Alessandro Manzoni (De Sanctis)/Appendice/III. Ritratto di Don Abbondio

APPENDICE
III. Ritratto di Don Abbondio

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III

RITRATTO DI DON ABBONDIO

Il romanzo dei Promessi Sposi è fondato su un ordine di idee religiose e morali che l’Autore vuol tragittare nell’animo dei lettori. Il concetto eroico n’è il sacrifizio delle passioni al dovere, alla fede: concetto rappresentato dal padre Cristoforo e dal Borromeo. L’Autore cerca personaggi atti ad esprimere questa idea, ed avete questo sistema nello splendore dell’ideale nel padre Cristoforo e nel Cardinal Federigo Borromeo. Vi sta poi contrapposto la negazione di ciò in don Rodrigo, l’antagonista di padre Cristoforo, e nell’Innominato, antagonista del Borromeo. Poi c’è tutto questo sistema in caricatura: don Abbondio. Centro di tutto è Lucia, l’idea còlta nella sua purità, nello stato verginale che non ha coscienza di sé.

Don Abbondio è un essere che non è ancora «individuo»: non siamo ancora in un terreno intellettuale. È un personaggio che ha certe forze, certi fini e certi mezzi, è un obietto fisiologico. Noi dovremmo cercare quale la natura lo fece, e qual fu l’indirizzo delle sue azioni. Ma io non lo fo, perché ciò è stato già fatto in modo incomparabile dall’Autore stesso, con tanta evidenza che toglie il volere di farlo ad ogni altro.

Voi tutti conoscerete don Abbondio, ché nessuno v’ha di voi che non abbia letti i Promessi Sposi; conoscerete don Abbondio che chiama saviezza e conoscere il vivere del mondo la pusillanimità. Don Abbondio è ancora l’oggetto che cerchiamo: ancora non siamo nell’arte, poiché il Manzoni lo decompone a forza d’astrazione, e la critica, geniale vera rimane a farsi, di [p. 334 modifica]comprenderlo cioè e sentirlo. Noi dobbiamo in lui cercare l’oggetto poetico. Cos’è dunque don Abbondio? Io potrei dirlo un «fantasma», ma è una parola. È forse l’oggetto della storia? Ma allora a che si riduce l’arte? È l’oggetto quale lo dà la natura e la storia, ma che entrato nella fantasia ne esce coll’impronta speciale che v’ha messo la fantasia medesima. L’oggetto poetico ha anch’esso un storia, e come si forma in un’epoca non è lo stesso di quando si forma in un’altra, ed a ciò appunto corrisponde la storia del pensiero. Nell’epoche mitologiche il pensiero non s’interessa al reale e forma un tipo a lui conforme, e l’oggetto è riprodotto in sintesi, a modo dantesco: poi, come il pensiero non s’innamora del reale che non conosce, così vi cerca l’idea sua, che è ciò che si dice l’«ideale», e l’operazione si chiama «idealizzare». Nell’epoche critiche, quando la realtà è stata scavata per tutti i versi e le nozioni fisiologiche diventano cosa di tutti, il poeta non si può sottrarre, e cerca scrutare le forze che formeranno l’oggetto, e ne crea l’idea, non preconcetta, ma psicologica di esso. E il pensiero nell’arte moderna si presenta analizzato, e il poeta cerca l’ideale dell’oggetto nella sua costruzione.

Qui giova che io vi noti come la nostra letteratura moderna presenti tre caratteri. Uno «accademico», che non è in corrispondenza col pensiero moderno. Uno «ideale» (dalla seconda metà del secolo [XVIII], che prepara il Risorgimento dell’Italia: ideale troppo giovane per avere una compiuta realtà e che ha un riscontro nello scarno di Alfieri, e nel rettorico della Teresa nell’Jacopo Ortis. Il «reale», il «vero» è moderno. Il Manzoni si rivela poeta moderno, e preso dalla curiosità dei naturalisti, vi trova nell’oggetto la sua idealità, il don Abbondio. Nell’arte moderna l’ideale è fi ritrarre.

A chi non è venuto talvolta dinanzi agli occhi un prete, un curato di campagna, che passeggiando legga l’uffizio, quieto, pacifico, che vuole esser lasciato vivere in pace, così come don Abbondio vi si presenta? E Manzoni dovette avere dinanzi a sé un’immagine. Noi troviamo che questo prete tutto pace alla solita ora fa la solita passeggiata e legge il solito uffizio; [p. 335 modifica]ed a cui l’uffizio non diceva nulla per l’abitudine, nulla la natura ridente che lo circonda, perché troppo calmo, e se la piglia invece coi ciottoli che facevano inciampo al sentiere e li butta con un piede verso il muro. Questo non è ancora il don Abbondio « individuo »; è il tipo, il carattere di don Abbondio, non del poeta : carattere poltrone, pusillanime, passivo. È chiaro che se deve aver vita, questa non può uscire se non se da un’azione contraria alla natura di lui, che, venuta dal di fuori, lo spinge a muoversi. E questa azione lo fa agire per forza, poiché don Abbondio non ha la libertà della scelta, egli è tutto superficie; ciò che è al di fuori è anche al di dentro.

Posti così i caratteri, che forma poetica può avere? Non ci è in lui ciò che si usa chiamare lo « sdoppiamento », cioè la forza dell’ironico; in lui non c’è nulla di ironico, come allora che un poltrone voglia fare il bravo; in don Abbondio c’è un sol momento : sincero e buono nel fondo, egli non è sarcastico come il depravato Tartufo : eccita il riso, non il disprezzo. Don Abbondio, dominato dalla natura, non ha «umore». Una forma bassa della commedia e tanto cara agli Italiani è la « caricatura », che rivela il tipo specifico, e questa è l’arma di cui si serve mirabilmente il Manzoni per dar rilievo a ciò che in don Abbondio esiste: la pusillanimità. Vi colgo don Abbondio in un dopo pranzo, mentre gli uomini di questa pasta fanno il chilo, e leggendo s’intoppa in Carneade, dimandandosi chi era costui. L’Autore ve lo descrive a questo modo:

        ... stava... sur una vecchia seggiola, ravvolto in una vecchia zimarra, imbacuccato in un vecchio berretto a foggia di camauro che gli faceva cornice intorno alla faccia, al lume scarso d’una picciola lucerna. Due folte ciocche che gli scappavano fuor del berretto, due folti sopraccigli, due folti mustacchi, un folto pizzo pel lungo del mento, tutti canuti e sparsi su quella faccia brunazza e rugosa, potevano assomigliarsi a cespugli nevicosí, sporgenti da un dirupo, al chiarore della luna.

Avete già in queste parole la caricatura di lui, che vorrebbe star sempre come sta; e danno risalto alla figura e ne specificano [p. 336 modifica]il carattere quelle due «ciocche» quei «folti mustacchi», quel «folto pizzo», bianchi allo scarso lume della lucerna, che il poeta vi paragona ai cespugli coperti di neve imbiancati al chiarore della luna. Fin qui abbiamo il tipo. Il poltrone deve muoversi se vuole essere un individuo. Qui, per spiegarsi e intendersi una volta per sempre, dirò che in natura non vi sono né tipi, né idee, né specie ideali: non vi sono che individui, e il tipo non è che in questi, dacché non vi è individuo che rassomigli un altro. È una forza prevalente che con un’altra entra in combinazione e produce un’azione. Tutti possono abbozzare il tipo, ma la forza del poeta è nell’individuo, nella combinazione.

Don Abbondio, che passeggia leggendo, ad un tratto vede due uomini sospetti; guarda meglio, son bravi; riguarda ancora, aspettano lui. Ecco una combinazione che agisce su lui e lo mette in una data disposizione di animo. Ha paura e teme al tempo stesso di mostrare di aver paura. Ecco l’«individuo». Vi si presenta in movimenti doppi, la paura e la dissimulazione. Vuol guardarli, ma non metterli in sospetto; egli guarda di sopra al libro spingendo lo sguardo in su per spiar le mosse di coloro; cerca di scappare senza mostrarlo e, girando le due dita intorno al collo, finge di accomodarsi il collare. Ecco l’originalità.

Ma don Abbondio non è sempre lo stesso, non è monotono; ed ogni nuova combinazione vi dà in lui un nuovo individuo. Giunto a fronte dei bravi dice mentalmente: — Ci siamo — ; e rassegnato, riman lì fermo su due piedi. Passando una volta da Bologna, non dimenticherò mai che essendomi avvenuto di ragionare con uno scultore mio amico del «momento» della creazione artistica, del segreto dell’arte, che rende vane tutte le definizioni della scienza, egli mi diceva essere quel «momento» come se l’anima nostra punta gridasse:— Ah !— . Dopo, quell’ah! non si riproduce più. — Ebbene don Abbondio ha avuta la sua puntura, quando uno dei bravi minaccioso gli dice:

        — Ella ha intenzione di sposare domani Renzo Tramaglino e Lucia Mondella! — .
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E don Abbondio risponde: — Ah! — . Quando l’uomo dappoco è dinanzi ad una minaccia, si mette in difesa e senza accorgersene sceglie quel campo dove l’attira quello sguardo truce, e si pone inconsapevolmente in uno stato di inferiorità, talché il prepotente che minaccia si piglia per l’accusatore, mentre è lui stesso il reo. Così don Abbondio per difender sé e non offendere i bravi, ricorre ad un mezzo sì e ad un mezzo no:
        — Cioè... cioè. Loro signori son uomini di mondo, e sanno benissimo come vadano queste faccende. Il povero curato non c’entra: fanno i loro piastricci fra loro, e poi... poi vengono da noi come s’andrebbe ad un banco a riscuotere; e noi... noi siamo i servitori del comune — .

La paura è poco generosa e don Abbondio, dopo averli chiamati pasticcioni, rovescia la broda su Renzo e Lucia. Questo dialogo è pieno di movimenti drammatici. Don Abbondio vuol parlare e riman lì, poi cerca frasi per pigliar tempo, e stretto, cerca di non compromettersi; infine si dispone ad obbedire. È un altro don Abbondio. Volete un’altra forma? Partiti i bravi, avviene una reazione: è passata la paura, è finita la pressione, e don Abbondio è scontento di sé e sente il bisogno dello sfogo; ed il singolare è che in luogo di pigliarsela colla sua dappocaggine, se la piglia con don Rodrigo, co’ bravi, cogli sposi. E il motivo comico qual è? I bravi se la presero con lui con quel tono perché pauroso, ma egli non lo concepisce. Nel suo calore stizzoso dice: — «Che c’entro io? Son io che voglio maritarmi?» — . Ecco la caricatura del pensiero. Poi viene il dialogo con Perpetua, in cui v’è curiosità di sapere da una parte e una gran voglia di dire dall’altra. Brontolando va a letto e piglia la risoluzione dei pusillanimi, cioè di guadagnar tempo, e chi ne va di sotto è Renzo.

È nelle varie gradazioni che l’arte lo coglie. Buono in fondo nell’animo, conviene che ingannar Renzo non era da cristiano, ed ecco la caricatura di nuovo: [p. 338 modifica]— egli pensa all’amorosa; ma io penso alla pelle: il più interessato son io, lasciando stare ch’io sono il più accorto: Figliuol caro, se tu ti senti il bruciore addosso, non so che dire; ma io non voglio andarne di mezzo — .

Fermato così un poco l’animo si addormenta: e che sonno! che sogni! — Vi sono nella nostra vita certe impressioni umilianti che non abbiam coraggio di confessare, ma che il sonno ci risveglia quando il pensiero toma libero e ci presenta quel che vogliamo dire e quello che non vogliamo. Così don Abbondio minacciato sente già la schioppettata, e sogna tutto. E in questo sogno è riepilogata tutta la sua giornata. Eppure quest’uomo ha avuto un momento di coraggio! Spingete un vile in un muro e temete tutto dal suo coraggio! Preso alla sprovvista, nel suo impeto, col tovagliolo stringe la bocca a Lucia perché non pronunzi la parola fatale, e fugge in camera e grida come un toro ferito: — «Perpetua, Perpetua, tradimento aiuto!» — . Questa è la caricatura di natura.

È la prima parte della sua vita; fin qui non è tutto don Abbondio. Fin qui va a salti, parla con frasi smozzicate, non è libero. E l’autore pare averlo dimenticato affatto e stiamo un pezzo senza sentirne parlare, quando ad un tratto ricomparisce. In mezzo ai prelati ed ai curati venuti a fare omaggio al Cardinal Borromeo, siede in un cantuccio don Abbondio, tutto solo e da nessuno considerato. Un maggiordomo gli si avvicina e lo avvisa che l’Arcivescovo richiede di lui. Egli, abituato e felice a quella noncuranza, meravigliandosi di ciò, esce fuori con un «me?» strascicato, quasi gli paresse strano, non che impossibile, che il cardinale potesse cercare di lui. Si alza e va, e ascolta che bisogna andare a pigliar Lucia coi bravi al castello dell’Innominato, che si è convertito; e fa una smorfia. È una nuova situazione piú ricca: vi sono due forze, la paura indeterminata e la poltroneria. Se don Abbondio consulta la ragione, questa gli dice che l’Innominato è convertito. Ma in lui v’è l’immaginazione svegliata dalla paura; vede l’Innominato cupo e armato di carabina, vede i visi abbronzati, i baffi irti dei bravi [p. 339 modifica]e gli pare che vogliano dire: — Facciamo la festa a quel prete — . In lui v’è la ragione che capisce e l’immaginazione che non capisce, e se la piglia con sé e con Perpetua che volle che andasse a far riverenza all’Arcivescovo. L’Autore lo paragona ad un ragazzo vicino ad un cane mordace che il padrone accarezza chiamandolo buono, ed egli non sa dire di no, ma vorrebbe andar via. Qui il carattere comico sta in ciò, che allora quando don Abbondio ha paura, nasce una contraddizione fra il mondo come lo vedeva lui e come appariva lì. Avete in caricatura lo sviluppo della situazione nel monologo. Volete vedere questa idea caricata di un riso spropositato? [Don Abbondio andava sulla mula, che, seguitando l’uso di tali animali, si teneva sempre sulle prode dei precipizi]. Don Abbondio vedeva il precipizio sotto di sé ed invano cercava di trar colla briglia l’animale in mezzo alla strada, e diceva rivolgendosi angosciato alla mula: — «Anche tu!» — . In questo «anche tu!» v’è don Rodrigo, il Cardinale, l’Innominato, Lucia, e la mula. «Anche tu!».

Nell’ultimo ritratto di don Abbondio vi è come qualche cosa di più in un personaggio esaurito. La sua storia finisce col redde rationem, cioè col dialogo col Cardinale. Qui vi sono due mondi contrarii. Il Cardinale è il sacrifizio delle passioni alla virtù; parla con esaltazione, ed il suo dire prende una forma oratoria ed anche di sermone. Ed ecco ad un tratto don Abbondio ne sente l’impressione: non l’osa dire a lui, ma lo dice a sé; forzato a parlare, gli esce qua e là qualche frase. Questa è una scena audace, è come far parlare Napoleone con Stenterello. Fra questi due mondi lontani, del sacrifizio e della paura, vi è un mondo di mezzo, vi sono i lettori, che io chiamerei temperatura media, ed allora avviene che quando il Cardinale parla ed il lettore sta per dire: — Basta! — , divertito dallo sproposito in che esce fuori don Abbondio, ride e si ravvicina al Cardinale con rispetto. In questa scena parlerebbero molto senza intentendersi mai; se non che il Cardinale colla sua penetrazione trova il lato debole di don Abbondio, che era un uomo buono quando non aveva paura. Don Abbondio ascolta quelle parole, le sente, e il suo dialogo col Borromeo è la sua vita. — Gli sposi [p. 340 modifica]sono sposati, ed egli ritorna alla sua quiete, divien buon compagnone e si permette di far dello spirito.

Eccovi la vita di don Abbondio narrata piú. che criticata. Alcuni lo dicono troppo analizzato e caricato, e [che] prende troppo posto in un romanzo morale come questo. Non hanno questi tali l’idea di ciò che è romanzo. In questo voi ci trovate il materiale storico e positivo, ed è ciò che di piú eccellente riverisco nell’arte nazionale.

Quel mondo ideale nella cima ci parrebbe esagerato se non avesse riscontro in quel mondo di mezzo, che gli sta intorno, mondo plebeo, volgare, di cui don Abbondio è il rappresentante. Immaginate una di quelle camascialate quali ci vengono descritte da Lorenzo de’ Medici, e ponete don Abbondio a corifeo di quella, a capo delle maschere; guardate, quella maschera si tira dietro il popolino: Agnese, Renzo, Prassede, don Ferrante. È un mondo comico, di cui l’essere accentuato è don Abbondio. Il comico è sviluppato quando ci si spassa a spese degli ignoranti, dei dotti, dei frati, da Calandrino al marchese Colombi.

Don Abbondio è il comico della volontà. Non che fosse intelligente, ma tutto il complesso dei fatti prende di mira la fiacchezza. — Se la vita d’Italia stagnò, fu per abbassamento di carattere, nel quale a ragione, sebbene dolga il confessarlo, ci rimproverano gli stranieri la falsità, l’ipocrisia; e don Abbondio c’è caro, perché in noi tutti, diciamolo pure, c’è qualcosa del don Abbondio. Pure non voglio darvi il don Abbondio come personaggio comico perfetto. È solamente il più felice, il più compiuto. Se vogliamo tornar grandi, torniamo modesti. Manzoni non ci può dare ciò che non è nella vita nazionale. Vi dà la parte più bassa, la caricatura, non la vita profonda, di dove uscì Mefistofele, Fausto e Sancio Panza. Ed ora sta a noi cercare di mettersi in quella vita, ed allora verrà l’artista che ci darà il don Abbondio perfetto.

        [Ne La Nazione, 3 dicembre 1873].