Al rombo del cannone/Gli enimmi di Waterloo

Gli enimmi di Waterloo

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Maestri di guerra - II - Lazzaro Carnot Thiers, Bismarck e la guerra

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Gli enimmi di Waterloo.

Nell’anno secolare della battaglia che segnò l’ultimo crollo dell’impero napoleonico, un soldato francese ridottosi da molto tempo a vita di studio per le ferite riportate in guerra ha pubblicato una nuova storia di Waterloo. Compiuta nella primavera del 1914, l’opera ponderosa e poderosa fu consegnata ai tipografi il 3 giugno di quell’anno, due mesi prima della conflagrazione europea: l’autore ha creduto necessario avvertirlo sin dal frontespizio, quasi a giustificare la pubblicazione di indagini intorno ad una guerra passata mentre le battaglie imperversano dall’un capo all’altro del vecchio continente. E il libro suo, narrando come si decisero un secolo addietro le sorti del mondo, rischierebbe veramente di passare inosservato oggi che esse si stanno decidendo ancora una volta, se non fosse che mentre noi abbiamo sete di conoscere quanto avviene sui campi della gran guerra attuale, mentre non abbiamo quasi altro bisogno, supreme ragioni di prudenza [p. 128 modifica]vietano ai capi degli eserciti e degli Stati di appagarlo: talchè alla nostra immaginazione distratta da ogni altro oggetto le stesse narrazioni degli antichi combattimenti offrono un pascolo.

Si potrebbe intanto, e pregiudizialmente, domandare se occorresse proprio tornare sul tema che da cento anni centinaia di scrittori d’ogni paese hanno sviscerato. La luce non è fatta, chiara, piena, lampante?... Non è fatta ancora. Il Lenient, avanti di comporre il suo libro, ha meditato gli altrui, dal primo al penultimo, che pareva anche definitivo: quello di Arrigo Houssaye. L’ultimo fu scritto da un Italiano, da un competentissimo Italiano: Alberto Pollio. Noi possiamo dolerci che lo scrittore francese non ne conosca l’opera, ma non certo quanto se ne dorrà egli stesso dopo averla cercata; perchè vi troverà, a sostegno delle idee da lui combattute, argomenti che lo faranno pensare, e meglio ancora perchè alcuni degli stessi suoi giudizii potrebbero essere egregiamente avvalorati con quelli espressi dal generale nostro.

Nel suo Waterloo il Pollio, come tutti gli studiosi precedenti, non presume di spiegare ogni cosa: ammette anzi che molti enimmi sussistono; il Lenient intitola invece l’opera sua: La solution des énigmes de Waterloo. Vediamo. [p. 129 modifica]

I.

La domanda preliminare, la più generale e comprensiva, è questa: come mai un esercito di 124000 soldati, con 25000 cavalli e 300 cannoni, comandato dal primo capitano del secolo, forse di tutti i secoli, è in soli quattro giorni disfatto, distrutto, dissolto?

Gl’idolatri hanno detto che il piano dell’Imperatore era infallibile; Adolfo Thiers afferma che la fatalità soltanto potè sconvolgerlo. La fatalità ha spalle da regger some anche più gravi di questa. Ma poichè nessuno l’ha vista ancora in faccia per chiamarla alla resa dei conti, e poichè il più prepotente bisogno, nelle avversità, è quello di addossarne a qualcuno la colpa, così anche di Waterloo si sono cercati e, naturalmente, trovati i capri espiatorii. Tutta una scuola addebita il disastro ai luogotenenti, o disertori come il Bourmont che passa al nemico con lo Stato maggiore della sua Divisione all’inizio della campagna, o insolitamente malaccorti, subitamente intimiditi, straordinariamente inabili, come Ney ai Quatre-Bras, come Grouchy a Wavre.

Il Lenient dimostra che i traditori non giovarono al nemico, e distrugge le accuse rovesci [p. 130 modifica]ate sui marescialli. Si dovrà credere allora ciò che tanti altri hanno asserito, cioè che la rovina fosse da imputare allo stesso Napoleone, perchè non era più quello di prima, perchè le grandezze ne avevano indebolita la tempra, perchè gli anni, i malanni e i rovesci ne avevano offuscata la mente, infiacchita la volontà, fiaccata la fede?

Neanche questa è l’opinione dell’autore. Egli adduce, al contrario, tutte le prove dell’energia fisica, della prontezza e dell’acume intellettuale, della gran forza morale con le quali l’Imperatore compose ed attuò il piano della campagna.

Allora?...


II.

Il primo dei problemi particolari nei quali si risolve il gran problema di Waterloo è quello del numero. Poteva Napoleone avere una forza maggiore di quella che adoperò? Egli mosse con 124000 uomini contro Wellington e Blücher, ciascuno dei quali ne comandava quasi altrettanti: fin dal principio, dunque, la partita si presentava come troppo disuguale. Con un incredibile intuito profetico l’Imperatore scriveva al maresciallo Davout: "La più gran disgrazia che possiamo temere è d’esser troppo deboli al nord e di patirvi sulle p [p. 131 modifica]rime uno scacco". Lo scacco sopportato di primo acchito, dopo soli quattro giorni di campagna, in quei campi settentrionali dove appunto temeva d’esser troppo debole, fu veramente senza rimedio: terribile lucidità di previsione! Allora, perchè non correggere la debolezza?

Il Thiers, il Siborne, il Pollio, molti altri dicono che nell’apparecchiarsi alla guerra Napoleone fece quanto umanamente era possibile. Il Lenient, sulla fede di ragionamenti e di calcoli, lo nega. Le forze della Francia sarebbero state molto maggiori se l’Imperatore non avesse esitato tra la difensiva e l’offensiva, se avesse chiamato più presto le milizie territoriali che avrebbero lasciato disponibile per la prima linea un più grosso nerbo di truppe. Comunque, alla difesa del suolo nazionale bastavano i 434000 uomini già raccolti: perchè mai, dunque, i 178000 dell’esercito di campagna furono ridotti a 124000? Perchè distrarre dalle pianure del Belgio, dove si decideva la quistione vitale, 54000 soldati e disseminarli sulle altre frontiere? La Coalizione minacciava, è vero, anche dalla parte del Reno: ma che potevano fare i 46000 uomini di Rapp, di Suchet e di Lecourbe contro i 500000 del principe di Schwarzenberg? Alberto Pollio adopera una formula a definire il concetto napoleonico della ripartizione delle forze: il minimo necessario per le operazioni secondarie, il massimo disponibile [p. 132 modifica]per le principali. Secondo il Lenient si dovrebbe dire invece: le forze impotenti sono forze inutili. Sui confini della Spagna, del resto, nessuno minacciava: che stavano dunque a farci gli 8000 soldati del Decaen e del Clauzel?

La spiegazione proposta dall’autore è tutta psicologica: l’uomo che aveva riconquistata la Francia con gli ottocento soldati dell’isola d’Elba, che disprezzava i nemici, che giudicava Wellington "generale di terz’ordine", Blücher nient’altro che "un bravo ussaro" e le loro truppe altrettanta "canaglia", quest’uomo non credeva di dover fare uno sforzo eccessivo e stimava che 124000 soldati in mano sua valessero il doppio....

Ora, in qual modo li adoperò?


III.

La manovra di Charleroi è ancora levata al cielo come la più sapiente rottura strategica, e l’attacco come una sorpresa fulminea. Il Lenient dimostra che non vi fu sorpresa di sorta, che Blücher e Wellington, sei settimane innanzi, si erano pienamente accordati prevedendo precisamente ciò che Napoleone poteva fare, e che poi fece. L’idea di sorprenderli, di sgominarli prima di dar battaglia, fu una presunzione sugg [p. 133 modifica]erita e alimentata anch’essa dal folle orgoglio. Avanzarsi su Charleroi per separare i due nemici e quindi avvolgerli e travolgerli uno dopo l’altro, sarebbe stato possibile se in quel luogo si fosse trovato il nodo concreto della fronte alleata da rompere; ma Charleroi era soltanto un centro geografico, come chi dicesse il luogo geometrico del collegamento nemico: l’ala inglese vi sfiorava appena la prussiana, e un attacco su quel punto poteva tanto meno essere considerato come rottura strategica, perchè il campo di manovra che l’Imperatore veniva ad aprirsi sarebbe riuscito del tutto insufficiente. Secondo la stessa teoria napoleonica, un esercito composto di cinque o sei Corpi e posto tra due pericoli, deve poter disporre, in ciascuna delle direzioni pericolose, di almeno tanto spazio quanto ne occorre per due marce. Ora l’esercito del Nord era appunto composto di sei corpi, e le due direzioni nelle quali si trovavano gl’Inglesi e i Prussiani erano pericolosissime: esso aveva dunque bisogno d’una zona di manovra lunga quaranta o cinquanta chilometri - e tra Sombreffe e i Quatre-Bras ne correvano appena dodici!

Ma veniamo all’esecuzione, ed al primo atto del gran dramma: il passaggio della Sambra.

Fu passata, infatti, il 15 giugno, e l’esercito, lasciata la riva destra del fiume, ne tenne l’opposta; ma questo non era il puro e semplice risultato [p. 134 modifica]da conseguire: bisognava anche arrivare dentro un certo tempo ai luoghi designati, distruggendo quante forze nemiche vi si trovassero. Invece il corpo di Zieten, contro il quale la superiorità numerica dei Francesi era schiacciante, potè ripiegare come e dove volle, e il fiume fu passato con molto ritardo. Perchè? Come mai i luogotenenti dell’Imperatore lasciano i bivacchi due, tre, quattro ore dopo quello prescritta? Sono incapaci?... Altri generali certo più capaci, come Davout, come Gouvion Saint-Cyr, sono stati lasciati da Napoleone in disparte per la stessa superba persuasione di non averne bisogno; ma nè Reille, nè d’Erlon, nè Vandamme sono inabili o infidi: essi non curano come dovrebbero l’esecuzione degli ordini perchè l’autocrate, chiuso in sè stesso, ha trascurato di svelare tutto il suo pensiero, di mostrare quale e quanta è la parte a ciascuno di essi affidata.

E mentre il passaggio del fiume è appena iniziato a mezzogiorno, il duce supremo scende da cavallo, si fa portare una sedia e vi s’addormenta. Debolezza della carne? Sì; ma anche cieca fiducia che il sonno gli è consentito, che nulla egli ha da temere, che a tutto saprà porre riparo. [p. 135 modifica]


IV.

L’azione s’inizia. Napoleone col grosso attacca a destra i Prussiani e lancia il I e il II Corpo a sinistra, contro gl’Inglesi.

Questo è l’enimma di Ney. Ney, il cuor di leone, l’eroe della Moscova, il fedele Ney che pagherà con la vita l’adesione accordata al reduce dell’Elba, il fulmine di guerra che tre giorni dopo anticiperà temerariamente le cariche della cavalleria contro Mont-Saint-Jean e avrà cinque cavalli uccisi sotto di sè, Ney, le brave des braves, ricevendo l’ordine di slanciarsi "a capofitto" contro Wellington e di prender posizione oltre il crocevia dei Quatre-Bras, si avanza infatti, il 15; ma, affrontatosi col nemico, giudica di non potersi impegnare a fondo, e s’arresta; il 16 esita ancora, perde tempo, attacca con una sola parte delle sue forze, non si spinge oltre il crocevia, non è neppure in grado di concorrere, dalla destra, all’accerchiamento della sinistra prussiana! Enimma nell’enimma: tutto il corpo d’esercito di Drouet d’Erlon, posto tra Ney che attacca gl’Inglesi e Napoleone che attacca i Prussiani, va dall’uno all’altro e torna dall’altro all’uno senza arrivare a combattere con nessuno dei due!... [p. 136 modifica]Chi ha portato a d’Erlon l’ordine scritto con la matita? Non si sa! Ma Napoleone l’ha veramente scritto? Il Lenient lo nega.

La sua spiegazione del mistero è nuova del tutto. Il fatale andirivieni di Erlon è dovuto a un ordine contraffatto: un gregario, a fin di bene, in quell’esercito dove la disciplina lascia troppo a desiderare, dove lo zelo consiglia audacie pazze, ha falsificato la scrittura del capo. E Ney non ha colpa d’avere esitato. Se mai, doveva esitare anche più, disobbedire totalmente all’ordine imperiale, arrestarsi più indietro ancora, rendere così impossibili le marce e contromarce di Erlon e mettersi in grado di dare una mano a Napoleone contro Blücher. La colpa è tutta dell’Imperatore, che mentre si propone di separare i due nemici alleati e di cominciare a distruggerne uno, si divide invece egli stesso, resta con soli 80000 uomini contro i 120000 di Blücher e manda i 47000 di Ney contro Wellington, pretendendo anche che il maresciallo gliene riservi una parte. Troppo poche se debbono affrontare tutti i 95000 soldati del duca, le forze di Ney sono troppe se debbono sostenere soltanto qualche breve zuffa.

E quest’ultima è veramente l’opinione dell’Imperatore: Wellington non potrà resistere, non riuscirà neanche a concentrarsi, non potrà opporre nessun serio ostacolo sulla via di Brusselle. Entrare a Brusselle è il sogno del vanaglorioso: [p. 137 modifica]già egli caracolla con l’immaginazione per le vie di quella città.... Un particolare è caratteristico: Napoleone dà a Ney la cavalleria della Guardia, ma gli dice: "Non ve ne servite!". La cosa è tanto incredibile che Alberto Pollio ricusa di crederla. Il Lenient vi trova invece la conferma della sua spiegazione. La cavalleria è data a Ney per mostra, come uno spauracchio contro i nemici: basterà che costoro vedano quella forza, perchè si sentano perduti. Questo concetto l’Imperatore ha di Wellington, del duca di ferro!

Un concetto non molto diverso ha di Blücher: è persuaso che il maresciallo prussiano, con 120000 uomini sotto il proprio comando, non potrà, non saprà concentrarne più di 40000 a Ligny. Non contento quindi d’aver distaccato Ney contro gl’Inglesi, il temerario lascia anche inerte Lobau a Charleroi con tutto un corpo d’esercito, lo richiama troppo tardi, quando s’accorge che Blücher ha con sè tanta forza da non lasciarsi schiacciare. Potendo riuscire un trionfo risolutivo, Ligny è così una mezza vittoria e lascia indecisa la partita tremenda. [p. 138 modifica]


V.

Il 17, alla vigilia della giornata suprema, l’Imperatore può scegliere tra due obbiettivi: o inseguire e finire Blücher, oppure correre addosso agl’Inglesi. Anche ora, invece, egli presume di poter conseguire i due scopi ad un tempo. Illudendosi che Blücher sia stremato, crede che basti Grouchy ad annientarlo; 38000 Francesi in tutto, contro più di 100000 Prussiani! Egli stesso con i 60000 soldati che gli rimangono, stima di poter opprimere i 95000 di Wellington.

La giornata fatale già spunta. Napoleone ha inoltrato tutte le sue forze verso Brusselle, in unica colonna, senza tentare un attacco di fianco, senza accennare ad una mossa avvolgente. Scorgendo Wellington fermo sul pianoro di Mont-Saint-Jean, lo giudica perduto - "il tempo di far colazione!" - e non si accorge che l’Inglese, certo dell’arrivo dei Prussiani, si stima intanto sicuro, nel campo precedentemente scelto e studiato, come dentro una piazzaforte. I Prussiani, secondo l’Imperatore, non possono, non debbono arrivare: Grouchy è stato da lui spedito appunto per attraversare loro la via. Ma il maresciallo ha pure un’altra missio [p. 139 modifica]ne: sostenere la destra del generalissimo. È ancora il presuntuoso sistema di voler raggiungere due scopi ad un tratto - con l’aggravante che questa volta il duplice ufficio non è assunto da Napoleone in persona, ma affidato a un povero di spirito come Grouchy! Soult, la sera innanzi, ha dimostrato la necessità di richiamarlo: il despota gli ha brutalmente ordinato di tacere, salvo a ricredersi, più tardi - troppo tardi.

E Grouchy non arriva, non arriverà, non potrà mai arrivare; e invece i Prussiani spuntano all’orizzonte mezz’ora dopo l’inizio della battaglia! Anche ora, nell’ora estrema, invece di tenere le sue forze indissolubilmente unite per disfare gl’Inglesi prima che i suoi alleati siano in linea, Napoleone si divide un’altra volta, manda contro il pericolo ancora lontano tutto il VI Corpo e due intere divisioni di cavalleria!

Qui spunta un altro enimma: l’impiego dell’artiglieria. Gl’Inglesi dispongono di 177 pezzi, Napoleone di 266: l’enorme vantaggio resta infruttuoso. È vero che il campo di battaglia è stato trasformato dal temporale della notte in una pozzanghera; ma il principio dell’attacco è ritardato sino alle undici e mezzo appunto per dar tempo al terreno di asciugarsi. Non è asciutto abbastanza? Ma allora come mai Wellington può far manovrare i suoi cannoni e Blücher farli arrivare da tanto lontano?... L’artiglieria può essere, è adoperata anche dai [p. 140 modifica]Francesi; male, però, insufficientemente, nè alle ore nè dalle posizioni opportune. Tutto un corpo d’esercito si logora contro la bicocca di Hougoumont presidiata da neanche due migliaia di nemici, quando qualche batteria ne avrebbe avuto rapidamente ragione. Espugnata a costo di sacrifizii enormi, l’altra fattoria della Haye-Sainte è difesa da batterie di cui le batterie inglesi spengono i fuochi. Napoleone, ufficiale d’artiglieria, vincitore di cento battaglie grazie al sapientissimo impiego dell’artiglieria, non se ne serve per guadagnare l’ultima posta!

Distrazione? Inquietudine? Smarrimento? Impotenza? No: parossismo dell’orgoglio presuntuoso, ancora e sempre. "Che bisogno ha dei cannoni? Non c’è che lui, il suo pensiero, il suo sogno, la sua illusione...."


VI.

Ora, spinta a tal segno, la tesi del Lenient, in buona parte evidente e plausibile, non persuade più. Una presunzione che si astrae talmente dalla realtà potrebbe essere segno di quelle amnesie, di quelle aberrazioni, di quella involuzione e degenerazione mentale che l’autore nega risolutamente.

Piace rammentare che egli stesso ha scritt [p. 141 modifica]o: "Nei problemi complicati bisogna diffidare delle soluzioni troppo semplici". Spiegare ogni cosa con l’accecamento dell’orgoglio è veramente una troppo grande semplificazione. In flagrante iattanza, da un’altra parte, non sorprendiamo anche Blücher quando scrive alla moglie: "Con i miei 120000 Prussiani assumerei di prender Tripoli, Tunisi e Algeri, se non ci fosse di mezzo il mare"? Blücher riuscì, Napoleone fu vinto; si dovrà giudicare sulla fede dell’esito?... Napoleone si divise dinanzi al nemico: ma non si divise anche Wellington, distaccando ad Hall 20000 uomini che vi restarono inerti, mentre egli poteva esser travolto a Mont-Saint-Jean? Non fu travolto: diremo che ebbe ragione? Chiameremo errore - dice Alberto Pollio - ciò che non riesce?...

L’errore proprio del Lenient consiste nell’aver voluto sciogliere tutti gli enimmi con una sola chiave. Il suo libro incatena l’attenzione del lettore anche digiuno di scienza militare, ma ansioso, oggi, di conoscere come si vince, avido di trovare nella lezione del passato la rivelazione dell’avvenire. Waterloo è l’effetto di un formidabile intrico di cause prossime e remote, particolari e generali, militari e politiche, fisiche e psichiche, materiali e morali. Quando si sono enumerate tutte, resta ancora il quid obscurum vittorughiano: quid obscurum, quid divinum. "Era possibile che Napoleone vincesse [p. 142 modifica]quella battaglia? Rispondiamo di no. Perchè? Per Wellington? Per Blücher? No. A cagione di Dio...." Questa è la soluzione del poeta. Il Lenient si duole perchè sul campo della pugna eternamente memorabile fu eretto "un modesto monumento di due o tre metri in onore della Grande Armée, e un’interminabile colonna alla gloria di Victor Hugo". Lasciamo il metro, inadatto a paragonare le altezze morali. I soldati diedero il sangue e la vita: il poeta, narrando ai secoli le loro gesta, proferì una grande parola.

8 gennaio 1916.