Alcesti (Euripide - Romagnoli)/Primo episodio
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Entra Admeto, sostenendo Alcesti moribonda, seguita dai figli che si appendono alle sue vesti. Ancelle, servi, guardie.
alcesti
Sole, luce del giorno,
ètere, limpide veloci nuvole!
admeto
Te vede il sole e me, due sventurati.
Nulla offendemmo i Numi: eppur tu muori.
alcesti
Terra, tetto dell’atrio,
nuzial talamo di Jolco mia1!
admeto
Misera, sorgi, non lasciarmi! Prega
gli Dei possenti ch’abbiano pietà.
alcesti
Vedo la cimba, vedo! Con la mano sul remo,
Caronte, il navicchiere dei defunti, già già
mi chiama. «Non t’affretti? Che indugi? Tarderemo
per te!» La sua parola piú veloce mi fa.
admeto
Misero me! Di che partenza dura
favelli! Qual su noi piombò sventura!
alcesti
Mi tragge alcun, mi tragge! Su me confitta è d’Ade
la cerula pupilla fosca: trascina me
dei morti all’aula. — Lasciami. Che mi fai? — Per che strade,
o donna infelicissima, volgere debbo il pie’!
admeto
Strade di pianto per gli amici, e piú
per me, pei figli, che abbandoni in lutto.
alcesti
Lasciatemi, lasciatemi,
adagiatemi. Piú
non mi reggono i piedi.
Morte è già presso:
ombrosa notte sopra gli occhi repe.
Figli, figli, la madre
vostra non vive piú.
Addio, figli, godete
questa luce del giorno.
admeto
Ahimè! Questi detti al mio cuore
son piú che ogni morte funesti!
Oh no, non partire, ti prego
pei Numi, pei figli che tu
lasci orfani! Sorgi, fa’ cuore!
Se muori, io morrò.
Tu sola puoi darmi la vita o la morte.
alcesti
Admeto, a te che la mia sorte vedi,
dirò, pria di morir, quello che bramo.
Io piú che me, te caro avendo, a prezzo
del viver mio, la luce a te serbata,
muoio. E potevo non morir per te,
ma chi volessi sposo aver dei Tèssali,
e sovrana regnar ne la mia reggia.
Ma divelta da te non volli vivere
coi figli derelitti; e abbandonai
di giovinezza i doni ond’io godevo.
L’uom che te generò, la madre tua
ti tradirono. Ed erano pur giunti
agli anni in cui lasciar la vita è giusto;
e bello era per lor salvare il figlio,
glorïosa la morte; e avean te solo,
né speranza d’avere altri figliuoli
se tu morivi; ed io vissuto avrei
sempre vicino a te; né tu soletto
piangeresti la sposa, e i figli tuoi
orfani educheresti. Ma un Dio volle
che cosí fosse tutto questo. E sia.
Ma tu, memore, rendimi una grazia.
Al beneficio pari non sarà,
ché nulla val quanto la vita vale;
ma ben giusta; e tu stesso lo dirai:
ch’ami non men di me questi fanciulli,
se pure hai senno. Fa’ ch’essi padroni
sian della casa mia, schiva le nozze,
ai figli miei non dare una matrigna,
che, non avendo il cuore mio, per astio,
sui miei, sui tuoi figliuoli, alzi la mano.
Non farlo, no, ti prego. Ai primi figli
sopraggiunge nemica una matrigna:
cuore non ha piú mite d’una vipera.
Il figlio maschio trova un baluardo
nel padre suo; ma tu, pargola mia,
chi curerà la tua giovine vita?
come sarà con te la nuova sposa
del padre tuo? Di mala fama, forse,
nei floridi anni tuoi ti brutterà,
sí che distrugga le tue nozze. Sposa
te non farà la madre: ai parti, o figlia,
te non assisterà, dove nessuno
ha d’una madre il cuore! Io morir devo,
e non domani, e non il terzo dí
del mese, il mal m’attende; ma fra poco
viva chiamar me non potrete. Addio,
siate felici. Glorïarti, o sposo,
potrai che la tua sposa ottima fu:
e voi, figliuoli, della madre vostra.
primo corifeo
Fa’ cuor: per lui parlare non mi pèrito.
Quanto brami farà, se non è folle.
admeto
Sarà, tutto sarà. Non temere. Io
t’ebbi sposa da viva; e morta, ancora
unica sposa mia detta sarai.
Niuna Tessala piú mi chiamerà
sposo, e sia pur di nobil sangue, sia
di vaghissime forme. Ai Numi, questo
soltanto io chiedo: che mi sia concesso
gioir dei figli, or che di te gioire
piú non m’è dato. E non un anno il lutto
tuo porterò; ma sin ch’io resti in vita,
o sposa: e aborrirò la madre mia,
il padre aborrirò. M’erano amici,
non a fatti, a parole. Invece tu,
la carissima vita in cambio offerta,
salvato m’hai. Come potrei non piangere,
perduta avendo una compagna tale?
Porrò fine ai convivî, ed ai simposî,
alle ghirlande, ai canti che sonavano
nella mia casa. Piú non toccherò
cetra, né piú solleverò lo spirito,
cantando al suon di flauto libio. Tu
della vita m’hai tolto ogni diletto.
La tua figura effigïata dalla
mano di saggio artefice, starà
distesa su le coltrici; ed io, prono
accanto a lei, la cingerò con queste
braccia, invocando il nome tuo, pensando
fra le braccia tener la mia diletta.
Gelida gioia, ahimè! Ma forse il peso
solleverà dell’anima. E nei sogni
m’apparirai, m’allieterai. Soave
è la notte vedere i nostri cari
quando che sia. Se le parole e il canto
possedessi d’Orfeo, sí che, molcendo
di Demètra la figlia e il suo signore,
te dall’Averno rïaddur potessi,
vi scenderei; né di Plutone il cane
mi tratterrebbe, né Caronte, d’anime
conduttor, pria che a luce io ti rendessi.
Ora attendimi là, quando io sia morto,
e prepara la casa ove dimora
avrai con me. Ché porre io mi farò
in questa istessa arca di cedro, il fianco
vicino al fianco tuo; né, morto, mai
sarò da te disgiunto, o sola fida!
primo corifeo
Il tuo duol per costei con te partecipo,
amico per l’amico; essa n’è degna.
alcesti
Figli, del padre le parole udiste:
non sposerà, che sia vostra nemica,
un’altra donna: a me non farà torto.
admeto
Lo affermo anche una volta; e manterrò.
alcesti
E allor, dalla mia mano abbiti i figli.
admeto
Oh caro dono di mano diletta!
alcesti
In vece mia, sii tu madre per essi.
admeto
Forza sarà, quand’io di te son privo.
alcesti
Quando viver dovevo, o figli, parto.
admeto
Che farò di te privo, o me infelice!
alcesti
Chi muor dispare. Avrai medico il tempo.
admeto
Con te laggiú, con te laggiú mi reca!
alcesti
Io basto, che per te volli morire.
admeto
Di quale sposa, o Dèmone, mi privi!
alcesti
Già pieno d’ombra l’occhio mio s’aggrava.
admeto
Morto anche io sono, se mi lasci, o sposa!
alcesti
Dire ben puoi che nulla io sono piú.
admeto
Leva il tuo volto... non lasciare i figli!
alcesti
Non io voglio lasciarli... Oh figli... Addio!
admeto
Guardali ancor, guardali ancora!
alcesti
Muoio!
admeto
Che fai? Ci lasci?
alcesti
Addio!
admeto
Morto son io!
primo corifeo
Spirò. Spenta d’Admèto è la consorte.
eumelo
Oh mia sciagura! La madre è scesa
sotterra, o padre! Non vede piú
il sole; ed orfana
la vita mia
povera lascia.
Vedi, le palpebre
vedi, e le mani
già rilasciate!
Odimi, odimi, ti prego, o madre!
Io sono, o madre,
sono il tuo pargolo,
io che ti bacio,
io che ti chiamo!
admeto
Chiami chi piú non ode e piú non vede.
Dura sciagura me con voi percuote.
eumelo
Pargolo io sono, padre; e me solo
con la sorella la madre lascia.
Me sventurato,
te sventurato!
Invano, invano
per te le nozze
furono: al limite
della vecchiezza
con la tua sposa non giungi. Morte
prima la prese.
Tutta in rovina,
poi che tu parti,
madre, è la casa!
primo corifeo
Sopportar la sciagura, Admeto, è forza.
Non il primo fra gli uomini, né l’ultimo
sarai, che perda una consorte egregia.
Pensa che tutti siamo sacri a morte.
admeto
Lo so. Né sopra me qu
esta sciagura
batté l’ali improvvisa. E ben, saperlo,
già da gran tempo mi crucciava. Or via,
l’esequie adesso celebrar conviene.
Voi qui restate. E il lugubre peana
s’intoni alterno al Dio d’Averno immite.
Ed ai Tessali tutti onde ho l’impero,
pubblico lutto per Alcesti impongo:
recidere le chiome, e negre vesti.
Ed ai cavalli2 che aggiogate ai cocchi,
ed ai corsieri, sian recisi i crini.
Né piú clamor di flauti né di lire,
pria di dodici mesi, in Fere s’oda.
Ché mai seppellirò morto piú caro
di questo, e a me piú amico. Ed onorarlo
deggio io, poi che per me morte sostenne.
Admeto si allontana.
Note
- ↑ [p. 336 modifica]Talamo di Iolco. È stato osservato che questo accenno al talamo nuziale di Iolco, non è in armonia con quanto è detto addietro, p. 133, vv. 3 sgg., dove è ricordato invece il talamo nuziale di Fere. La confusione è forse derivata dal fatto che Pelias, padre di Alcesti, era signore di Iolco, mentre il marito Admeto era re di Tebe.
- ↑ [p. 336 modifica]Ed i cavalli ecc. Era usanza dei Tessali, per onorare qualche morto insigne, non solo radersi i capelli, ma anche recidere i crini ai cavalli.