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VI.


Il Trionfo della Libertà.


Il Manzoni, per sua natura, s’accostava, invero, più al fare un po’ rigido del Parini che a quello pieno ed ampio, ma un po’ reboante del Monti; quindi il Monti, che pur lo lodava tanto, desiderava in lui alcuna maggiore larghezza e rotondità di frase, ossia, come diceva, «un po’ più di virgiliana mollezza,» che si sarebbe ancora definita convenientemente «pastosità lombarda.» Nel Sonetto giovanile che vi ho già riferito, il Manzoni si accusa da sè stesso come «duro di modi.» Questa durezza è pure un poco nella sua poesia, quando alcun sentimento specialmente soave e vivace non viene a commuoverlo, obbligando il critico arcigno a tacere innanzi al poeta commosso.

Tuttavia il Manzoni, negli anni de’ suoi studii a Pavia, più tosto che un alunno e un ammiratore del discreto, austero e parco di versi tessitor, ci si dimostra un seguace dell’impetuoso Monti, verseggiatore facile, ad un tempo, e solenne ed alti-tonante, dal quale egli dovette pure avere appreso a studiare e ad imitar la Divina Commedia.1

Dall’Autobiografia del medico inglese Granville, il quale nell’anno 1802 studiava la Medicina nell’Università di Pavia, rilevo che, in quell’anno medesi-

  1. Cfr. il Trionfo della libertà, e il Carme: In morte dell’Imbonati.