Annali d'Italia dal principio dell'era volgare sino all'anno 1750/225

Anno 225

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Anno di Cristo CCXXV. Indizione III.
URBANO papa 4.
ALESSANDRO imperadore 4.
Consoli

FOSCO per la seconda volta e DESTRO.

Sempre più andavano riconoscendo i Romani la felicità propria nell’essere loro toccato un sì buono imperadore, qual fu Severo Alessandro. Ed era tale principalmente, perchè si erano ben radicati nel cuore di lui i principii della religione: virtù, di cui se sono scarsi, e peggio se mancanti i rettori dei popoli, troppo facile è, per non dir certo, che la lor vita abbonderà d’iniquità e di azioni malfatte. Falsa, non v’ha dubbio, era quella religione che non conosceva il vero Dio, e adorava insensati dii e creature o demonii. Tuttavia non può negarsi che questo principe, quantunque nato ed allevato nella idolatria, non avesse in sè dei lodevoli principii, perchè amava, temeva ed onorava, per quanto poteva, la divinità, e tutto ciò che si credeva allora che avesse qualche cosa di Dio1936. Appena era egli levato, che nel tempio del palazzo andava a rendere il culto ai suoi dii con dei sacrifizii. Quivi teneva le statue di essi e delle anime credute sante dai ciechi Gentili, come Orfeo, Alessandro il Grande, Apollonio Tianeo. Quel che più merita la nostra attenzione, si è che vi conservava anche la statua di Gesù Cristo, e colle altre l’adorava. Può ben credersi che Mammea Augusta sua madre, la quale avea imparato a conoscere in Soria la santità della religion cristiana, ma senza mai abbandonare la falsità dell’etnica, ne avesse inspirato del rispetto ed amore anche al figliuolo. Per questo venerava egli Cristo, ed anche Abramo. Anzi, siccome attesta Lampridio scrittore pagano, egli meditava di alzare un tempio al medesimo Cristo, e di farlo ricevere per Dio; ma gli si opposero i zelanti del Paganesimo, con dire di aver consultato intorno a ciò gli oracoli, e riportato per risposta, che, se ciò si facesse, tutti abbraccerebbono il Cristianesimo, e converrebbe chiudere ogni altro tempio. Mai più non disse il demonio, padre della bugia, una verità più luminosa di questa. Avea ancora Alessandro sovente in bocca quella insigne massima, imparata più probabilmente dai Cristiani che dai Giudei: Non fare agli altri quello che non vorresti fatto a te stesso. E questa fece anche scrivere nel palazzo cesareo e in varie fabbriche a lettere maiuscole. Avendo anche i Cristiani occupato un luogo pubblico, per farvi una chiesa, e pretendendolo gli osti di lor ragione, con suo rescritto dichiarò l’imperadore: Essere meglio che Dio ivi in qualunque maniera si adorasse, che se ne servissero gli osti: segno che già in Roma si fabbricavano e si tolleravano templi al vero Dio. Di qui poi venne, ch’egli lasciò in pace i Cristiani, e sotto di lui crebbe molto di fedeli la Chiesa. Quei che morirono martiri in questi tempi furono vittime de’ malvagi governatori delle provincie, che senza saputa e permissione del principe1937 non lasciavano di trovar pretesti per uccidere gli odiati Cristiani. Sempre ancora professò l’Augusto Alessandro a sua madre Mammea un [p. 777 modifica]rispetto singolare, anzi tale che passò all’eccesso. Se crediamo ed Erodiano1938, questo solo difetto gli si potè opporre, cioè che troppo amava la madre, sino ad ubbidirla, suo malgrado, in cose che non trovava ben fatte. Perciò potente era ella nel governo, e fu al pari di Giulia di Severo intitolata madre delle armate, del senato e della patria. Certo non mancò essa giammai di dar dei buoni avvertimenti al figliuolo; fu nulladimeno tacciata di avidità della roba altrui: il che andava ella scusando presso il figliuolo, con dirgli che accumulava quell’oro per di lui servigio, affinchè avesse di che regalare i soldati. Ma accumulandone talvolta per vie illecite, ed empiendone i proprii scrigni, se ne lagnava poi Alessandro, senza potervi nondimeno rimediare: tanta era la riverenza che professava a chi gli avea data la vita. Onesti poi erano i divertimenti suoi. Amava la musica, si dilettava della geometria, dipingeva assai bene, sonava varii strumenti, cantava, ancora con bella voce e con garbo, ma solamente in camera sua e nella privata conversazion degli amici. Talvolta a cavallo, talora a piè facea delle buone passeggiate; gli piaceva anche la caccia e la pesca. Una delle cure di sua madre fu sempre quella di tenerlo occupato e lontano dall’ozio. Nè pregiudicavano punto i divertimenti suoi al pubblico governo1939. Gli erano portati gli affari smaltiti prima dai saggi suoi consiglieri, ed era facile lo sbrigarli. Ma quando occorrevano cose di molta importanza e premura, vi assisteva, levandosi anche prima del sole, e stava nel consiglio le ore intere senza mai annoiarsi o stancarsi. Impiegava anche talvolta il tempo che gli restava dopo gli affari in leggere libri, essendogli spezialmente piaciuti in greco quel di Platone della Repubblica, e in latino quei di Cicerone degli Uffizii, o sia dei Doveri e della Repubblica. Dilettavasi ancora di leggere degli oratori e dei poeti, e massimamente le poesie di Orazio e di Sereno Sammonico, da lui conosciuto ed amato. Ma sopra le altre letture era a lui cara quella della vita di Alessandro il Macedone, per istudiarsi d’imitarlo dove potea, condannando nondimeno in lui l’ubbriachezza e la crudeltà verso gli amici. Dopo la lettura esercitava il corpo in tirar di spada, in lotte discrete, in giuochi ch’esigevano del moto: tutte maniere proprie per conservar la sanità. Andava anche, secondo l’uso d’allora, al bagno, dopo il quale faceva un po’ di colezione, differendo talvolta il prender cibo dipoi sino alla cena. Nulladimeno l’ordinario suo stile era di pranzare; e ne’ pranzi suoi non compariva nè sordidezza nè lusso, ma bensì un bell’ordine, cibi semplici, piatti ben puliti, e quel che occorreva per satollare e non per aggravare lo stomaco. Solamente nei dì di festa si accresceva alla tavola un papero, e nelle maggiori solennità, tutto il grande sfarzo era la giunta di uno o due fagiani o di due polli. Oro non volle mai nella sua mensa, e tutto il suo vasellamento d’argento consisteva in ducento libbre. Occorrendone di più nelle occasioni, se ne facea prestar dagli amici. Se solo si cibava, teneva un libro a tavola, e leggeva, se pur non facea leggere. Ma più spesso voleva seco a pranzo degli uomini dotti, e particolarmente Ulpiano, dicendo che più gli faceano pro i ragionamenti loro eruditi, che le vivande. Allorchè dovea far de’ pubblici banchetti, anche da questi volea bandito lo sfoggio, portandosi solamente i piatti consueti, ma aumentati a proporzione dei convitati. Per altro non gli piacea quella gran turba, perchè dicea di parergli di mangiar nel teatro o nel circo. Costumarono alcuni Augusti, ed era anche in uso presso i grandi, di aver commedianti o buffoni intorno alle lor tavole per divertirsi. L’innocente suo trastullo [p. 779 modifica]era di veder combattimenti di pernici e di altri piccioli animaletti. Una sola, per altro innocente, particolarità di lui parve strana, cioè ch’egli sommamente si dilettò di aver nel suo palazzo varie uccelliere di fagiani, paoni, galline, anitre e pernici, e spezialmente di colombi, dicendosi che ne nudrisse fin venti mila. Dopo le applicazioni si ricreava in veder questi volatili; ed affinchè non gli fosse attribuito a scialacquamento, tenea dei servi, che colle nova, coi polli e coi piccioni cavavano tanto da far le spese a tanto uccellame. Ma qui non è finito il ritratto di questo buon imperadore. Il resto lo riserbo all’anno seguente, giacchè il pacifico felice stato dell’imperio romano in que’ tempi non somministra avvenimento alcuno alla storia.