Avea più volte udito
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VII
per l'altezza serenissima
granduca di toscana
Lodasi la suà benignità.
Avea più volte udito
Di Climene la prole,
Che fu suo padre il Sole;
Onde tutto invaghito
Di vagheggiare il Genitor sovrano,
Volse le piante all'immortai sua Reggia,
Onde splendor fiammeggia,
Che sostener non può lo sguardo umano;
Quindi, perché Fetonte
Renda contento il suo desire audace,
Senza che il troppo lume i dì gli oscuri,
Tolse dall’aurea fronte
Il diadema di rai Febo sagace,
Quasi per lui non più risplender curi,
E sicuro fissò l'avido figlio
Nel temprato splendor l'infermo ciglio.
Or Febo a me consenti,
Ch'io prenda i lampi istessi,
Che hai deposti, e con essi
Rischiari altrui le menti;
E mostri a' Grandi, che del fasto altero
Denno i lampi depor, che ogni occhio abborre,
E più benigni accorre
Chi servo nacque al lui sovrano Impero:
E 'n tal guisa temprata
Tener la maestà del regio aspetto,
Che non offenda con soverchio lume;
Poiché stende e dilata
Sovra d’ogni soggetto
Il dominio, che ha l'uom, sì bel costume.
Mentre non pur sulle corporee salme,
Ma gli dà nuovo scettro anco sull’alme.
Ah neghi l'aria il suono
All'esecrabil voce,
Che superbia feroce
Chiama a regnar sul trono;
Quasi rassembri maestà cadente
Quella, che non sostiene l'arco del ciglio,
E non chiama a consiglio,
In qualunque opra sua fasto insolente
Stoltezza! ha d’uopo solo
Mendicar dall’orgoglio onore e stima,
Chi senza lui di vilipendio è degno.
Ma taccia il folle stuolo,
Che cotanto lo stima,
Che de' Regnanti il fa primo sostegno;
E perchè muto resti a forza, in prova
Di mostrargli Fernando, o Clio, mi giova.
Mira con'ei s’affida
Sulla propria grandezza,
Nè mai vana alterezza,
Entro al suo cor s’annida,
Ve' come alfabil regna, e con qual’arte
I lampi, ond’ei risplende, in sè nasconde,
E l’invidia confonde,
Che si sente cangiar natura in parte;
Mentre per lui si vede,
Senza l'usato fiele, oggi compagna
Dell’altrui morto e dell'altrui fortuna;
Che d'essa ei fatto crede,
Perchè grande rimagna
Con dolce sol senza amarezza alcuna:
Io, che di ciò son testimon fedele,
Nel mar delle sue lodi apro le vele.
Ma nel mover dal lito
Ecco vento che spira,
E ben tosto ritira
Dal corso il legno ardito,
E bella Clio, che a’ miei pensier dà legge.
E ne vienn meco, dal cammin m’arretra:
Dice, che roca cetra
Mal fa, se d'un Eroe l'imprese elegge;
Che a sublime virtude
Chiara tromba si dee, che quando suona,
Le sue sconfitte intimi a morte istessa.
Mentr'ella i labbri chiude,
Ogni rio d'Elicona
Secco a mio prò tosto diventa, e cessa
L’audace suono, e de’ suoi pregi intanto
Dura in me lo stupor, se ha fine il canto.