Alceste Seconda (Alfieri, 1947)/Atto quinto
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ATTO QUINTO
SCENA PRIMA
leal quanto magnanimo.
Coro E su l’orme
sue frettolose, da lungi lo segue
con passi incerti una velata Donna,
in portamento altera.
Feréo2 Eccelso Eroe,
deh vieni; e tu (che il puoi tu sol) sottraggi
da orribil morte il disperato amico.
Il Coro d’Alceste
Deh, qual crudel comando a noi tu davi,
Ercole invitto! Il semivivo corpo
portammo fuor d’ogni qualunque vista;
e fide poscia, ma tremanti e incerte
sul destino d’Alceste, al Re negammo
dar di noi conto: e il tacer nostro, o i detti
rotti e dubbiosi, a replicati colpi
immergevan sí addentro in cor d’Adméto
Numi giurava...
Ercole O Donne, i giusti Dei
d’uom disperato i giuramenti mai
non accettan, né ascoltano. Quí vengo
d’ogni qualunque giuro a scioglierl’io. —
Adméto, a te il promisi, a te ritorno;
eccomi, sorgi. — Ma, che fia? né udirmi
pur dimostra egli?
Feréo Oh cielo! Il rio proposto
ei fermo ha in se, non dar piú cenno niuno
d’uom vivo omai.
Ercole Duol che di Re sia degno,
mostra, o Adméto, e non piú. Qual uom del volgo
vinto or forse ti dai? D’Ercole amico,
d’Ercole i sensi ad emular tu apprendi.
Adméto Al rampognar di cotant’uom tacermi,
viltade fora. In me volgari sensi,
Ercole, il sai, non allignar finora.
Ma priega tu l’alto tuo padre, e il priega
quanto piú caldo puoi, che a te mai noto
d’orbo amatore il rio dolor non faccia.
Travaglio egli è, sotto il cui peso è forza,
oltre ogni Erculea prova, infranger l’alma.
Securo omai per la vicina morte
me vedi, e di te degno. Or dunque, amica
la man mi porgi per l’ultima volta:
il pegno estremo, ch’io ti chieggo, o Alcide,
dell’amistade nostra santa, è il corpo,
l’amato corpo della estinta... Indarno
sottrar tu il festi da’ miei sguardi or dianzi:
non può il vederla, accrescermi dolore...
Deh, dunque impon, che mi si renda: io voglio
rivederla, e morir...
Ercole Al tornar mio,
un qualche dolce e non leggier sollievo
e non minor di qualunque altro al certo
attender mai tu osassi. Una adorata
† fida compagna il Fato a te togliea:
or per mia man ti dona (e d’accettarla
t’impone) il Fato stesso altra compagna.
Adméto Ch’osi tu dirmi, Alcide?
Ercole Eccola. Innoltra,
o eccelsa donna, il piede. Ascosa stassi
sotto codesto velo alta beltade:
e vie piú bella ancor l’alma si asconde
sotto le dolci spoglie; «un puro cuore,
con sublime intelletto; umíl costume,
in regal sangue»: i pregi tutti in somma,
che in donna il Ciel mai racchiudesse, or tutti
gli abbi in costei, pari ad Alceste almeno.
Adméto Donna ad Alceste pari? Udir degg’io
tal sacrilego detto? — Odimi, Alcide.
Se in te pur sempre io venerai di Giove
il figlio illustre; e se l’Eroe, l’amico,
con tanto amor, con riverenza tanta,
accolsi in te; spregiar, derider anco
dei tu perciò me disperato amante?
Ad un Eroe tuo par, si addicon elle
cotai scede in tal punto?
Feréo Ah figlio! e in lui
non rispetti l’interprete dei Numi?
Adméto Se Adméto mai né reo né vile ai Numi
apparve pur, perché serbarlo or essi
a sí gran costo a vita orribil tanto?
Ovver, s’io degno m’era pur di morte
prematura, perché pigliavansi essi
per la mia vita la vita d’Alceste?
Per ucciderci entrambi. — E sia dei Numi
pieno il voler; purch’io mi muoja.
Ercole Ardita
dell’error suo, tu sforzalo; tu fagli
sentir d’Alcide la possanza a un tempo,
e degli Dei.
Adméto L’audace piè tu arretra,
qual che ti sii pur tu. Crudo è l’oltraggio,
insopportabil m’è, quel ch’or mi fai
con la presenza tua. Sol’una Alceste,
una sola era in terra, infra i mortali:
eravi, oh cielo! e piú non è... Ma, s’anco
altra simile e pari ad essa i Numi
crear per me volessero, sol quella,
quella mia prima, ell’è la mia; né mai
altra al mio fianco... Oh ciel! che dico? Io fremo,
solo in pensarlo. Itene dunque or voi,
itene or tutti, deh! Che omai vi giova
d’intorbidarmi i miei pensieri estremi?
Teco, mia Alceste, teco, i brevi istanti
che di vita mi avanzano, vo’ trarre,
fin che s’adempia il giuro mio.
Ercole Ma quale,
qual dunque fu l’empio suo giuro?
Feréo Oh cielo!
Mentre or dianzi da noi tolta pur gli era
ogni via d’infierir contro se stesso,
egli in secura spaventevol voce
giurava, (e noi quí testimoni a forza
prendea del giuro) ai Celestiali Numi
giurava, e agl’Infernali; che piú mai,
né d’acqua pur semplice stilla al suo
labbro mai piú non perverrebbe: e aggiunse:
possibil tanto, ch’io rompa il mio giuro,
quant’è possibil che ritorni a vita
Alceste mai.
Ercole Compiuto dunque, o Adméto,
è il giuramento tuo: costei t’ha sciolto.
Adméto Che veggo? oh cielo!
Feréo Or qual prestigio!...
Coro Oh nuovo
spavento! e che, dai chiostri atri di Pluto
scampar sí tosto?...
Admeto Immobil stassi, e muta;
ahi, questa è l’ombra sua, ma non è dessa!
Ercole Dubbi, e terrore, e maraviglia, omai
cessino in voi: la vera, unica, e viva
Alceste è questa, e non d’Alceste l’ombra:
e intera grazia ottiene ella dai Numi,
pria d’esser tratta al ritual lavacro,
di pur poterti ed abbracciare, o Adméto,
e favellarti.
Alces. Adméto, amato sposo,
noi riunisce, e per gran tempo, il Cielo.
Adméto Ah, l’alma voce, l’adorata voce
quest’è d’Alceste; e questa or dal sepolcro
hammi chiamato. Alceste, io pur ti stringo
dunque di nuovo infra mie braccia? Or venga,
venga pur Morte.
Ercole Or lungo bando è dato
da questa reggia alla funesta Parca.
Alces. Molti e lieti anni infra i parenti e i figli
trarremo insieme: e sovruman stromento
d’inaudito prodigio, Ercole adora.
Adméto Splendere in te giá un Semidio ben veggo:
ch’io mi ti atterri...
Ercole Sorgi: altro non sono
io, ch’un mortal; ma non discaro ai Numi.
Adméto Oh ciel! muto son io per la gran gioja.
Agli occhi miei quasi non credo: eppure
queste ch’io stringo, elle son pur le amate
divini accenti che ascoltai, dal tuo
labro adorato uscian veracemente.
Alces. Sposo, ed io pure i disperati detti
del tuo dolore immenso or dianzi udiva,
da te creduta estinta. Oh qual segreta
inesplicabil gioja, nel vederti
di me sí pieno, ancor che scevro affatto
d’ogni speme di me! Troppo tu m’ami;
e il tuo feroce giuramento il prova. —
Altro non resta, che, abbracciati i figli,
ringrazíar pomposamente i Numi.
Feréo Venite or sí, voi pargoletti, al seno
dei racquistati genitori entrambi.
Eúmelo Madre, e noi pur quanto abbiam pianto! Oh cielo,
vederti piú, nol mi credeva.
Ercole Io mai
piú giocondo spettacolo di questo
non vidi, né piú tenero. Mi sento
dolci lagrime insolite far forza
al ciglio mio pur anco.
Feréo E qual poi fia
dell’antiqua tua madre oggi la gioja
nel rivederti, o Adméto!
Coro In te gli Dei
lor possanza mostraro.
rcole Opra ben tutto
fu dei Celesti. Ad essi piacque, o Adméto,
che tu infermassi a morte, onde poi campo
alla virtú magnanima d’Alceste
schiuso venisse; ed agli Iddii pur piacque,
che tu estinta credendola l’immenso
tuo amor mostrassi col feroce giuro
di non mai sopravviverle.
Adméto Ma, come
concesso t’era dalle ingorde fauci
Ercole Arcani questi
son della eccelsa Onnipotenza, in cui
vano del par che temerario or fora
ogni indagar d’umano senno. Alcide,
in tal portento, esecutor sommesso
del comando dei Numi, altro ei non era.
Né il dire, a me piú lice; né a voi lice,
il ricercar piú oltre. Unico esemplo
di conjugale amor, felici e degni
sposi, all’etá lontane i nomi vostri
e celebrati e riveriti andranno.
Feréo Tutta or dunque di giubbili festivi
suoni e la reggia, e la cittade, e intera
la beata Tessaglia.
Ercole Ed io con voi
tre pieni giorni infra conviti e canti
festeggiando starommi. A compier quindi
altro comando d’Euristéo (deh fosse
l’ultimo questo!) il mio destin mi sprona
in Tracia, ad acquístargli a forza i crudi
Diomedéi carnivori destrieri. —
Ma intanto or quí le mie passate angosce,
e le future, allevíar mi giovi
mirando in voi d’ogni celeste dote
un vivo specchio in terra. Era sol degno
di Alceste Adméto; e sol di Adméto, Alceste.
Coro E degni entrambi del sublime Alcide.