Alessandro Manzoni - studio biografico/Capitolo VI
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VI.
Il Manzoni, per sua natura, s’accostava, invero, più al fare un po’ rigido del Parini che a quello pieno ed ampio, ma un po’ reboante del Monti; quindi il Monti, che pur lo lodava tanto, desiderava in lui alcuna maggiore larghezza e rotondità di frase, ossia, come diceva, «un po’ più di virgiliana mollezza,» che si sarebbe ancora definita convenientemente «pastosità lombarda.» Nel Sonetto giovanile che vi ho già riferito, il Manzoni si accusa da sè stesso come «duro di modi.» Questa durezza è pure un poco nella sua poesia, quando alcun sentimento specialmente soave e vivace non viene a commuoverlo, obbligando il critico arcigno a tacere innanzi al poeta commosso.
Tuttavia il Manzoni, negli anni de’ suoi studii a Pavia, più tosto che un alunno e un ammiratore del discreto, austero e parco di versi tessitor, ci si dimostra un seguace dell’impetuoso Monti, verseggiatore facile, ad un tempo, e solenne ed alti-tonante, dal quale egli dovette pure avere appreso a studiare e ad imitar la Divina Commedia.1
Dall’Autobiografia del medico inglese Granville, il quale nell’anno 1802 studiava la Medicina nell’Università di Pavia, rilevo che, in quell’anno medesimo, egli vi conobbe il Manzoni, il quale doveva esservisi recato per frequentare specialmente le lezioni di eloquenza italiana di Vincenzo Monti. Sappiamo ancora che il Monti, dalla sua cattedra di Pavia, fulminava dantescamente il governo temporale de’ preti, parlava alto dell’amore di Dante per la patria e per la libertà. Le impressioni ricevute a quella scuola si rivelano chiaramente nel primo componimento manzoniano che si conosca, un poema in terza rima, diviso in quattro canti, intitolato: Il Trionfo della libertà, scritto ad imitazione dei Trionfi del Petrarca, e con molte reminiscenze della Divina Commedia, della Bassvilliana e della Mascheroniana del maestro Monti; il Manzoni lo concepì e lo scrisse fra il 1800 e il 1801, il che vuol dire tra il fine del suo quindicesimo e il principio del suo sedicesimo anno. Rileggendo alquanto più tardi il suo lavoro giovanile, il Manzoni, che lo poteva fare, poichè non s’era pubblicato, non lo distrusse; ma si contentò di porvi su la seguente Avvertenza: «Questi versi scriveva io Alessandro Manzoni nell’anno quindicesimo dell’età mia, non senza compiacenza e presunzione di nome di Poeta, i quali ora, con miglior consiglio e forse con più fino occhio rileggendo, rifiuto; ma veggendo non menzogna, non laude vile, non cosa di me indegna esservi alcuna, i sentimenti riconosco per miei; i primi come follia di giovanile ingegno, i secondi come dote di puro e virile animo.» L’Avvertenza manca di quella lucidità e naturalezza che divenne, specialmente nella prosa, uno de’ privilegi dello stile manzoniano, il che mi fa naturalmente sospettare che risalga essa stessa ad un tempo, nel quale il Manzoni, non più giovinetto, ma pur sempre giovanissimo, non era ancora interamente padrone di sè come prosatore, e probabilmente all’anno, in cui egli scriveva la faticata Urania. Il Manzoni parlando di un ritratto che gli aveano fatto in gioventù (forse quello di Parigi), con gli occhi rivolti al cielo, diceva: «Io era in quell’età, nella quale chi si lascia fare un ritratto, si crede in obbligo di prendere l’attitudine di un uomo ispirato.» In quell’età soltanto il Manzoni poteva, dunque, parlando di sè, scrivere «io, Alessandro Manzoni,» e vantarsi del suo «puro e virile animo.» Il Manzoni, divenuto cattolico convinto, avrebbe della propria persona e delle proprie virtù parlato con molto maggiore umiltà. Il Manzoni vecchio poi non solo avrebbe scritta altrimenti quell’Avvertenza, non solo vi avrebbe condannati molti de’ sentimenti sdegnosi espressi in quel poema; ma, cosa più probabile, ei non l’avrebbe scritta affatto, chè, invece di scriverla, egli avrebbe semplicemente distrutti, con uno spietato auto-da-fè, i versi giovanili che rifiutava. Quando, assai più tardi, egli disapprovò pure ed anzi ripudiò, per molte gravi ragioni, i versi In morte dell’Imbonati, non era più in suo potere il distruggerli, perchè già troppo divulgati. È cosa certa poi, o almeno può tenersi come probabile fino alla certezza, che il Manzoni, dall’anno 1818 in qua, non avrebbe mai scritta in prosa la parola laude, invece di lode; la sintassi finalmente dell’Avvertenza rivela ancora l’impaccio del periodo classico, dal quale il Manzoni pose dipoi tanto studio a liberarsi. Il prosatore Manzoni, che conosciamo come maestro di mirabile naturalezza ed evidenza, non avrebbe mai detto, per esempio: non cosa di me indegna esservi alcuna; ma semplicemente: non esservi alcuna cosa indegna di me. Sono minuzie, lo vedo, delle quali parrà forse superfluo che si pigli nota in un breve discorso biografico. Ma, se io ammettessi che il Manzoni non pur vecchio, ma dopo il suo anno ventesimoterzo, avesse potuto scrivere quella singolare Avvertenza, non comprenderei più il Manzoni e sarebbe un cattivo principio per chi ha impreso a parlarne con la pretesa, la quale vedrete voi stessi in qual misura sia legittima, di farlo meglio conoscere agli altri. Il Manzoni tra i venti e i ventidue anni, non ancora risoluto di credere cattolicamente, ma già seguace di Zenone lo Stoico ed avido insieme di gloria poetica, poteva benissimo, nella fiducia di aver fatto qualche progresso nell’arte sua, ripudiare la forma letteraria del suo primo componimento per impedirne la stampa e, in pari tempo, compiacersi nella manifestazione di sentimenti, ai quali non aveva ancora rinunciato, nè poteva facilmente rinunciare fin che si trovava in mezzo ai liberi ragionari degli atei o deisti, dei materialisti o ideologi, dei rivoluzionarii, in ogni modo, e in pari tempo, galantuomini suoi amici, i quali frequentavano la Maisonnette. Il Manzoni vecchio sarebbe stato forse alquanto più indulgente, per quella serenità olimpica ch’è la bontà de’ vecchi, ai difetti letterarii del suo componimento giovanile; ma egli ne avrebbe, senza dubbio, deplorato i sentimenti che vi si esprimono in modo violento, contro la Madre Chiesa, e contro quella povera Maria Antonietta, la quale, appena che il Manzoni incominciò a studiare criticamente la storia della prima rivoluzione francese, diventò una delle sue più forti simpatie storiche. Io so bene che a molti deve piacere il poter affermare che il Manzoni, riconoscendo come proprii i sentimenti espressi nel suo poema giovanile, si schierò addirittura contro il Papato e coi repubblicani; ma per un tale riconoscimento la questione cronologica è di capitale importanza, quando noi non vogliamo, per seguire le nostre fantasie o le nostre passioni, foggiarci, ad inganno di noi medesimi, in un discorso biografico sopra il Manzoni, un Manzoni diverso dal vero.
Il quindicenne Manzoni, nel suo poemetto intitolato: Il Trionfo della libertà, ci dà l’aspetto di un generoso aquilotto che vuol tentare il primo suo volo. Egli sente già le ali che gli battono i fianchi generosi, ma ignora ancora quale via terrà. Si capisce già che egli ambisce volar alto, quando invoca la sua Musa, perchè rinfranchi la cadente poesia italiana, perchè sostenga la virtù che vien meno:
Tu la cadente poesia rinfranca, |
mirabili versi per un poeta di quindici anni che esce dalle scuole de’ frati e da un secolo cicisbeo educato fra le canzonette del Metastasio e del Frugoni; ma il giovinetto non ha ancora potuto pensare a crearsi una propria forma letteraria. Noi vediamo nel suo Trionfo piuttosto la destrezza di un forte ingegno imitatore, nutrito di buoni studii, che gl’indizii del più originale fra i nostri scrittori moderni. Egli ha già studiato molto, e incomincia a sentire gagliardamente, ma gli manca ancora l’abitudine, che fa grande l’artista, di meditare lungamente sopra i suoi sentimenti ed il proposito virile di esprimerli con naturalezza. Si sente già in parecchi versi il fremito di un’anima ardente, ma il paludamento del poeta è ancora tutto classico. Qualche indizio di originalità lo troviamo, appena, in que’ passi, ove il poeta abbassa la tonante terzina ad uno stile più umile, vinto dalla propria urgente natura satirica. Egli incomincia allora ad esercitare la più difficile e la più utile di tutte le critiche, quella che uno scrittore intraprende sopra sè stesso, temperando talora l’iperbole di alcune immagini sproporzionate. Dopo avere, per esempio, dantescamente imprecato contro la città di Catania, onde era partito l’ordine regio delle stragi napoletane, dopo aver fatto invito tremendo all’Etna, perchè getti fuoco e cenere sopra tutta la città, il Poeta s’accorge da sè stesso che sarebbe troppo castigo, e che non si può per un solo reo punire tutto un popolo innocente; dominato però da quel sentimento della giusta misura così raro nell’arte, e pel quale appunto egli divenne poi artista così eccellente, modera e corregge l’imprecazione, trasportandola sopra il solo capo della regina Carolina:
Deh! vomiti l’acceso Etna l’ultrice |
Ma no; sol pèra il delinquente; sopra |
In altri passi del poema pare affacciarsi direttamente il poeta satirico, ossia incominciarsi a rivelare uno de’ caratteri più specifici dell’ingegno manzoniano. L’attitudine de’ Lombardi innanzi al Francese arrivato come liberatore, e dominante come padrone, non contenta il giovine Poeta, anzi gli muove la bile; rivolto pertanto all’Italia, egli le domanda che cosa facciano i suoi figli, per rispondere tosto:
. . . . . . I tuoi figli abbietti e ligi |
Un giovinetto capace di scrivere tali versi annunzia non solo un ingegno precoce, ma ancora una precoce e formidabile esperienza della vita.
Note
- ↑ Cfr. il Trionfo della libertà, e il Carme: In morte dell’Imbonati.