Amleto (Rusconi)/Shakespeare

Shakespeare

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William Shakespeare - Amleto (1599 / 1601)
Traduzione dall'inglese di Carlo Rusconi (1901)
Shakespeare
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SHAKESPEARE




Sdegnando la fama, dubitando degli uomini e della loro memoria, quasi inconscio del proprio genio, morì Shakespeare, e la leggenda si è impadronita della sua vita. Aubrey, il quale scriveva nel XVII secolo, lo dice figliuolo d’un beccajo, e alcuni aggiunsero che faceva arringhe patetiche agli spettatori prima di scannare i vitelli: Rowe sostiene ch’era mercante di lana; Malone lo vuole occupato nei lavori di pellajo; alcune carte ce lo presentano come affittajuolo, e tutte queste congetture si convalidarono con documenti ostentati come scoperte, e sovra ciascuna si scrissero famosi articoli di critica, s’inventarono novelle e si dipinsero quadri. Che più? Vi furono perfino scrittori, come l’americano Holmes, che sostennero non essere stato Shakespeare che un semplice attorello, e che i suoi drammi furono scritti dal famoso Bacone.

Di Shakespeare è incerta perfino l’ortografia del nome. Negli archivi di Stratford lo si trova scritto in tredici modi diversi, da Shakspere (più usato nella contea natale) a Shaxper, Chacsper ecc. La forma Shakespeare, generalmente adottata, pare più conforme all’etimologia, che al dire di Fuller, farebbe derivare il nome da «vibrante la lancia»

Suo padre Giovanni, secondo le ricerche più credibili, era un fittajuolo, e questa professione metterebbe l’accordo fra le diverse leggende, perchè nel secolo XVI, non conoscendosi la divisione del lavoro, avrà il padre stesso ucciso i vitelli che pascolavano ne’ suoi prati, venduta la lana delle sue pecore, preparato le pelli delle sue bestie prima di venderle; e se il figlio lo ajutò in questi lavori, dobbiamo bene guardarci dal concludere che sia stato beccajo o lanajuolo o pellajo.

Si mostra ancora a Stratford la casetta dove il poeta nacque nell’aprile del 1564: il giorno preciso lo si ignora, conoscendosi solo la data del battesimo che fu il 26 di quel mese. Mentre Guglielmo giuocava in quella vecchia casa di Stratford, il padre era [p. 6 modifica]chiamato agli onori municipali, e nel 1568 egli divenne bailiff, che è quanto dire il primo magistrato della sua città. Stratford possedeva scuole, dove i figli dei membri delle Corporazioni venivano educati senza spese, e quivi il futuro poeta imparò un po’ di latino e un po’ di greco. Più tardi imparò a Londra il francese, l’italiano e forse lo spagnuolo. Vuolsi che strettezze domestiche gli abbiano fatto lasciare gli studj a mezzo: alcuni scrivono che si acconciò a fare il maestro di scuola, altri lo scrivano d’avvocato; altri invece, e Châteaubriand fra questi, ce lo dipingono fra i bevitori di birra, sfidandoli sotto un albero di pomi a tracannare la bionda cervogia, e vincendo le scommesse. Non vi sono argomenti nè per affermare, nè per negare.

Quel che sappiamo di certo (perchè nel 1836 fu scoperto e pubblicato l’atto legale) è che nel dicembre 1582 Guglielmo, a 18 anni e 8 mesi, sposò Anna Hathaway che contava otto anni più di lui, e che cinque mesi dopo gli nacque la figlia Susanna. I pudichi biografi inglesi si trovano a disagio fra queste due eloquenti date che spiegano il motivo del matrimonio colla matura donzella; ma non si possono alterarle. È certo però che se l’amore unì, prima del prete, Guglielmo ed Anna, poco dopo battè l’ali lungi da quella casa. Nondimeno la moglie regalò ancora nel 1585 due gemelli al marito; ma questi, poco apprezzando tale fortuna, scappò di casa e si recò a Londra.

Si vuole che sia fuggito da Stratford per una questione avuta con sir Tommaso Lucy: Shakespeare avrebbe cacciato di contrabbando sulle terre del Lucy, e sarebbe stato costretto a comparire in umile atto davanti all’offeso. Il poeta si vendicò affiggendo una satira alla porta del castello: l’ira di sir Tommaso costrinse Shakespeare a cercare miglior fortuna altrove.

Il suo genio lo spingeva al teatro. Una tradizione vuole che, non sapendo come vivere, fosse ridotto a custodire alle porte dei teatri i cavalli degli spettatori. Questa si giudica una favola; piuttosto si sa che entrò in una compagnia comica, sebbene senza troppo distinguersi. La parte più importante che sostenne, pare sia stata quella del fantasma nell’Amleto. «Il primo erede della mia fantasia (scrisse egli) fu Venere [p. 7 modifica]e Adone» un poemetto pieno di fuoco; poi la Lucrezia, frutto dello studio di Tito Livio.

Prima di scrivere egli stesso per il teatro, si esercitò a ritoccare i drammi degli altri, e il suo primo lavoro originale fu la commedia Pene d’amor perdute, fantasia ricca di brio, che rivela l’esuberante giovinezza del genio. Seguì la Commedia degli equivoci, inspirata dai Menecmi di Plauto, poi il Sogno d’una notte d’estate; ma il capolavoro di questo periodo giovanile rimase Giulietta e Romeo. Strano a dirsi! Egli non premetteva neppure il nome ai capolavori che andava scrivendo, e tollerava che lo stesso gran nome apparisse sui manifesti serali, nell’elenco dei commedianti più modesti.

Nel secondo periodo della sua vita si mostra ad un tempo profondo conoscitore della natura umana, storico e poeta che non si spaventa di nessuna arditezza, perchè tutte le vince. A questo periodo appartiene «la magnifica epopea nazionale», come diceva Schlegel, de’ suoi drammi storici, che cominciano col Riccardo II e si chiudono con Enrico VIII.

Da questi lavori inglesi passò ai drammi dell’umanità e si levò alla massima altezza, dove rimarrà forse insuperato, entrando in una nuova fase coll’Amleto, la tragedia del pensiero. Vien quindi l’Otello, la tragedia della gelosia, il Macbeth, la tragedia del terrore, e infine le tragedie romane, inspirate da Plutarco, e le commedie fantastiche che riflettono il cielo e la terra, come la Tempesta, che chiuse il ciclo luminoso.

Degli amori di Shakespeare si scrisse molto e in modo diverso, secondo l’umore del biografo. Vi fu chi lo fece sospirare ai piedi della «vergine regina» l’Elisabetta dai capelli rossi; altri raccontano aneddoti più prosaici. Shakespeare soleva frequentare l’albergo della Corona ad Oxford, dove eravi una bella ostessa, e il figlio di questa, che fu il poeta Davenant, si vantava di aver avuto per padre il gran tragico, per uno strappo al contratto conjugale fatto dalla madre. Un’altra volta Guglielmo udì una bella signora dare la posta ad un comico, ed avvisarlo di bussare alla sua porta di nottetempo, dicendo: «Io sono Riccardo III.» Shakespeare, prima dell’ora stabilita, si recò al convegno; ajutato dal bujo, si [p. 8 modifica]sostituì al compagno, e quando fu conosciuto, pare non riuscisse sgradito; e allorchè il povero comico, bussando alla porta, gridava: «Son Riccardo III», il poeta, fattosi alla finestra, con accento beffardo gli rispose: «Ed io sono Guglielmo il Conquistatore.»

Ne’ suoi Sonetti si lagna degli affanni d’amore, e in quelli che scrisse sul finire della sua esistenza, vibra la nota patetica e sconfortata. «Tu puoi vedere in me (dice alla sua bella) quella stagione dell’anno in cui le foglie ingiallite (poche se pur ne rimangono) pendono ai rami che fa tremolare la brezza: frascati in rovina e sfrondati, ove poc’anzi garrivano gli uccelli... Non piangere per me, allor ch’io sia morto, più lungamente del tempo in cui udrai la tetra squilla annunziare alla terra che sono fuggito da questo mondo vile per abitare coi vermi, più vili ancora. Se leggi queste parole, scordati della mano che le vergò: ti amo tanto, che desidero essere cancellato dalla soave tua rimembranza, se pensando a me, tu potessi essere infelice. Oh! se getti uno sguardo su questi versi, quando io non sarò più che argilla, non ripetere il mio povero nome, o lascia che il tuo amore appassisca colla mia vita.»

Stanco, perseguitato da un amaro cruccio verso tutti, si ritirò nella sua casa di Stratford, dove viveva ancora la moglie. Maritò le sue due figliuole (l’unico maschio eragli morto adolescente), e s’occupò del suo giardino, piantando il primo gelso che fosse veduto nella contea. Nel 23 aprile 1616 morì; ed alla moglie lasciò il suo «secondo miglior letto guernito» istituendo sua erede la primogenita Susanna. Fu sepolto nella chiesa di Stratford, vietando espressamente che si toccassero le sue ceneri. Alla sua memoria fu eretta in una nicchia, a guisa de’ santi, una statua dipinta, giusta la moda del tempo, di nero e di scarlatto. Più tardi si pensò all’apoteosi; ma rimaneva solo un po’ di cenere nella fossa di quell’uomo maraviglioso che aveva tracciato orma sì profonda sulla terra, e che, come disse Spenser, «la natura aveva fatto per contraffar sè stessa e imitare il vero.»