Questa pagina è ancora da trascrivere o è incompleta. |
xxv
Darogli in pace poi gradite squadre
Di cavalieri arditi in compagnia,
Che ’l seguiran qual pio signore e padre,
Come fia il suo piacer, per ogni via:
Co i quai potrà nell’opere leggiadre
Spender gli anni miglior, come desia,
Di lauri ornando la famosa chioma,
E di gloria avanzar la Grecia e Roma;
xxvi
E sì ben d’arme ornati e di destriero,
Che pochi incontrerranno eguali a loro.
E perchè il ferro cade di leggiero
Senza sostegno aver talor dell’oro,
Da poter ben nutrirgli un anno intero
Provvederò l’andar suo d’ampio tesoro:
Doppo il qual, se non prima, dalla spada
Di trovarne maggior fia fatta strada.
xxvii
E se sfogar gli alteri suoi disegni
Di Nettuno vorrà premendo il dorso,
Cento ampissime navi e cento legni
Di fortissimi remi accinti al corso
Avrà, che in tutti i liti e ’n tutti i regni
Il mar dentro e di fuor fia prima scorso
Ch’alcun saldo lavoro in lor si stanche,
O de’ suoi conduttori il cibo manche.
xxviii
Poi, perch’altra non ho congiunta e cara
Più che fia Lodaganta, la sorella
Di Ginevra mia sposa, unica e rara
D’ogni virtude e sovra ogni altra bella,
E che per l’alto cor di sè fu avara
A mille re famosi e fu rubella
Sempre e fin qui del giogo maritale,
Perchè nullo a’ suoi merti estima eguale:
xxix
Quella in dolce pregare a lui prometto
Di far cara compagna e pia mogliera,
E con sì larghi don che sarà detto
Di fortuna ricchissima ed altera;
In cui possa trovar pace e diletto
Poi che il suo bel mattin vada alla sera,
Come in tra’ nuovi germi uliva suole,
Di dolcissima cinto e chiara prole.
xxx
Nè a tal rendergli onor viltà m’induce,
Nè quella, ov’io son or, necessitade;
Ma l’amor ch’io gli porto in ciò m’è duce,
Già incominciato in tenerella etade
Dal primo dì che la superna luce
Di venirmi a trovar gli aprì le strade:
Che ’ntra gli altri infiniti elessi solo
Lui per pegno gratissimo e figliuolo.
xxxi
E quantunque l’altr’ier sì amaro sdegno
Mi percotesse il cor a i detti suoi
E che d’odio in quel dì mostrassi segno,
Tosto il primiero amor risurse poi:
Nè mi fora più a grado ogni gran regno
Che ’l vederlo tornare amico a noi
Quanto esser mai solea, chiaro del tutto,
Quanto fosse anco ciò senz’altro frutto.
xxxii
Or si pensi fra voi qual più si deve
A lui tosto inviar che gli sia caro,
Ch’assai più l’un che l’altro in dolce e leve
Può il peso convertir greve ed amaro;
Perchè ’l ricordo altrui che si riceve
Come da spirto pio, fedele e chiaro
Penetra a maraviglia un core amico
Come d’april la pioggia il campo aprico.
xxxiii
Allor dice il re Lago: O sommo onore
Col britanno terren del mondo insieme,
Ben ch’io con ragion, che ’l tuo splendore
Quante mai luci furo offusca e preme,
Poi ch’a quella pietà s’arrende il core
Ch’aver si dee delle miserie estreme
Di chi segua con lui l’istessa sorte,
E per dar vita a quel s’esponga a morte,
xxxiv
E per salute altrui da sè dispoglia
Contr’a minor di sè l’ira tenace
E più tosto la sua che di lui doglia
Vuole, e co’ suoi minori indegna pace,
Il disdegno abbattendo e l’aspra voglia
Di seguire il cammin ch’al senso piace.
Or per bene adempire un tal desio
Maligante è ’l migliore, al parer mio:
xxxv
Ch’oltra che sovr’ogni altro ei l’ama e cole,
Ha sì dolce movente e vago il dire
Ch’ascoltar non si pon le sue parole
Senza al lor dimostrar pieno obbedire:
Chè, se non fosser sordi, al maggior sole
Faria gli aspi acquetar le rabbie e l’ire;
E sia seco Lambego, il vecchio antico,
Che ’l nodrì giovinetto al padre amico:
xxxvi
E potrà molto oprare in Lancilotto
Quel primo ricordar che mai non cade,
Già dalla verga sua formato e ’ndotto
A’ buon costumi in tenerella etade,
E perchè da i medesmi esser prodotto
E d’anni e di voler la paritade
Han gran forza, e ’l seguir l’istessa sorte,
Per terzo ambasciador vorrei Boorte.
xxxvii
Così detto, ciascun che ’ntorno siede
L’impresa e gli orator lodando approva,
E i tre duci onorati il core e ’l piede
Han pronti, e mossi alla novella prova:
E dritti vanno ove in solinga sede
Lancilotto, e lontana si ritrova,
Sciolta quasi dall’altre, al sezzo varco
Onde può più vicin vedere Avarco.
xxxviii
Trovanlo ch’era ancora a mensa assiso,
Già pervenuta a fin la parca cena,
Col fido Galealto, che diviso
Non ha mai la stagion fosca o serena:
Ch’erano ad ascoltar col pensier fiso
Il chiar Euterpo, che con dotta vena
Alto cantava ne’ passati lustri
Del cortese Girone i fatti illustri.