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Dedica II


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Fioriva luminoso e fragrante calen d’aprile in Firenze; quando io ebbi, pur ora, la ventura di passare colà pochi giorni. Nelle limpide e bionde ore mattutine, le vie erano piene di una folla lietamente affaccendata, dolcemente ciarliera e le donne recavan fiori fra le mani, e non so quale fluida gioia di vivere inondava del suo benessere le persone e le cose. Sull’antico Ponte Vecchio, nelle bottegucce degli orafi, le contadine di Fiesole e di Signa si fermavano a comperare gli ori leggeri e scintillanti, ancora [p. - modifica] simili, nella forma, ai monili del Trecento, gli ori che doveano adornare il bruno collo di felici spose, e i rudi loro uomini, quasi balzati da un quadro di Masaccio, contrattavano il largo anello nuziale: mentre, con passo ritmico, via andavano le fanciulle straniere, cariche di bei gigli fiorentini, di ranuncoli bizzarri, di fini mughetti, andavano pallide e delicate figure di creature esotiche, ignote a noi, figure sparenti in un sogno di beltà e in un segreto desiderio di amore!

Anche, in quelle ore prime, nero e bianco si erge nel sole il Duomo, purissimo di sentimento mistico, purissimo di pensiero d’arte: la gente ondeggia intorno, col riso negli occhi, e Arnolfo di Lapo contempla il cielo onde gli venne l’ardore e la forza del suo nobile lavoro. Dentro, le penombre si allungano sotto le antichissime volte: ed è con un senso di stanchezza dolce che le ginocchia si piegano, nel tempio meraviglioso, ed è una lenta, lunga, cheta preghiera che [p. 17 modifica] sgorga dall’anima silenziosamente inebbriata. Duplice, interiore, muta ebbrezza, che viene dalla fede rinnovellata nelle più fresche e più limpide sorgenti, che viene dalla beltà dell'arte: estasi taciturna che sospinge lo spirito sovra vette sublimi. Ombre vagolano, assai pianamente, per la vastità: accanto ai vecchi pilastri su cui si appoggiarono le spalle dei padri antichi fiorentini, ancora orano anime cristiane: e con cauti passi i visitatori si aggirano, salutando, ogni tanto l'altare, ove i sacerdoti cantano le liturgie della giornata. Qui, sui gradini della Confessione, presso l’immenso messale miniato schiuso sovra un alto leggìo di legno scolpito, due persone s’inchinano, insieme, accanto. Vengono di lontano, costoro: hanno lasciato il freddo e grigio loro paese, cercando il sole per benedire il gentile e soave idillio del loro sponsalizio, cercando di soddisfare la loro sete di vivere, non solo alla passione santificata innanzi a Dio, ma [p. 18 modifica] alla venustà delle cose, alla indicibile leggiadria della natura. La donna è uno stelo sottile, tutta piena di grazia pudica, una bionda gracile e fragile, sotto la veletta bianca che soffonde anche più il fine viso: l'uomo è più forte, più pensoso e più terreno.

E ancora, a traverso il tempo, il fascino si perpetua, in quelle anime non italiche, in quei cuori che sentono così diversamente da noi: essi pregano, è vero: ma, quasi inconsciamente, l’amore si fonde nel pensiero religioso e le due mani degli sposi si uniscono, senza che la gentile stretta tenerissima offenda la santità del tempio, ove sorride benignamente Santa Maria del Fiore. E a chi guarda, senza beffarda curiosità, a chi guarda con simpatia, la piccola innocente scena d’amore, la visione antica riappare, la visione degli amori di un tempo, quando il Poeta vide la sua donna nel tempio e la guardò e l’amò, mentre ella pregava. O [p. 19 modifica] roride mattinate di Pasqua, con le campane sonanti nell’aria chiara, con quei canti di donne e di fanciulli, o vesperi di maggio tutti coloriti di roseo e di zaffiro, voi vedeste il Poeta innamorato e voi vedeste Beatrice, questa benedetta, questa donna della salute, questa gentilissima! I nostri torbidi occhi moderni, afflitti e inariditi da tanti mediocri spettacoli, i nostri poveri occhi così disgustati e così stanchi, non possono evocarvi, Beatrice, Beatrice, in questa cara ora, nel Duomo, che fugacemente: voi apparite e sparite e noi non possediamo la magica parola che vi trattenga innanzi a noi!

Ma la magica parola si può ritrovare, nella notte, in Firenze. Se, dovunque, la notte è suggestiva dei più cari e dei più spasimanti sogni, se, dappertutto, quando le ombre sono ascese dalla terra al cielo, ognuno può rievocare il solo vero bene che possiede il nostro cuore, cioè il passato e ognuno può domandare alle fantasie la parola [p. 20 modifica] dell’avvenire, Firenze è il paese più pieno di gentili e seducenti fantasmi. Nella notte, la folla è scomparsa dalle vie; le botteghe, le porte sono sbarrate: sono chiuse e oscure le finestre, i balconi: tutto è silenzio. Le favorevoli ombre avvolgono tutto ciò che è nuovo: e quasi che un supremo artista prepari ai nostri occhi uno spettacolo indimenticabile, solo le delicate e forti linee delle antiche case, delle chiese, delle statue emergono e palpitano innanzi a noi. Allora, voi vagabondate senza fine, per le strade deserte e tacite, colpito ad ogni istante da una bellezza schietta che nulla più viola, che nulla più deturpa: voi andate per le viuzze, dove gli alti palagi in cui ancora rifulge la grandezza toscana, mettono le masse dei loro travertini e le sbarre delle loro inferriate, lavorate come gioielli. In queste notti, il fascino del fiume sovra tutto vi vince; va, l’Arno, passando tutto d’argento sotto le colonne dei vecchissimi ponti: va l’Arno [p. 21 modifica] che ha visto e che sa: i fanali dei bei Lungarni vi si riflettono e vi tremolano: chinatevi bene, se la notte è limpida, voi vedrete, in Arno, vibrare, riflessa, la luce delle più vivide stelle, la bianca luce di Venere seguace della Luna, la rossa di Saturno. Quanto tempo si resta così, guardando le acque che corrono via? Chi sa! L’ora passa, inavvertita: e innanzi ai vostri allucinati occhi, in una divina allucinazione, qualche cosa di bianco appare, un candore fuggente, Non è forse la fantasima di Ginevra, forse, nel suo funereo lenzuolo che corre le vie di Firenze? Conoscete voi la istoria d’amore? Ginevra degli Amieri amava ed era amata: ma la volontà crudele dei parenti non volle maritarla al gentiluomo che essa amava e la forzò a nozze con un uomo odioso. Ella sofferse due o tre anni, in questo matrimonio: poi, per la pena d’amore che non le dava mai pace, ammalò gravemente e morì. La misero, coperta di fiori, in una [p. 22 modifica] chiesa e tutti tornarono alle loro case, lasciando solo quel cadavere, con un chierico che lo vegliava. Ora, Ginevra non era morta, era semplicemente caduta in un torpore mortale: nella notte, si svegliò, si levò dalla bara, si levò dai fiori, vestita di bianco, innanzi al chierico esterrefatto: e sgomenta, smarrita, andò girando come folle, per la città. La prima porta a cui andò a bussare, Ginevra, fu quella di suo padre: costui aperse, la prese per un fantasma, la esorcizzò con le parole sacre e la scacciò via. Allora, essa, desolata, corse alla casa di suo marito: bussò: non le aprirono: bussò ancora: nulla. Tese l’orecchio e le giunsero suoni di risa e di canti. Suo marito cenava giocondamente con una sua amante, dimentico nella notte istessa della morta. Pure quella porta fu schiusa e il marito vide Ginevra: ma egli non disse neppure gli esorcismi, egli la scacciò brutalmente, come una ladra, come una vagabonda e le sbattette la porta [p. 23 modifica] sul viso. Povera Ginevra, nella notte, sola, avvolta nelle vesti funebri, cacciata via da tutti, inutilmente risuscitata, ella pensò se non era meglio ritornarsene sul letto funereo e aspettare colà veramente la morte, giacchè niuno più volea saperne di lei. Disperata, con un idea estrema, ella andò a battere alla porta del suo amore, di colui che ella aveva amato, riamata: era l’ultimo tentativo. Costui venne ad aprire: vegliava, piangeva sulla sua Ginevra morta. Rivedendola in quell’ora, così vestita, come pazza, egli non le chiese se fosse un fantasma o un essere vivente: egli non si spaventò, non si arretrò, non si sorprese: semplicemente le tese le braccia e le disse: entra.

Così, nella notte chiara, è dolcissima cosa sedersi sotto la loggia dove l’immenso talento di Orcagna profuse i suoi tesori e guardare il cielo come la bronzea Giuditta lo guarda, e fissare gli occhi sulla piazza ove s’erge il palazzo della Signoria. L’aria [p. 24 modifica] è fresca, il silenzio è profondo: il profilo leggiadro e forte che il grande Donatello lasciò all’ammirazione delle genti, pare più puro e più vivo. Allora, se da un fascio di fiori giacente, accanto a voi, sale un profumo primaverile, se qualcuno vi ripete un verso del Poeta, o semplicemente questo verso vi canta nell’anima, siete voi, voi sola, Beatrice, voi che riapparite, più lenta nell’incesso, più molle nell’andare, giovinetta vestita di vermiglio e dalla cinta gemmata, donna che sapevate così passare e salutare, portando via il cuore del vostro poeta. Oh queste apparizioni hanno bisogno della notte alta e solitaria, del grande silenzio dove vegliano da secoli i palazzi e le statue, hanno bisogno di anime umili ed esaltate insieme da tutte le poesie, queste apparizioni sono date a chi lo invoca con lo spirito semplice di adorazione a un passato ineffabile, sono concesse a chi crede ancora nelle cose del cuore. Ah voi l’abitate ancora, Firenze, o [p. 25 modifica] Beatrice, eternamente congiunta in paradiso al vostro Poeta: voi, bellezza, voi, amore, voi, candore, voi, musa, voi, ispiratrice, siete sempre l’anima muliebre dove si assorbe e si esplica la verginalità, la grazia, la mitezza fiorentina: voi lasciate vagare la vostra ombra amorosa e familiare, in queste vie ove egli vi adorò, perchè noi conoscessimo ancora, sempre, la verità profonda e fulgida, la sola verità, che non vi è di poeta senza amore e che nulla vi è di grande, nel mondo, senza la donna, senza la ispiratrice.