Arcadia (Sannazaro)/Egloga I
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Prosa I | Prosa II | ► |
EGLOGA PRIMA.
selvaggio ed ergasto.
Selvaggio.
Ergasto mio, perchè solingo e tacito
Pensar ti veggio? oimè, che mal si lasciano
Le pecorelle andare a lor ben placito.
Vedi quelle che ’l rio varcando passano,
Vedi que’ duo monton che ’nsieme corrono,
Come in un tempo per urtar s’abbassano.
Vedi ch’al vincitor tutte soccorrono,
E vannogli da tergo, e ’l vinto scacciano,
E con sembianti schivi ognor l’abborrono.
E sai ben tu, che i lupi, ancorchè tacciano,
Fan le gran prede, e i can dormendo stannosi.
Però che i lor pastor non vi s’impacciano.
Già per li boschi i vaghi uccelli fannosi
I dolci nidi, e d’alti monti cascano
Le nevi, che pel sol tutte disfannosi.
E par che i fiori per le valli nascano,
Ed ogni ramo abbia le foglie tenere,
E i puri agnelli per l’erbette pascano.
L’arco ripiglia il fanciullin di Venere,
Che di ferir non è mai stanco o sazio
Di far delle midolle arida cenere.
Progne ritorna a noi per tanto spazio
Con la sorella sua dolce Cecropia
A lamentarsi dell’antico strazio.
A dire il vero oggi è tanta l’inopia
De’ pastor, che cantando all’ombra seggiano,
Che par che stiamo in Scitia o in Etiopia.
Or poi che o nulli o pochi ti pareggiano
A cantar versi sì leggiadri e frottole,
Deh canta omai, che par che i tempi il chieggiano.
Ergasto.
Selvaggio mio, per queste oscure grottole
Filomena nè Progne vi si vedono;
Ma meste strigi ed importune nottole.
Primavera e suoi dì per me non riedono,
Nè trovo erbe o fioretti che mi gioveno;
Ma solo pruni e stecchi che ’l cor ledono.
Nubi mai da quest’aria non si moveno,
E veggio, quando i dì son chiari e tepidi,
Notti di verno, che tonando piovono.
Perisca il mondo, e non pensar ch’io trepidi;
Ma attendo sua ruina, e già considero
Che ’l cor s’adempia di pensier più lepidi.
Caggian baleni e tuon, quanti ne videro
I fier giganti in Flegra; e poi sommergasi
La terra e ’l ciel, ch’io già per me il desidero.
Come vuoi che ’l prostrato mio cor ergasi
A poner cura in gregge umile e povero,
Ch’io spero che fra lupi anzi dispergasi?
Non truovo tra gli affanni altro ricovero,
Che di sedermi solo a piè d’un acero
D’un faggio d’un abete ovver d’un sovero.
Che pensando a colei che ’l cor m’ha lacero,
Divento un ghiaccio, e di null’altra curomi,
Nè sento il duol ond’io mi struggo e macero.
Selvaggio.
Per maraviglia più ch’un sasso induromi,
Vedendoti parlar sì malinconico;
E ’n dimandarti alquanto rassicuromi.
Qual’è colei ch’ha ’l petto tanto erronico,
Che t’ha fatto cangiar volto e costume;
Dimmel, che con altrui mai noi comonico.
Ergasto.
Menando un giorno gli agni presso un fiume,
Vidi un bel lume in mezzo di quell’onde,
Che con due bionde trecce allor mi strinse;
E mi dipinse un volto in mezzo ’l core,
Che di colore avanza latte e rose;
Poi si nascose in modo dentro l’alma,
Che d’altra salma non m’aggrava il peso.
Così fui preso; ond’ho tal giogo al collo,
Ch’il pruovo, e sollo più ch’uom mai di carne;
Tal che a pensarne è vinta ogni alta stima.
Io vidi prima l’uno e poi l’altr’occhio;
Fin al ginocchio alzata al parer mio,
In mezzo ’l rio si stava al caldo cielo;
Lavava un velo in voce alta cantando:
Oimè, che quando ella mi vide, in fretta
La canzonetta sua spezzando, tacque:
E mi dispiacque, che per più mie’ affanni
Si scinse i panni, e tutta si coverse:
Poi si sommerse ivi entro infino al cinto;
Tal che per vinto io caddi in terra smorto;
E per conforto darmi ella già corse,
E mi soccorse, sì piangendo a gridi,
Ch’alli suoi stridi corsero i pastori
Ch’eran di fuori intorno alle contrade,
E per pietade ritentar’mill’arti.
Ma i spirti sparti al fin mi ritornaro,
E fen riparo alla dubbiosa vita.
Ella pentita, poi ch’io mi riscossi,
Allor tornossi indietro, e ’l cor più m’arse,
Sol per mostrarse in un pietosa e fella.
La pastorella mia spietata e rigida,
Che notte e giorno al mio soccorso chiamola,
E sta superba, e più che ghiaccio frigida:
Ben sanno questi boschi quant’io amola,
Sannolo fiumi monti fiere ed uomini,
Ch’ognor piangendo e sospirando bramola.
Sallo quante fiate il dì la nomini
Il gregge mio, che già tutt’ore ascoltami,
O ch’egli in selva pasca, o in mandra romini.
Eco rimbomba, e spesso indietro voltami
Le voci che sì dolci in aria sonano,
E nell’orecchie il bel nome risoltami.
Quest’alberi di lei sempre ragionano,
E nelle scorze scritta la dimostrano,
Ch’a pianger spesso ed a cantar mi spronano:
Per lei li tori e gli arieti giostrano.
ANNOTAZIONI
all’Egloga Prima.
Ergasto mio, perchè solingo ec. Selvaggio ottimamente fa in Ergasto vedere uno che da null’altro pensiero è occupato, che da quello dell’amore. Qui è da notarsi la ragione, per cui il Sanazzaro volle usare i versi sdruccioli nelle sue Egloghe. L’umiltà del soggetto poetico debb’essere espressa con semplici idee, con facili parole, con versi scorrevoli e languidi anzi che sostenuti e gravi, e perchè tra gli scorrevoli e languidi sono certamente da noverarsi gli sdruccioli, questi piuttosto che i piani usò il Sanazzaro nelle sue pastorali poesie ogni volta, che qualche particolar ragione non l’obbligò a cambiarli, come in più opportuno luogo dimostreremo. Si osservi, che per questo medesimo fine Virgilio ne’ suoi versi buccolici adopera i dattili più frequente che mai. Sia d’esempio il principio dell’Egloga I.
Tilyre, tu patulae recubans sub tegmine fagi,
Sylvestrem tenui musam meditaris avena:
Nos patriae fines, et dulcia linquimus arva ec.
Vedi que’ duo monton ec. Finge l’Autore, che sia la primavera, di cui ce ne dà ben tosto la descrizione dagli effetti, dicendo:
Già per li boschi i vaghi uccelli fannosi
I dolci nidi ec.
Onde giudiziosamente accenna il cozzare de’ montoni, che appunto in primavera suole vedersi.
Progne ritorna a noi ec. Per Progne intendi la rondine, in che Progne fu convertita, e per la sua sorella Cecropia intendi Filomena, ossia il lusignuolo, in che ella parimenti fu trasformata. Cecropia è chiamata per dirla Ateniese, perchè fu figliuola di Pandione Re di Atene, e Cecropii furon appellati gli Ateniesi da Cecrope fondatore, o ristoratore di quella sì famosa città. Ad ognuno poi è noto il motivo de’ lamenti di Filomena, e che il comparire di lei e di Progne annunzia la primavera.
A cantar versi sì leggiadri ec. I versi leggiadri sono le poesie regolari e nobili, le frottole son canzonette amorose, il cui stile è basso, e i versi brevi, e non uguali, senza regola o con poca almeno tessuti.
Ma meste strigi ec. La strige è un uccello notturno, con occhi di civetta, rostro adunco, piedi uncinati, e canute piume. È chiamato così dal rauco suo stridere, onde Ovidio nel lib. vi. de’ Fasti:
Est illis strigibus nomen; sed nominis hujus
Causa quod horrenda stridere nocte solent.
Gli antichi credevano, che quest’uccello andasse di nottetempo alle culle de’ fanciulli per succhiarne il sangue. Per lo che fu tenuto qual altro degli uccelli di funesto augurio, e da lui ebbero il nome di streghe quelle brutte vecchie, che s’imaginava una volta potessero con fattucchierie maleficiare i bambini. Ergasto chiama importune anche le nottole, e questo perchè anch’esse stridono raucamente, e sono di mal augurio. S’avverta però di non cadere nel volgare errore, che prende la nottola pel pipistrello. La nottola è propriamente quella che chiamasi civetta in italiano, e noctua in latino; il pipistrello è il topo volatile, detto vespertilio dai latini. Di più si avverta, che intorno ad Ergasto non sono già strigi nè nottole, ma anzi rosignuoli e rondini, cui egli prende per quegl’inaugurati uccelli a cagione che l’amore lo fa stravedere. Di fatto le strigi e le nottole giran intorno quando è notte, ed ora che i due pastori parlano, ben si vede che è giorno. Il che vie più chiaro apparisce, quando Ergasto dice, che per lui non riede la primavera, che non trova erbe o fiori ec.
Perisca il mondo ec. Con aria meno sublime, come ad un pastore si conviene, ha detto qui il Sanazzaro ciò che dice Orazio:
Si totus labatur orbis
Impavidum ferient ruinae.
Che ’l cor s’adempia ec. Preso il verbo adempiersi per colmarsi, empirsi il senso riesce limpidissimo, volendo dire Ergasto, che già considera come rovinando egli insieme col mondo, già ne senta piacere; tanto egli è ora turbato ed infelice.
Flegra è una città di Macedonia, altrimenti detta Pallene, intorno a cui è una valle dello stesso nome. Ivi i Giganti mossero guerra a Giove, e furono da lui fulminati.