue trovò grazia negli occhi del Signore, e divise gloria ed onore con quei sommi. Non sia detto che il discendente di una tal famiglia rifiuti un calice del puro vino di Sorek, cresciuto sui fianchi delle colline di Ebron.» —
Appena terminate queste parole, Ester si avvicinò a Ben Hur con un calice d’argento che essa aveva riempito da un’anfora posta sul tavolo vicino e glielo presentò, abbassando gli occhi. Egli le toccò leggermente la mano in segno di diniego. Di nuovo i loro sguardi si incontrarono, e questa volta egli notò che la fanciulla era piccola di statura, arrivando a pena alle sue spalle, ma assai graziosa, con un volto regolare, al quale due occhi neri davano l’espressione di una grande soavità. — «Essa è bella e buona» — mormorò Hur. — «E forse Tirzah le assomiglierebbe se fosse viva. Povera Tirzah!» — Quindi a voce alta:
— «No. Tuo padre, se egli è tuo padre....» —
— «Io sono Ester, figlia di Simonide» — rispose con dignità la fanciulla.
— «In tal caso, buona Ester, tuo padre, dopo aver ascoltata la mia storia, non mi stimerà meno per aver esitato ad accettare questo suo prezioso liquore, come pure spero di non scapitare ai tuoi occhi. Ti prego, rimani qui un istante ancora.» —
Entrambi, quasi provassero lo stesso impulso, si rivolsero simultaneamente al negoziante: — «Simonide!» — esclamò con fermezza Ben Hur — «mio padre aveva alla sua morte un servo fidato dello stesso tuo nome e mi si è detto che tu sei quello!» —
Vi fu un sussulto delle povere membra martirizzate e di nuovo la scarna mano si chiuse.
— «Ester, Ester!» — tuonò la voce severa del vecchio — «Qui, vicino a me, se sei figlia di tua madre; Qui, dico, non là!» —
La ragazza guardò un istante or l’uno or l’altro; poscia ripose il calice sulla tavola e, sommessa, riprese il suo posto presso il padre, con un’espressione di meraviglia, non scevra di apprensione.
Simonide alzò la mano sinistra e la pose in quella della figlia che affettuosamente gli accarezzò la spalla, indi soggiunse tranquillamente: — «Sono invecchiato nel commercio cogli uomini — invecchiato innanzi tempo; è un’amara ma salutare lezione che ho appreso con gli anni e la diffidenza verso i miei simili. Che il Dio d’Israello abbia pietà di chi sul finire della vita è costretto a parlare così! Gli oggetti della mia affezione sono pochi. Uno di essi è questa creatura, la quale» — qui avvicinò alle labbra la mano che teneva nella propria, con un’espressione sul cui significato non poteva esservi dubbio — «a tutt’oggi fu disinteressatamente mia, e che mi fu di sì dolce conforto che il suo abbandono mi ucciderebbe.» —
Il capo d’Ester s’abbassò e la guancia sua sfiorò il volto del padre.
— «L’altro oggetto del mio affetto non è che una memoria, di cui posso dire, che, pari a una benedizione di Dio, essa potrebbe abbracciare una intera famiglia, purchè» — qui la sua voce si fece fioca e tremula — «purchè sapessi dove questa si trova.» —
Acceso in volto. Ben Hur fece un passo avanti e proruppe con impeto: — «Mia madre e mia sorella! oh sì, è di loro che parlate!» —
Ester, quasicchè quelle parole fossero state rivolte a lei, alzò il capo, ma Simonide, ripresa la sua calma abituale, rispose con freddezza:
— «Ascoltatemi fino alla fine. In nome di quegli oggetti del mio amore a cui accennai, prima ch’io ti risponda circa i miei rapporti col principe Hur, dammi le prove della tua identità. Le tue testimonianze sono atti scritti o persone viventi?» —
La domanda era chiara e la sua ragionevolezza indiscutibile. Ben Hur arrossì, giunse le mani, balbettò e si smarrì. Simonide continuò incalzandolo.» —
— «Le prove, le prove, dico! Portamele e mettile davanti ai miei occhi.» —
Ben Hur ammutolì. Egli non aveva preveduto questa domanda, ed ora per la prima volta gli si affacciò la terribile verità che i tre anni trascorsi sulla galera lo avevano privato di tutte le prove circa la sua identità. Quinto Arrio era il solo che conoscesse la sua storia e che avrebbe potuto deporre in suo favore. Ma, come risulterà qui appresso, il prode romano era morto. Giuda aveva altre volte provato il peso della sua condizione solitaria, ma, mai come in questo momento, ne provò tutta la gravezza.
Compreso della propria superiorità Simonide rispettò il suo dolore e lo guardò in silenzio.
— «Messer Simonide» — diss’egli alfine. — «Io posso narrarvi la mia storia. Ma voi dovete promettermi di sospendere il vostro giudizio fino al suo termine, e di ascoltarmi con benevolenza.» —
— «Parla,» — fece Simonide, ora padrone della situazione. — «Parla, ed io t’ascolterò tanto più volentieri che non ho negato che tu sia la persona che affermi d’essere.» —
Ben Hur imprese a raccontare le sue vicende a sommi capi e rapidamente, ma con quel calore e intensità di sentimento che sono fonte d’ogni eloquenza.
Siccome i casi suoi ci sono noti fino al suo sbarco a Miseno in compagnia di Arrio ritornato vittorioso dall’Egeo, lo seguiremo nel suo racconto solo a partire da quel punto.
— «Il mio benefattore era amato e stimato dall’imperatore il quale lo colmò di meritate ricompense. I mercanti d’Oriente contribuirono con magnifici doni ed egli divenne ricchissimo fra i ricchi di Roma. Ma può un’Ebreo dimenticare la propria religione, o il proprio luogo di nascita, la terra santa dei suoi padri? L’ottimo uomo mi adottò qual figlio secondo il rito formale della legge ed io lo rimeritai del mio meglio; nessun figlio fu più scrupoloso nell’adempiere ai suoi doveri verso il proprio padre. Egli voleva fare di me un’erudito. Nell’arte, nella filosofia, nella rettorica, e nell’eloquenza, egli m’avrebbe fatto istruire da famosi maestri. Rifiutai perchè ero Ebreo, perchè non potevo dimenticare il Signore Iddio, la gloria dei Profeti e la città costruita sui colli da Davide e da Salomone. Oh, voi mi domanderete perchè io accettai i beneficii del Romano? Io l’amava, e poi io pensava mercè il suo aiuto, di porre in moto tali influenze che mi svelassero il mistero avvolgente il destino dì mia madre e di mia sorella. A queste ragioni se ne aggiunse una terza, di cui altro non dirò se non che io desiderava di conoscer l’arte della guerra. Nelle palestre e nei circhi mi affaticai non meno che sul campo, e tanto negli uni come negli altri resi illustre il mio nome, nome che però non è quello dei miei padri. Meritai corone in gran copia, che ora fregiano le pareti della villa di Miseno, e tutte mi vennero nella mia qualità di figlio del duumviro Arrio. Solo sotto quel nome sono conosciuto dai Romani. Io non perdeva mai di vista il mio segreto; intanto lasciai Roma per venire ad Antiochia per accompagnare il console Massenzio nella campagna ch’egli sta preparando contro i Parti.
Pratico dell’uso di tutte le armi, voglio ora procurarmi quelle cognizioni superiori necessarie ad un duce alla testa di eserciti. Il console mi ha ammesso nella sua famiglia militare. Ma ieri, mentre la nostra nave entrava nell’oriente incontrammo due legni spieganti bandiere gialle. Un mio connazionale, e compagno di viaggio da Cipro, ci spiegò che quelle navi appartenevano a Simonide, il gran negoziante d’Antiochia, ci parlò della sua vita e dei meravigliosi successi ch’egli ha riportati nei suoi commerci, ci parlò delle sue flotte, delle sue carovane e dei loro viaggi; finalmente, ignorando ch’io fossi più interessato nell’argomento degli altri uditori, disse che Simonide era un Ebreo, altre volte servo del principe Hur e neppure tacque delle crudeltà di Grato nè dello scopo di tali crudeltà.» —
A quest’allusione Simonide lasciò cadere il capo fra le mani, e sua figlia, come per nascondere l’emozione di entrambi abbassò il volto sul collo del padre. Questi alzò subito gli occhi e con voce chiara esclamò:
— «Sto ascoltando.» —
— «Oh, buon Simonide,» — replicò Ben Hur facendosi avanti ed esprimendo nel volto la sua interna commozione. — «Io vedo che tu non sei convinto e che ancora diffidi di me.» —
Il negoziante si mantenne rigidamente immobile e muto.
— «E vedo non meno chiaramente le difficoltà della mia posizione» — continuò Ben Hur. — «Posso bensì provare le mie relazioni con Roma; non ho che a rivolgermi al console attualmente ospitato dal governatore della città, ma non posso darti le prove che tu mi domandi. Non posso provare che io sono il figlio di mio padre. Coloro che lo potrebbero attestare sono tutti morti o scomparsi.» —
Si nascose il volto fra le mani, finchè Ester, porgendogli nuovamente il calice che prima aveva respinto, gli disse:
— «Il vino è della patria nostra che tanto amiamo. Bevi, te ne prego.» —
La sua voce era dolce come quella di Rebecca quando offerse l’acqua al pozzo di Nahor.
Egli scorse le lacrime che le inumidivano gli occhi, e bevve, dicendo:
— «Figlia di Simonide, il tuo cuore è simbolo di bontà, e buona tu sei davvero avendo compassione dello straniero. Il signore ti benedica. Io ti ringrazio.» —
Indi, rivoltosi nuovamente al negoziante:
— «Siccome io non ho prove d’esser figlio di mio padre, ritiro la domanda che ti feci, o Simonide, e mi ritiro da questa soglia che la mia persona non oscurerà più mai: solo lascia che io ti dica che non ero venuto a ridurti in schiavitù e prendere la tua fortuna, che in nessun caso toccherei: essa è il prodotto del tuo lavoro e del tuo genio, e ti appartiene. Allorchè il buon Quinto, mio secondo padre, s’imbarcò pel viaggio che gli fu fatale, mi lasciò erede di una fortuna principesca. Se pertanto tu penserai qualche volta a me, ti sovvenga della domanda che io ti feci e la quale, sui profeti di Jeova, tuo Signore e mio, io giuro è l’unico scopo della mia visita: che cosa sai dirmi di mia madre e di Tirzah, mia sorella, della fanciulla che per anni e bellezza dovrebbe essere pari a questa tua figlia, consolazione e nettare della tua vita? Oh, che cosa puoi dirmi di loro?» —
Le lacrime scorrevano lungo le guancie di Ester; ma il padre continuò a rimanere impassibile, e con voce chiara e limpida rispose:
— «Dissi d’aver conosciuto il principe Ithamar di Hur. Ricordo d’aver udito parlare della disgrazia che colpì la sua famiglia e del dolore che provai nell’apprendere quella notizia. Colui che fu causa di tanta sciagura alla vedova e ai figli dell’amico mio, è quel medesimo che mi colpì della sua ira implacabile. Io ho fatto indagini per scoprire la sorte della famiglia, ma a nulla servirono; non ne rimase traccia.» —
Ben Hur non potè reprimere un gemito di dolore.
— «Un’altra speranza svanita!» — articolò con voce strozzata. — «Sono abituato ai disinganni. Vi chiedo perdono del disturbo arrecatovi. Ormai non mi resta che vivere per la vendetta. Addio!» —
Nell’atto di alzare le cortine della porta, si volse indietro ancora una volta e disse con semplicità commovente:
— «Vi ringrazio entrambi.» —
— «La pace sia con voi» — rispose il negoziante.
Ester non potè parlare per i singhiozzi.
E così si separarono.