Ben Hur/Libro Quarto/Capitolo II
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Traduzione dall'inglese di Herbert Alexander St John Mildmay, Gastone Cavalieri (1900)
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CAPITOLO II.
Allorchè la città fu in vista, i passeggeri, desiderosi di nulla perdere dello spettacolo, si portarono tutti sopra coperta.
— «Il fiume, qui, scorre verso occidente» — spiegava l’Ebreo dall’aspetto venerando, già presentato al lettore.
— «Io mi rammento quando le sue acque bagnavano lo zoccolo delle mura; ma come sudditi romani noi abbiamo vissuto in pace, e, come suol avvenire in tempi tranquilli, il commercio si è imposto, ed ora tutta la riva del fiume è occupata da moli e da cantieri. Là — accennando verso mezzogiorno — è il monte Casio, o, come questo popolo preferisce chiamarlo, la montagna d’Oronte, che guarda in faccia al suo gemmello Amno a settentrione; fra loro due giace la pianura d’Antiochia. Più in giù sono le Montagne Nere dalle quali gli acquedotti dei Re ci portano acqua freschissima per inaffiare le strade e per bere, esse sono coperte da foreste piene di uccelli e di belve.» —
— «Ov’è il lago?» — chiese qualcuno.
— «Là, al nord. Vi ci potete recare a cavallo se desiderate vederlo, o meglio, in battello, poichè è unito al fiume da un canale tributario.
— «Il boschetto di Dafne» — disse in risposta ad un terzo interrogatore, — «fu incominciato da Apollo e da lui condotto a termine. Egli lo preferisce all’Olimpo. Chi vi ci si reca e gli dà uno sguardo, uno solo, non se ne parte più. Vi è un proverbio che ne dà la spiegazione:
— «Meglio essere un verme e nutrirsi delle more di Dafne, che esser l’ospite d’un Re.» —
— «Allora mi consigliate di starne lontano?» —
— «Io no, vi andrete. Tutti ci vanno; filosofi cinici, baldi giovani, donne e sacerdoti. Sono talmente certo di ciò che farete che oso darvi un consiglio. Non alloggiate in città — sarebbe una perdita di tempo; andate direttamente al villaggio situato al confine del boschetto. Il cammino conduce attraverso un giardino e fra amene fontane. Le amanti del Dio e la figliuola di Peneo lo costruirono; nei suoi porticati, nei sentieri e nei mille ritrovi voi v’imbatterete in tipi, in abitudini, in attrattive, impossibili altrove. Ma ecco le mura della città! Ecco, sono il capolavoro di Xeres, il maestro dell’arte muraria.» —
Tutti gli occhi seguirono la direzione della sua mano.
— «Questa parte fu eretta per ordine del primo dei Seleucidi. Nel corso di 300 anni ha finito col formare una massa sola colla roccia, sulla quale riposa.» —
L’encomio era ben meritato. Alte, solide, e con molti angoli arditi, si curvavano maestosamente in direzione di mezzogiorno.
— «Là, in cima, vi sono quattrocento torri, ognuna delle quali è un serbatoio d’acqua» — continuò l’Ebreo. — State attenti e vedrete al di là del muro, per quanto alto egli sia, due colline in lontananza, dette le creste rivali di Sulpio, di cui avrete sentito parlare. L’edificio su quella più lontana è la cittadella, occupata costantemente da una legione romana. Dirimpetto, venendo verso di noi, è il tempio di Giove, ed al disotto, la facciata del palazzo del legato, e insieme fortezza, contro la quale un’attacco popolare riuscirebbe innocuo come un soffio di scirocco.» —
Mentre i marinai cominciavano ad ammainare le vele, l’Ebreo proruppe in queste parole: «Attenti! voi che odiate il mare, e voialtri che avete fatto dei voti, preparate le vostre maledizioni e le vostre preghiere. Quel ponte, laggiù, sul quale passa la strada che conduce a Seleucia, segna il limite della nostra navigazione.
Qui le navi scaricano le merci che vengono poi trasportate a dorso di cammello. Al di là del ponte incomincia l’isola sulla quale Calinico costruì la sua nuova città, congiungendola con cinque grandi viadotti così solidi che gli anni non vi lasciarono alcuna traccia, come nessuna traccia vi lasciarono le innondazioni ed i terremoti. Quanto alla città principale poi, amici miei, basti il dirvi che il ricordo d’averla veduta sarà per tutta la nostra vita una sorgente di felicità.» —
Com’egli finiva di parlare, la nave girò e s’appressò lentamente al molo volgendo il fianco alle mura, e ponendo così in maggior rilievo lo spettacolo pieno d’ammirazione presentato dal fiume in quel punto. Finalmente si gettarono le corde e si ritirarono i remi: il viaggio era compiuto. Ben Hur andò in cerca dell’Ebreo.
— «Permettetemi una parola, prima di accomiatarmi da voi.» —
L’altro acconsentì con un inchino.
— «La storia del vostro negoziante mi ha reso desideroso di vederlo. Il suo nome è Simonide non è vero?» —
— «Sì. Egli è Israelita, quantunque il suo nome sia greco.» —
— «Dove lo si può trovare?» —
L’interrogato gli diede uno sguardo scrutatore prima di rispondere, poi disse: — «Vorrei risparmiarvi una mortificazione. Egli non presta danaro?» —
— «Nè io ne voglio a prestito» — rispose Ben Hur, cui la perspicacia del compagno strappò un sorriso.
Quegli rialzò il capo e si trattenne un momento a riflettere.
— «Si dovrebbe ritenere» — riprese l’Ebreo — «che il più ricco negoziante d’Antiochia dimorasse in una casa degna di tanta ricchezza, ma non è così. Se volete trovarlo di giorno, seguite il corso del fiume fino a quel ponte, laggiù, poi ch’egli si è stabilito in una specie di fabbricato che sembra il contrafforte della muraglia. Di fronte all’entrata vi è un vasto approdo costantemente ingombrato da merci che vanno e vengono. La flottiglia che vi è ancorata è sua. Non potete sbagliare.» —
— «Abbiatevi i miei ringraziamenti.» —
— «La pace dei nostri padri vi accompagni.» —
— «E accompagni voi pure.» —
Così dicendo si separarono.
Due facchini portanti il bagaglio di Ben Hur ricevettero da questi i suoi ordini.
— «Alla cittadella» — esclamò, e quest’indirizzo dava a supporre che egli avesse relazioni militari.
Due grandi vie intersecantisi ad angoli retti dividevano la città in quartieri. Un curioso ed immenso edificio, detto il Ninfeo, sorgeva a capo della via che correva da nord a sud. I facchini lo precedettero camminando alacremente. Quantunque il nuovo arrivato giungesse da Roma, ririmase sbalordito alla vista della magnificenza di quella strada. Dall’un lato e dall’altro sorgevano palazzi, e nel mezzo stendevansi doppi colonnati di marmo, con divisioni speciali pel passaggio di pedoni, animali e cocchi; alberi frondosi, fontane a getto continuo, rinfrescavano l’aria. Ben Hur non era in vena di apprezzare pienamente quello spettacolo. La storia di Simonide non gli dava pace. Giunto all’Onfalo — monumento a quattro arcate larghe come le stesse vie, superbamente illustrate da bassorilievi, erette, ed a sè stesso dedicate da Epifane, ottavo dei Seleucidi, mutò divisamento e disse ai facchini: — «Non andrò alla cittadella questa sera; conducetemi al Khan più vicino al ponte sulla strada di Seleucia. La comitiva ritornò sopra i suoi passi ed in breve egli si trovò in una locanda primitiva sì, ma di ampia struttura, a poca distanza dal ponte sotto il quale il vecchio Simonide aveva stabilito la sua dimora. Tutta la notte Ben Hur rimase a giacere sul terrazzo, sempre agitato dallo stesso pensiero, e di tempo in tempo ripetendo a sè stesso. «Ora, ora avrò notizie dei miei, di mia madre, della cara piccola Tirzah. Se esse sono ancora al mondo saprò trovarle!» —