Ben Hur/Libro Quarto/Capitolo I
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Traduzione dall'inglese di Herbert Alexander St John Mildmay, Gastone Cavalieri (1900)
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CAPITOLO I.
Il mese nel quale ci troviamo è quello di Luglio, nell’anno di grazia 29; il luogo Antiochia, allora regina d’oriente, e, dopo Roma, la più potente, se non la più popolosa città del mondo.
Vuolsi da alcuni che la stravaganza e la dissolutezza di quell’età abbiano avuto la loro origine in Roma, e che di là si siano diffuse in tutto l’impero, di modo che le grandi città non facevano che riflettere i costumi della metropoli Tiberiana.
Su ciò è permesso il dubbio. Sembra piuttosto che la reazione della conquista si sia ripercossa sulla morale dei conquistatori, i quali, in Grecia ed in Egitto, trovarono un’ampia fonte di corruzione; cosicchè lo studioso, che consideri attentamente questo periodo, riporterà l’impressione che la corrente demoralizzatrice movesse da oriente ad occidente, e che appunto questa città di Antiochia, sede antichissima della potenza e dello splendore Assiro, fosse una delle principali sorgenti di questo fiume letale.
Una galera da trasporto avanzava nelle acque turchine del mare, rimontando alla foce dell’Oronte. Era prima di mezzodì, e faceva un caldo intenso, ma ciò non ostante tutti coloro cui era concesso d’occupare il ponte vi si trovavano, e, fra essi, Ben-Hur. Cinque anni trascorsi avevano portato il giovane Israelita a perfetta maturità. Quantunque la veste di tela bianca che lo avvolgeva, mascherasse in parte le sue forme, l’aspetto suo poteva dirsi dei più attraenti. Per oltre un’ora egli era rimasto a sedere all’ombra della vela e, durante quel tempo, i suoi compagni di viaggio e i suoi connazionali avevano indarno tentato di farlo parlare. Alle loro domande egli aveva risposto con gravità cortese sì, ma brevemente ed in lingua latina. La purezza del suo accento, la distinzione dei modi e la sua riservatezza, stimolavano vieppiù la loro curiosità. Chiunque attentamente lo osservava non poteva a meno di rimaner colpito del contrasto fra il suo portamento che rispecchiava l’elegante semplicità del patrizio, con certe particolarità personali. Per esempio le sue braccia erano sproporzionatamente lunghe, ed allorquando il rullìo della nave l’obbligava ad afferrare un punto d’appoggio, la grandezza delle sue mani, e la loro straordinaria forza, risaltavano agli occhi; per cui, alla curiosità di sapere chi egli fosse, aggiungevasi quella di conoscere le vicende della sua vita. In altre parole l’aspetto suo indicava chiaramente che egli era un uomo che aveva avuto un passato pieno di avventure.
La galera, nel suo viaggio, aveva toccato uno dei porti di Cipro e ricevuto a bordo un Israelita dall’aspetto rispettabile, tranquillo, riservato e paterno; Ben-Hur si azzardò a fargli qualche domanda; le risposte sue gli ispirarono fiducia e diedero luogo ad un colloquio più amichevole. Volle il caso che, mentre la galera avanzavasi nella baja dell’Oronte, due altre navi, già scorte da lontano, la raggiungessero, e nel passare spiegassero delle piccole bandiere gialle, provocando infinite congetture circa il significato di quei segnali. Finalmente un passeggiero si rivolse al rispettabile Israelita per chiedergli schiarimenti in proposito.
— «Sì, conosco benissimo il significato delle bandiere, egli rispose; esse non indicano alcuna nazionalità ma solo i distintivi del proprietario.» —
— «E questo proprietario possiede molte navi?» —
— «Sicuro.» —
— «Voi lo conoscete? —
— «Ho avuto con lui rapporti d’affari.» —
I passeggeri rivolsero uno sguardo interrogativo all’Israelita come in attesa d’altri particolari. Ben-Hur ascoltava con grande interessamento.
— «Egli abita in Antiochia» — proseguì tranquillamente l’Ebreo. Le sue ricchezze lo hanno reso assai noto ed i commenti sopra il suo conto non sono sempre benevoli.
V’era una volta in Gerusalemme un principe d’antichissima famiglia, di nome Hur....» — Giuda si sforzò di mostrarsi calmo, ma il suo cuore batteva forte.
— «Il principe era un negoziante dotato del genio degli affari. Iniziò molte imprese tanto nel lontano Oriente quanto nei porti d’Occidente. Nelle grandi città possedeva figliali, e quella d’Antiochia era affidata ad un tale, portante il nome greco di Simonide, ma Ebreo di nazionalità il quale si vuole fosse stato uno schiavo della famiglia.
Il padrone annegò in mare, ma, ciò non ostante, il commercio suo continuò senza diminuzione di prosperità. Poco dopo una sventura colpì la famiglia. L’unico figlio del principe, appena adolescente, attentò alla vita del procuratore Grato in una delle vie di Gerusalemme. Il colpo fallì, e del giovane si perdettero le traccie. La vendetta del Romano coinvolse tutta la famiglia e nessun membro di essa fu risparmiato. Il palazzo, chiuso, non serve ormai più che di rifugio ai piccioni; le terre furono confiscate e così pure ogni possesso degli Hur. Fu così che il Procuratore credette d’indennizzarsi della ferita ricevuta, applicandovi un cataplasma d’oro.» —
I passeggieri ridevano.
— «Volete dire ch’egli tenne per sè parte dei beni» — esclamò uno di loro.
«— Così dicono,» — replicò l’Ebreo; — «ripeto solo ciò che ho udito dire, e, per continuare la mia storia, aggiungerò che Simonide, già agente del principe in Antiochia, si mise in breve a commerciare per proprio conto ed in un lasso di tempo incredibilmente breve divenne il primo negoziante della città. Seguendo l’esempio del suo padrone, mandò carovane nell’India ed ora egli ha in mare tante galere quante basterebbero a costituire una flotta regale. Dicono che nessun affare gli sia mai andato a male. I suoi cammelli non muoiono che di vecchiaia, le sue navi non fanno naufragio. Se egli getta un pezzo di legno nel fiume, esso ritorna a lui cangiato in oro.» —
— «E questo da quanto tempo dura?»
— «Da più di dieci anni.» —
— «Deve pur aver avuto dei mezzi per incominciare.» —
— «Già. Fu detto che il Procuratore non si pigliò che i beni del principe che potè trovare pronti a soddisfare la sua rapacità, cioè cavalli, bestiame, case, terre, stoviglie e messi. Di danaro contante non si trovò traccia, quantunque ve ne debba essere stato in gran quantità. Ciò che ne sia divenuto è tuttora un mistero.»
— «Ma non per me» — interruppe con un sogghigno passeggero.
— «Capisco quello che volete dire» — replicò l’Ebreo. — «Lo stesso sospetto è venuto ad altri; anzi è credenza generale che il denaro scomparso abbia costituito il primo capitale del vecchio Simonide. Lo stesso Procuratore è, o almeno era, del medesimo parere, poichè due volte in cinque anni egli ha sottoposto il negoziante alla tortura.» —
Ben Hur strinse con maggior forza la corda alla quale con una mano s’era aggrappato.
— «Si dice» — continuò il narratore — «che quell’uomo abbia tutte le ossa spezzate. L’ultima volta ch’io lo vidi era seduto sopra un divano e sembrava una massa informe sprofondata fra i guanciali.» —
— «Torturato fino a tal punto!» — esclamarono contemporaneamente alcuni uditori.
— «Gli acciacchi naturali non avrebbero potuto deformarlo in quella guisa. Eppure le sofferenze non sortirono alcun effetto. Le uniche parole che gli si poterono strappare, furono che tutto quanto egli possedeva era legalmente suo e ch’egli ne faceva legittimo uso. Egli però è ora garantito contro ogni ulteriore persecuzione da una licenza di commercio firmata nientemeno che da Tiberio.» —
— «Chi sa che cosa l’avrà pagata!» —
— «Quelle navi sono sue» — proseguì l’Israelita, senza badare all’interruzione. — «E’ uso dei naviganti, allorchè s’incontrano, d’issare bandiere, come per dire: «abbiamo fatto una traversata fortunata.» —
E qui finì la narrazione. Allorchè la galera si trovò più innanzi fra le due sponde del fiume. Giuda chiese all’Ebreo.
— «Come si chiamava il padrone del negoziante?» —
— «Ben-Hur, principe di Gerusalemme.» —
— «Che avvenne della famiglia del Principe?» —
— «Il figlio fu imbarcato sulle galere, il che equivale a dire che è morto. Un’anno è il limite ordinario di resistenza. Della vedova e della figlia non si ha contezza e chi ne sa qualcosa non vuol parlare. Probabilmente perirono nelle celle d’uno dei castelli che costeggiano le strade della Giudea.» —
Giuda salutò e si diresse verso il posto del pilota. Egli era così profondamente assorto nei suoi pensieri, che appena s’accorse delle amene sponde del fiume, che per tutto il tratto fra il mare e la città apparivano di una sorprendente bellezza, adorne com’erano di ville ricche al pari di quelle di Napoli, e circondate di orti abbondanti di frutta e di vigneti. Neppure badò alle innumerevoli navi che gli sfilarono davanti, nè ai canti dei marinai. Tutto il cielo era illuminato di una luce rosea, che avvolgeva voluttuosamente la terra e l’acqua; solo egli gemeva, cupo ed oscuro nel volto.
Un istante solamente si scosse, quando qualcuno additò il boschetto di Dafne, visibile da un risvolto del fiume.