Arrigo il Savio/XVIII
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XVIII.
Due mesi dopo.... Ci volete venire, fin là? Ho in animo, come vedete, di risparmiarvi le noie del racconto, e tutti quei minuti particolari di un lieto fine, che vanno lasciati alle favole. Due mesi dopo, Arrigo il Savio era guarito largamente, non pure dalla ferita, ma anche da quella saviezza precoce, che lo rendeva tanto uggioso alle dame. Il conte Guidi, poveraccio, con una costola rotta e una palla alloggiata a tempo indeterminato tra due apofisi della colonna vertebrale, incominciava a ricogliere il fiato, ma non a scender da letto. Orazio Ceprani, andato una volta in casa di Arrigo, si era veduto metter sott’occhio tre lettere che non aveva voluto riconoscere: ma un “vada via!„ proferito tre volte con fiera progressione di accento da Cesare Gonzaga, i cui occhi erano lì lì per schizzar fuori dalle orbite, lo aveva fatto correre come un veltro, e senza voltarsi più indietro. Non va dimenticato che il signor Orazio portava con sè la consolazione di non sentirsi più domandare quelle cinquemila lire che sapete; giusto compenso alla perdita di un’utile amicizia.
E due mesi dopo, il signor Cesare Gonzaga, alzatosi di buon mattino da letto, sentì che non poteva più reggere alla vita di Roma. Del resto, non sapeva come occupare il suo tempo, perchè le faccende per cui aveva fatto il viaggio erano tutte sbrigate.
— Happy, — diss’egli allora al servitore, — farai le mie valigie. Io me ne andrò questa sera.
— Vuol partire, illustrissimo?
— Sì, ritorno alle mie Carpinete.
— Mi duole! — disse Happy.
— Ti duole! E perchè?
— Perchè.... Scusi, illustrissimo, la familiarità del linguaggio. Ma ci sono dei momenti.... —
Cesare Gonzaga non gli lasciò il tempo di finir la frase.
— Nella vita degl’individui, come in quella dei popoli; ho capito, va in fondo.
— Mi ero avvezzato così bene a lei!
— Davvero! Ed io che volevo per l’appunto invitarti a venire con me!
— Dice da senno?
— Non ischerzo mai. Ne avevo anzi già parlato a mio nipote. Tu sei un giovanotto d’ingegno, Happy, e sai molte cose, molte cose! Il tuo posto è di segretario; ma non al fianco del cavaliere, intendiamoci bene, perchè egli non ha più segreti da confidare, nè da lasciar trapelare. Verrai con me; parleremo di storia antica, di numismatica, e se ti piace, anche di araldica.
— E si lascierà chiamare marchese?
— Se ciò ti consola, sì. Del resto, avrai anche da tacere su parecchie coserelle vedute ed udite. Io ti dirò come Filippo II al suo Gomez, o al suo Perez, che non rammento più bene, tanto si somigliano fra loro: — A me la fama — A te, se taci, salverai.... la pensione. Il verso non torna, e forse si potrebbe dire la paga.
— Il verso non torna, ma c’è l’idea; — rispose prontamente il servitore. — Aggiunga, illustrissimo, che la pensione ha un senso largo, che la paga non ha. Del resto, il tiranno dell’Alfieri, promettendo la vita al suo confidente, non rischiava di mandare la Spagna in rovina.
— Ed anche di letteratura, Dei immortali! Anche di letteratura! — gridò Cesare Gonzaga. — E d’agraria ne sai nulla?
— Così, qualche principio. È stata la mia prima occupazione, e non ci ho merito. Ma scusi la mia curiosità; verranno alle Carpinete i signori Valenti Gonzaga?
— No, rimarremo soli. Ma vedrai, faremo delle grandi cose; ristoreremo il castello, dissoderemo sterpaie, feconderemo greti di fiume, vivremo tranquilli, come i pastori delle Bucoliche; pianteremo anche un bel faggio, mio caro Titiro, un bel faggio, alla cui ombra non poseremo; ma che importa? Penseremo ai figli, che non saran nati da noi; faremo voti per il bene dell’umanità, amandola da lontano, nello spazio e nel tempo. Ti conviene? —
Happy sorrise e spiccò un salto prodigioso.
— Con lei, signor marchese! Quante cose imparerò! Come sarò felice!
— Già, — disse il Gonzaga, — perchè per la prima cosa ti leverò quella caricatura di nome inglese, e ti restituirò alla semplicità della tua fede di battesimo. —
Così partì Cesare Gonzaga dall’eterna Roma, dove aveva fatto tante cose bellissime. Il conte Pompeo Morati di Castelbianco volle accompagnarlo alla stazione, e ritornò a casa innamorato di lui. Ancora adesso, quando gli avviene di ricordarlo, non dà tregua alle lodi.
— Che uomo! Che giovanotto! Ma già, non fo per dire, i giovani siamo noi. —
La contessa Giovanna sorride, ma a denti stretti; occasione eccellente per farli vedere. Ella, del resto, è tranquilla e serena; non ha una grinza alle tempie, dove è fama che si raccolgano, disposti a ventaglio, i dolorosi ricordi della vita; mantiene in onore i suoi famosi mercoledì, e riceve sempre come una imperatrice. Chi ama, oggi, o a chi pensa, la bruna signora? Ah, scusate, sarebbe un’altra storia, e a me può bastare di aver condotto questa al suo termine.
FINE.