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I - Il principe di Ligne

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Maestri di guerra Maestri di guerra - II - Lazzaro Carnot
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I.

IL PRINCIPE DI LIGNE.

Il Circolo archeologico della città di Ath, nel Belgio, avvicinandosi col dicembre del 1914 il centenario della morte del principe di Ligne, deliberava, ad onorare la memoria dell’insigne conterraneo, di ripubblicarne le opere: per cominciare, la tipografia Sellekaers e Keulener di Bruxelles approntava la nuova edizione delle Lettres à la marquise de Coigny il 20 aprile di quell’anno, i Prejugés e le Fantaisies militaires il 20 ed il 29 giugno, ed i Mémoires il 25 luglio — lo stesso giorno nel quale scadeva la perentoria nota dell’Austria alla Serbia.... Non occorrono altri discorsi a spiegare l’arresto della ristampa, ed è certo che se le egrege persone ad essa preposte avessero potuto sospettare il cataclisma dal quale il loro paese era [p. 100 modifica]minacciato, non avrebbero dato la loro attività ad imprese letterarie.

Tuttavia quei valentuomini debbono essere contenti di avere licenziato i primi volumi del Ligne, i due di argomento militare segnatamente; perchè, se i gustosissimi ricordi autobiografici ci mettono dinanzi viva e parlante la singolare figura del grande scrittore, del gran signore, del grande amatore; se certi suoi aspetti particolari, e non dei meno caratteristici, sono lumeggiati dal carteggio con la marchesa di Coigny; i Pregiudizii e le Fantasie militari hanno acquistato, con la conflagrazione mondiale, nuova freschezza.

I.

Belga di nascita, francese di lingua, di cultura, di spirito, il principe di Ligne servì la Casa d’Austria. Non fu sua colpa, perchè allora il Belgio apparteneva agli Absburgo, ed «affinchè non nascano equivoci», il barone di Heusch, tenente generale nell’esercito del Re Alberto, avverte nella prefazione ai Pregiudizii che Carlo di Ligne, «servendo l’Austria, serviva il proprio paese». Se tale è il giudizio dei suoi concittadini posteriormente costituiti in nazione, non sarà diverso quello degli stranieri; e poi, che cosa importa oramai lo stato [p. 101 modifica]di servizio del principe; anzi, che cosa ne resta? Di lui restano soltanto le opere, e qui egli è belga, francese, latino di purissimo sangue: per gli scritti d’argomento guerresco è annoverato tra i massimi scrittori militari di Francia; per le composizioni letterarie la signora di Staël lo definisce «il solo straniero che, trattando il genere francese, invece di restare imitatore sia divenuto modello».

Ma si può dire qualche cosa di più: giova dire che servendo l’Austria, compiendo la sua carriera nell’esercito imperiale, il principe di Ligne non si trovò a suo agio, e che, senza lo straordinario e irresistibile trasporto per i ludi di Marte, molto probabilmente egli l’avrebbe troncata anzi tempo. Tale fu la sua vocazione, che udendo parlare, nei più teneri anni, della morte del Principe Eugenio — altro straniero al servizio dell’Impero, altra gloria latina e tutta nostra — il bellicoso fanciullo già si proponeva di prendere il posto dello stratega sabaudo. «Questo,» dichiara, «fu il primo pensiero di cui io serbi memoria». Il suo secondo ricordo gli rappresentò la guerra che si combatteva quando egli cominciava ad avere coscienza di sè, «la guerra,» racconta, «che mi diede alla testa». Ininterrotte tradizioni militari regnavano nella sua famiglia; il suo nome era portato da un reggimento di fanteria e da uno di dragoni; i suoi antenati erano stati generali e [p. 102 modifica]marescialli; maresciallo era suo padre quando faceva impegnare un combattimento d’avanguardia contro i Prussiani per dare al figliuoletto il battesimo del fuoco, galoppando al suo fianco, tenendolo per mano e dicendogli: «Sarebbe grazioso, Carlo, se riportassimo insieme una piccola ferita!...» E nulla potè agguagliare la soddisfazione e l’alterezza che invasero l’animo dell’adolescente nel partire per quella prima delle sue dodici campagne di guerra.

Accoppiando fin da quei cominciamenti la facoltà e l’esercizio della riflessione con la voglia e l’impeto dell’azione, egli componeva a quindici anni un Discorso sulla professione delle armi; e l’uomo a cui, da giovane, le figure di Carlo XII e del Condé avevano «impedito di dormire», doveva più tardi ammonire i giovani: «Se i vostri sogni non sono popolati da immagini militari, se non divorate i libri di guerra, se non baciate le orme impresse dal piede dei vecchi soldati, se non piangete al racconto delle loro battaglie, spogliate subito la divisa! Guai ai tepidi! Foste anche del sangue degli eroi, foste anche del sangue degli Dei, se la Gloria non vi procura un continuo delirio, non vi schierate sotto le bandiere...» Amando dunque il suo mestiere sopra ogni altra cosa, s’intende come le delusioni non riuscissero a farglielo abbandonare; ma le delusioni non gli furono risparmiate, e provennero precisamente dalla [p. 103 modifica]incompatibilità mentale e morale che lo divideva dai supremi reggitori della milizia e della monarchia degli Absburgo.

L’impossibilità di uniformarsi ai responsi dei Consigli aulici, di chinare la schiena nelle anticamere della Corte, di compiere le bassezze necessaire a farsi avanti, lo persuase ad appartarsi: due volte lo andarono a cercare per offrirgli il comando contro Napoleone Bonaparte; tutt’e due le volte gli anteposero «quattro invalidi» che si fecero battere uno dopo l’altro, «quattro poveri ignoranti che avevo avuti sotto i miei ordini ed ai quali, eccettuato il Clerfayt, non avrei affidato neanche tre battaglioni». Un’altra volta lord Grenville, residente inglese a Berlino, chiese al primo ministro austriaco, il barone Thugut, di affidare al Ligne il comando dell’esercito del Reno: la proposta britannica non fu neanche trasmessa all’Imperatore. Un’altra volta il principe fu invitato dal Re di Sardegna, con la promessa che sarebbe stato preposto al comando supremo delle forze piemontesi a condizioni eguali a quelle dell’esercito imperiale: questa volta il Thugut cominciò col sorridere graziosamente, come sul punto di consentire; ma poi, tratta una riverenza all’inviato sardo, che era il conte di Castellalfieri, volse ad altro tema il discorso. Il presuntuoso Cancelliere non poteva perdonare lo spirito mordace col quale il Ligne aveva fatto ridere [p. 104 modifica]di lui, appioppando a quel parvenu il titolo di Barone della Guerra per l’ostinato rifiuto opposto alle ragionevoli offerte di accomodamento avanzate dalla Francia, e per contrasto al titolo di Principe della Pace largito dal Re di Spagna al primo ministro Godoy.

«La sciocchezza e la furberia dei favoriti di Corte, le cattive scelte che hanno fatte, la negligenza usata verso le brave persone e gli uomini di valore, hanno distrutto il mio fervore guerresco, che nulla credevo potesse scemare». A Vienna «l’immaginazione è una pianta tanto esotica, che le tre o quattro persone che ne posseggono sono pazzi...». Non sarebbe fuor di luogo trascrivere tutti i saporosi giudizii da lui dati intorno a quel mondo, a quei sistemi ed all’uomo che li impersonò, se non importasse maggiormente notare le doti proprie dell’autore, la vivacità dell’immaginazione, appunto, che fece di questo soldato un artista; la severità del sentimento del dovere e dell’abito della disciplina, che fece di questo artista un soldato; la capacità di freddamente osservare e di caldamente sentire; il mirabile equilibrio del cuore e dell’intelletto, della dottrina e dell’ispirazione; la perfetta fusione di qualità non sempre concordi, anzi, e per disgrazia, ordinariamente contrastanti. [p. 105 modifica]

II.

Così formato dall’eredità, dall’educazione e dalla vita, egli doveva cadere in discredito come maresciallo austriaco e conseguire l’immortalità come scrittore militare. Lasciamo stare le sue vedute geniali, le sue invenzioni e le sue previsioni nel campo strettamente tecnico, capaci d’interessare soltanto i competenti; ma poniamo in evidenza la singolarità d’un uomo che al tempo nel quale un buon numero di mercenarii e di stranieri entravano a comporre gli eserciti, scriveva un libro intorno alla «parte morale del nostro mestiere, che è dovunque negletta od ignorata»; d’uno scrittore che durante il regno del bastone asseriva: «La prima disciplina consiste nel regnare sulle anime»; che mentre i governanti avevano una matta paura delle baionette intelligenti, e gl’istruttori lavoravano in piazza d’armi a ridurre i soldati all’obbedienza cieca ed al perfetto automatismo, dimostrava la necessità di suscitare la coscienza di sè e il senso della responsabilità in quelle macchine. Quale credito poteva ottenere l’originale che nello Stato e nella casta dove imperava il feticismo delle norme e delle forme, affermava che un articolo da aggiungere [p. 106 modifica]a tutti i regolamenti dovrebbe dare la facoltà di trasgredirli; che i giovani uscenti dalle scuole debbono disimparare tutte le inutili cose con tanta fatica cacciate nella mente; che non occorrono maestri d’armi, bensì maestri d’elevazione, e scuole d’ammirazione, scuole d’entusiasmo, e scuole — anche — di «disordine»? Non doveva essere giudicato propriamente eretico e far passare brividi d’orrore per la schiena dei feld-marschälle pettoruti, compassati e pedanti lo scrittore secondo il quale gli aiutanti di campo debbono distinguersi, sì, per il coraggio, l’esattezza, l’intelligenza, ma anche «nel saper modificare l’ordine che portano, se le circostanze sono modificate....»? Non doveva sembrare un sovvertitore degli elementari principii della gerarchia e dell’etichetta colui che voleva vedere la prima severità esercitarsi sui capi supremi: colui che si vantava d’aver fatto aspettare Imperatori e Imperatrici, ma non un coscritto; che giudicava la società dei fantaccini «più pura e delicata che non quella delle persone della buona società»; che assegnava ad ogni ufficiale la missione «d’amico, di confidente, di consolatore» dei suoi uomini, ed affermava che il colonnello dev’essere «il padre e la madre del reggimento»?

Quando la psicologia non era ancor di moda negli studii, e tanto meno tra i ranghi, il principe di Ligne indagò l’anima di quel grande [p. 107 modifica]fanciullo che è il soldato e gli attribuì tutta la dignità che gli compete. Ai soldati pensò che bisognerebbe deferire, se non si vuol sbagliare, il giudizio intorno ai premii da largire ed alle punizioni da infliggere ai generali; e la più perfetta eguaglianza volle che regnasse nell’esercito; ma dall’altra parte, e per giusto compenso, volle anche che l’ordine concernente una «bagattella» fosse tanto sacro quanto quello che si riferisce alla battaglia, e che al caporale si portasse tanto rispetto quanto al generale.

Le idee anticipate dal principe hanno fatto strada, ma non è inutile che i giovani destinati alla carriera militare le meditino sulle eloquenti pagine dell’autore. Più utile ancora riuscirà, non solamente ai militari, ma a quanti sentono che la guerra è una dolorosa necessità e che nella forza consiste, e consisterà finchè l’umana natura non sarà mutata, la sanzione del diritto; più utile, oggi, ai cittadini cui non fu dato di poter combattere, ma che seguono con l’ansioso pensiero e con la fervida speranza i combattenti, riuscirà la lettura delle parole con le quali il principe di Ligne esalta «il più bello dei flagelli».

Ai predicatori della pace ad ogni costo egli ne dimostra i danni e propone un formidabile dilemma: «Bisogna scegliere tra l’avere la Pace perchè si è pronti a fare la Guerra, o avere la Guerra perchè non si è pronti a farla»; e [p. 108 modifica]soggiunge un’altra verità espressa in forma non meno concettosa: «Giunto il primo giorno della Guerra bisogna pensare alla Pace, e il primo giorno della Pace bisogna pensare alla Guerra». Ma non perchè è persuaso della fatalità della lotta, non perchè nutre tanta passione per il suo mestiere da scrivere: «Il mio stupore è che si possa sopravvivere ad una battaglia, qualunque ne sia l’esito: come non morire di dolore se è stata perduta, e di gioia se è stata vinta?; non perchè dice: «Una battaglia è un’ode di Pindaro: bisogna mettervi un entusiasmo che confini col delirio»; e non per essere nato soldato «come altri nasce pittore, poeta o musicista»; non perciò Carlo di Ligne si può ascrivere tra quei militaristi di professione i cui viziosi abiti mentali dànno buon giuoco ai mestieranti del pacifismo. Altra è la personalità di quest’uomo di cuore, di questo avversario della pena di morte, di questo sentimentale a cui fu possibile amare tre donne ad un tempo «con la miglior fede del mondo, poichè non le ingannavo punto: ingannavo, forse, me stesso...». Se la passione lo acceca in amore fino ad un certo segno soltanto, gli lascia tutta la sua chiaroveggenza come soldato; e dopo avere dimostrato i danni delle lunghe paci, l’infiacchirsi dei corpi e delle anime, il prevalere degli appetiti materiali e degli istinti egoistici; dopo avere esaltato la necessità della guerra, la bellez[p. 109 modifica]za dell’eroismo, la fecondità del sacrifizio, «io non dirò,» conclude: «— Fate per ciò la guerra; ma se la ragione, la giustizia, l’onore, l’utilità o la vendetta fanno gridare all’armi! sia allora consentito ai giovani ufficiali di gioire, ai vecchi di riprendere il cammino della vittoria, alle fanciulle ed alle spose di ornare di coccarde i loro innamorati ed i loro consorti, e si vieti alle vecchie ed ai filosofi di trovarci da ridire...». La guerra, senza dubbio, porta con sè durezze e crudeltà inevitabili; «ma bisogna essere uomini: essa non è mestiere da filosofi!».

III.

E tanta è la lucidità di questo assertore della guerra, che egli non se ne dissimula il grande nemico: il prepotente istinto della vita, il sentimento della paura. «Fra tutti gli animali il più pauroso è l’uomo. È chiaro che la paura ci rende le più maldestre creature. Consiste essa in una specie di ragionamento che c’impedisce di fare ciò che i più pigri e tardi animali fanno tutti i giorni. Con un poco di coraggio, noi salteremmo tanto bene quanto le scimmie, e cadremmo forse da un terzo piano come i gatti, senza farci male. Si è visto mai la lepre, che non gode fama d’essere la bestia più ani[p. 110 modifica]mosa, temere il tuono, o la cerva spaventarsi degli spettri?... Quante brave persone non tremano al pensiero di trovarsi sole in un bosco durante la notte e la tempesta? A quante il vento non impedisce di dormire?... E come mai l’uomo non avrebbe paura del fuoco? Ne ha tanta dell’acqua! È il solo fra tutti gli animali che non sappia nuotare. Non c’è cinghiale che non ne sia capace, venendo al mondo. Non appena noi vi entriamo, già si lavora a sgomentarci. Balie, governanti, precettori, frati, parenti: tutti ci minacciano, tutti ci intimidiscono....»

Contro i deplorevoli effetti di questa congiura egli sostiene l’utilità degli esercizii fisici ardimentosi, la necessità di una scuola del pericolo, l’immensa efficacia dei fattori morali. Per quest’uomo pugnace la guerra è fiducia nella forza, volontà di vincere, tensione della volontà, impetuosità di assalto. «Bisogna ostentare l’offensiva, anche quando si è costretti, per una moltitudine di circostanze che del resto non dovrebbero mai avverarsi, a mantenersi sulla difensiva.» E non gli parlate dei temporeggiatori: Cesare, Alessandro, Annibale, Pirro, Scipione sono i santi del suo calendario: Fabio non vi ha posto: «la stessa temerità è talvolta prudenza». La precauzione deve nascondersi, restare tutta interiore; solo l’audacia ha da manifestarsi. Nulla vi dev’essere d’impossibile; bi[p. 111 modifica]sogna fare cose straordinarie sapendo che si possono fare: «Siate certi che un capitano di dragoni lanciato a briglia sciolta può vincere una battaglia». Per compiere «passabilmente» il proprio dovere, bisogna compierlo «tre volte»; e ancora: «Per fare il proprio dovere bisogna fare più del proprio dovere. La gloria è qualche cosa di tanto raro, che bisogna procacciarsene quanto più si può...».

La guerra d’oggi è diversa da quella d’un tempo, ma non tanto che le parole di questo maestro non siano da meditare. C’è, sì, qualche foglia secca in questa sua fiorita; c’è qualche paradosso e qualche sofisma; ma scegliendo di pagina in pagina si potrebbe comporne un vade-mecum, una Bibbia del soldato; ed egli ha veramente ragione di dire ai critici che i suoi libri tengono luogo di un’intera biblioteca, contenendo tutto il succo della scienza delle armi come la fiala contiene un elisir.

16 luglio 1916.