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III.


Un’anima in pena.


Era sera fatta.

Ferruccio prese la via della Guastalla, quasi deserta in quell’ora, e guidato dalla riga dei lampioni, che mettevano un filo luminoso nel buio del suo cervello sconvolto e annuvolato, venne al ponte di porta Vittoria, traversò la piazza spopolata del verziere, provando l’impressione di chi arriva per la prima volta in una città straniera, o meglio ancora di un prigioniero che ignoti nemici trascinano a una misteriosa destinazione.

Sperò di trovare il signor Tognino al caffè Martini in piazza della Scala, dove convengono la sera gli uomini d’affari a consultare gli ultimi telegrammi di borsa; e incontrò per caso il Botola, un brutto vecchio mal vestito che da qualche tempo veniva nello studio a discorrere in gran segretezza col padrone. Il pignoratario lo chiamò e cominciò a fargli un gran discorso a proposito del Mornigani e d’una villa sul lago di Como... ma Ferruccio non aveva il capo a queste cose. Lo piantò, traversò di nuovo la piazza della Scala, e per la via di Santa Margherita venne verso la via Torino.

Era il momento del maggior movimento. I cittadini, approfittando delle prime giornate di primavera, [p. 190 modifica]uscivano a passeggiare in mezzo allo splendore delle loro belle botteghe, sotto un cielo fatto chiaro e bianco dalla luna che lentamente si distrigava dai pizzi del Duomo. Passeggiavano, affollavano i portici e la Galleria, riempivano i caffè colla pace di chi ha guadagnato il suo riposo. Ferruccio traversò la piazza del Duomo quasi a corsa. In tre minuti fu in via Torino a chiedere del principale.

— Lui non c’è — disse la portinaia — è andato in campagna, credo alle Cascine.

— C’è la signora? — domandò esitando.

— Lei sì, ma non so se a quest’ora può ricevere. Provi.

Il ragazzo cominciò a montare le scale a due gradini per volta.



Arabella non era una conoscenza nuova per il figliuolo del Berretta e anche lei avrebbe dovuto ricordarsi del Ferruccio del portinaio che l’aveva accompagnata molte volte bambina alla scuola delle monache, quando veniva in casa sua in Carobbio a portare il pane e il latte della colazione. Ma la signora, che non poneva mai piede nell’ammezzato, seppe solamente molto tardi che ci fosse uno studio in casa, e riconobbe il giovinetto la prima volta, quando presso le feste di Natale venne a raccomandare la povera Stella. Incontratisi, avevano rinnovata la conoscenza. Parlarono di vivi e di morti o per meglio dire parlò lei, perchè in quanto a lui, preso dalla soggezione e dal rispetto per la bella signora, non aveva saputo rispondere che sissignora e nossignora. La padroncina aveva promesso di [p. 191 modifica]raccomandarlo a suo suocero e forse Ferruccio dovette a lei se il principale gli aumentò lo stipendio alla fine dell’anno.

Nei primi mesi del matrimonio Ferruccio aveva fatto un gran discorrere colle zie dei preparativi, della bellezza e della bontà della sposina; poi a un tratto cessò di parlarne e non la nominò più come se fosse morta.

Che cosa era accaduto?

Per quanto egli guardasse dentro di sè non gli riusciva di vederne il motivo; ma tutte le volte che il discorso cadeva naturalmente o era condotto da altri a nominare la signora Arabella, il ragazzo (e a vent’anni egli si sentiva un vero ragazzo) procurava di uscirne presto, o di dargli un’altra piega, qualche volta le fiamme gli uscivano dal viso, o socchiudeva gli occhi, come fanno certi timorati di Dio, quando sono costretti a guardare in faccia a una bella creatura.

Da solo a solo, specialmente di notte, quando si svegliava in mezzo a un sogno lusinghiero, si compiaceva di contemplarla nel buio, a occhi aperti. Capiva che era una sciocchezza, una baia, un passatempo poetico, ma nella sua povertà e nella sua miseria di spirito questa bella immagine signorile teneva il posto che una Madonna dipinta tiene sopra un povero altare di campagna: finchè si abituò a riporre la bella visione tra le squallide idee della sua vita di mortificazioni e di stenti con quella devozione con cui la Nunziadina teneva riguardata nelle logore pagine della sua Filotea una splendida immagine di pizzo a fondo d’oro, a cui dava ogni tanto un’occhiata per far belli gli occhi.

[p. 192 modifica]Perchè l’avrebbe cacciata via questa dolce seduzione, che lo proteggeva così bene contro le tentazioni e le disperazioni volgari? Altri giovinotti della sua età, che hanno denari da spendere, e anche quelli che non ne hanno, talvolta cercano goder la vita nella compagnia di donne senza onore, e consumano la salute e i quattrini in vizi e in passatempi vergognosi. Egli senza credere con questo di far male, compiacevasi del suo segreto, se lo portava nel cuore misteriosamente custodito, godeva insomma castamente di un bene, che non rubava a nessuno, e che nessuno gli poteva rubare, perchè veniva tutto da lui e, dirò così, dai suoi risparmi morali e dalle sue mortificazioni.

Questo primo fuoco del giovine commesso si sarebbe spento a poco a poco da sè, divorato da qualche altro fuoco più naturale, se la guerra spietata mossa dai diseredati e dai parenti alla famiglia Maccagno non avesse trascinato anche lui a dividere le ansie e i patimenti della poverina.

Gli ignobili insulti che la donnaccia aveva lanciato contro la signora, furono per Ferruccio peggio che una manata di fango negli occhi. In principio fu una fortuna ch’egli non avesse spirito di reagire. Forse si sarebbe compromesso troppo. Ma la persecuzione non fece che ribadire e dare consistenza di patimento a un sentimento, a cui non aveva ancora trovato un nome.

Fu questo patimento che, traboccando a suo dispetto, gli trasse un fiume di lagrime il giorno che aiutò a portare la povera signora svenuta su per le scale.

Fu questo patimento o spavento che lo spinse e [p. 193 modifica]lo fece correre fino alle Cascine in cerca della signora Beatrice e che lo persuase a rimanere in una casa, dove ormai capiva di non aver più nulla da guadagnare.

Ma improvvisamente, ecco, sentivasi ghermito anche lui dal destino che perseguitava buoni e cattivi. Una moneta d’oro può per qualche tempo coprire una piccola macchia d’olio: ma l’olio è più forte dell’oro. Così il male, come la macchia d’olio, dilatandosi, usciva a deturpare le anime più innocenti.

Era orribile il pensiero che, per salvare la fama e la ricchezza d’un uomo prepotente, suo padre dovesse andare in prigione. Ed egli aveva fino a ieri mangiato il pane di questo prepotente! Non capiva ancor bene, troppe furie uscivano in una volta dal suo cuore in tempesta, ma sentiva dal suo stesso spavento che in questa orribile guerra d’interessi e di prepotenze era in giuoco la vita di qualcuno.

Ansante e strabuffato si attaccò al cordone del campanello e dette una forte strappata.

Venne ad aprire l’Augusta che, vedendolo così slavato e stravolto, domandò subito che cosa fosse accaduto.

— Ho bisogno di parlare alla signora Arabella.

— Una disgrazia? venga avanti, vado a vedere se è ancora su. Di solito si ritira presto.

La donna condusse il giovine nel salotto da pranzo, collocò una lampada a globo di vetro sul caminetto e andò ad avvertire la signora.

In piedi cogli occhi fissi al globo luminoso, Ferruccio rimase solo, ancora ansante e affannato per la corsa fatta, travolto da una vertigine di tutti i sensi, in cui le molte e torbide sensazioni [p. 194 modifica]precipitarono in un affanno solo profondo e straziante, che assorbì tutte le forze della sua vita.

Si pentiva d’essere venuto a confessare la sua vergogna alla signora, come se temesse di rompere colle sue mani un delicato e prezioso incanto coll’accusare sè, figlio di un uomo cercato dalla polizia; ma nello stesso tempo sentiva che non si sarebbe mosso di lì, prima d’aver parlato a lei, la sola in cui c’era a sperare qualche cosa di bene.

E stava così assorto, le mani in mano, fermo sulle gambe indolenzite, assopito nella luce della lampada, vagando in una confusione oscura d’idee e di affetti, quando una voce lo scosse. Non si era neanche accorto di lei.