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xi
     E non senza cagion, ch’oltra la mano,
Che potea molto men far caro assai;
Più possente e leggier presso o lontano
Quanto riscalda il sol non vide mai;
Placido al suo signore, umile e piano,
Fero al nemico; e dolorosi guai
A gli avversi corsieri e l’altra gente,
E col morso e col piè porgea sovente.
xii
     Questo a lui volse dar, per non lassarse
Cosa, che molto amasse, senza lui;
E perchè ancor potesse me’ mostrarse,
Ch’ei fosse Lancilotto a gli occhi altrui,
E perchè ove le forze erano scarse,
Ei potesse supplir per ambedui
Col ferire i vicin, col grave intoppo,
Con lo snello adoprar salto o galoppo.
xiii
     Splendea tutto argentato il ricco arnese,
Qual la notturna e frigida stagione
La luna suol, ch’a mezzo il corso stese
Il suo leve girar con ratto sprone:
Or poi che Galealto il seggio prese
Fermo e ben dritto su ’l ferrato arcione,
Il bianco scudo suo gli appende al collo
Sì pesante per lui, che mosse il crollo;
xiv
     Qual talor suol la piccioletta nave,
In cui rozzo nocchier di prezzo avaro
Ripose al suo poter fascio sì grave,
Che ’l fondo incurva e l’umor tristo amaro
Penetra adentro; onde si attrista e pave
L’afflitto peregrin, ch’al nido caro
Teme non giunger mai, facendo voti
A Castore e Polluce alti e devoti.
xv
     Il lucid’elmo poi, che fabbricato
Nell’immortal fucina di Merlino,
Contr’ogni ferro umano era incantato
Col favor delle stelle alto e divino,
Che di purpuree piume e bianche ornato
Avea del bel cimier l’argento fino,
Con tristo agurio suo gli loca in fronte,
Che gli parve al sentirlo il Pelio monte.
xvi
     Indi gli arma le man, poi gli dà l’asta,
Ma non quella però, che ’n guerra adopra
Al più grand’uopo; ch’oltra lui non basta
Altra forza mortale a porla in opra;
Poi con pietà gli dice: Chi contrasta
Superbo in sè contra il voler di sopra,
Non invitto guerrier tra i buon s’appella,
Ma di mente spietata, iniqua e fella.
xvii
     Questo vi dich’io sol, perchè se ’l cielo
Volto all’alto desio contrario mostra,
Non vi faccia , signor, soverchio zelo
Porre in rischio mortal la vita vostra;
Ch’io per voi resto in tema, e non vel celo,
Qualor pensando la memoria nostra
L’empio furore e la gran forza vede,
Ch’è nel gran Segurano e ’n Palamede.
xviii
     Non perch’io non estimi e tenga certa
L’alta vostra virtù di loro eguale;
Ma l’amor vero tien l’anima incerta,
E sempre più ch’al ben l’inchina al male;
Però vi prego umil per quel che merta
Il voler buon che sopra a i regni sale,
Che lassando quei due, volgiate il passo
Contra gli altri guerrier del re Clodasso.
xix
     Nè sarà manco lode e più sicuro
Fia per l’oste Britanno e più giocondo
Lo spegner quei che solo odiano Arturo,
E ’l vorrebber veder del centro al fondo;
Ma il paro, ond’io parlai, con desio puro
Do fare il nome lor perpetuo al mondo
Contra lui portan l’arme, chè sovente
Già spiegate han per noi sovr’altra gente.
xx
     Tal dicea Lancilotto, ascose strade
Cercando per oprar, che Galealto
Di sì chiari guerrier fugga le spade,
Nè con lor vegna a singulare assalto;
Ma il buon re gli rispose: Quel che aggrade
A chi quanto veggiam ministra d’alto,
Segua di me, signor, che speme tengo,
Che almen del vostro amor non morrò indegno.
xxi
     Nè più volle altro dire e spinge innanti
Il feroce corsier, dove attendea
L’alto drappel di cavalieri erranti,
Chè di desio di guerra in core ardea:
Or già l’aurora in placidi sembianti
Nell’oriente candida splendea,
Sì che più apertamente scuopre intorno
Chi sia più d’arme e di destriero adorno.
xxii
     Nè l’altro oste Arturo e ’l gran Tristano
Restan più di costor nel sonno avvolti;
Ma nel medesmo tempo arman la mano,
E nell’ordin primier si son raccolti;
Già di trombe e di suon rimbomba il piano,
E con nuove speranze e lieti volti
Ogni onorato principe, ogni duce
Oltra il vallato fosso i suoi conduce.
xxiii
     E per render quel di più largo onore
A i buon nuovi guerrieri e Galealto,
Voglion, ch’essi i primier si mostrin fuore,
Le chiare insegne ventilando in alto,
E stien nel mezzo, ove il maggior furore
Par che Marte amministri al fero assalto;
Tristan da man sinistra aggia la schiera,
Gaven dall’altra presso alla riviera.
xxiv
     Quando il gran Segurano e quei d’Avarco,
Che si pensan la palma avere omai,
E ’l nemico veder di doglia carco,
E ’n tema avvolto di futuri guai,
Odon che lassa già l’antico varco,
E più mostra d’ardir, ch’avesse mai;
Restan tutti dubbiosi e ’n meraviglia,
E ’nverso ove scendea, volgon le ciglia.