Al fronte/Davanti a Gorizia
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20 giugno.
Mentre annotta, un duello di artiglierie s’impegna. Si distinguono i colpi dei nostri cannoni da campagna, più avanti, più lontani, che si son fatti sotto come una gran muta abbaiante di molossi intorno alla fiera bloccata, mentre i boati più cupi degli obici echeggiano nelle vicinanze e il bagliore delle vampe si accende fra le vigne contornando neri profili d’alberi.
Forse si prepara un passo avanti sul Carso? Forse si respinge un contrattacco? Chi sa? Le fanterie nemiche sono in qualche punto a portata di voce. Nelle ore di silenzio, alla notte, i nostri soldati odono gli austriaci che parlano dietro ai loro parapetti di roccia, sulla quale le granate mordono così malamente.
Si combatte per la conquista di ciglioni nudi, sassosi, sui quali non si possono scavare trincee. La parola Carso viene dal celtico carn che significa roccia. La montagna, con le sue stratificazioni calcaree, con quelle ossature bianche che emergono fra i magri sterpi sulle piccole vette, con le sue vallette verdi, sorprendenti di rigoglio, strane conche di frescura entro bordi di pietra, con i suoi crepacci, le sue spelonche, e gl’imprevisti aspetti pieni di una tagliente arditezza, ricorda un po’ la montagna di Derna.
La natura offre alla difesa delle formidabili posizioni naturali, completate e fortificate con un assiduo lavoro. Il nemico si annida dietro baluardi di macigno, ai cui approcci si accumulano le difese ausiliarie delle focate petriere e dei reticolati. Se l’Austria ha creduto utile fingersi sorpresa dalla nostra guerra, tutto sul campo di battaglia smentisce la sorpresa, tutto vi dimostra invece una preparazione ben studiata, lunga e paziente. L’abilissima e laboriosa organizzazione tattica del terreno dice come la guerra con l’Italia fosse da gran tempo nei piani austriaci. Soltanto il momento rimaneva da scegliersi. E quello lo abbiamo scelto noi.
Se non avessimo che degli uomini armati contro di noi, se non ci fossero che delle masse manovranti, come nelle classiche guerre del passato, se il valore, l’ardimento, l’eroismo costituissero ancora i coefficienti massimi e quasi esclusivi della vittoria, noi non saremmo più sull’Isonzo.
Ma l’eroismo finisce pur sempre con l’imporsi. Esso è una volontà che arriva al furore. Una volontà che gli ostacoli esasperano e rafforzano. Le nostre truppe, avanti alle difficoltà, non hanno che un impulso, quello di slanciarsi.
Tutto ciò che abbiamo letto di più bello sulla guerra europea, di assalti audaci e veementi, di attacchi alla baionetta attraverso folti reticolati, in una grandine di piombo, non deve più farci invidia. Simili episodi si svolgono normalmente nella nostra guerra. Soldati che non erano mai stati al fuoco hanno trovato semplice e naturale andarci così.
Al primo urto l’esercito si è comportato come se avesse sempre combattuto e sempre vinto; ha dimostrato un istinto di battaglia, una sapienza spontanea della lotta, una natura guerriera. Possedeva inconsapevolmente virtù militari, che solo la pratica della guerra sembrava dovesse infondere. Gli egoismi naturali degl’individui sono scomparsi, la vita delle persone si è fusa in una vita più grande, ogni uomo si è sentito una molecola nel vasto organismo dell’esercito, una goccia d’acqua nell’onda. Vi è un ardore di tutti, un sentimento di tutti, una passione di tutti, un solo volere, un solo cuore. Si è destata subitamente nell’esercito nuovo l’anima antica, la fiera anima della razza foggiatasi nel fulgore lontano di secoli gloriosi. Vengono da lei queste abilità della guerra nella folla italiana. Questo travolgente desiderio di assalto è un’eredità latina, come la lingua.
I sistemi della guerra moderna e la natura del terreno ci costringono però ad un’azione paziente, fatta di scatti calcolati e di attese, di colpi improvvisi e di pressioni lente, un’azione studiata, razionale, metodica. Non abbiamo una posizione da prendere: ne abbiamo tante, incatenate su cinquecento chilometri di fronte. E per ognuna è una piccola battaglia, con le sue sorprese, le sue finte, le sue soste, le sue manovre.
Guardate una carta: l’austriaco avanti a noi è sempre più in alto. Egli tiene l’alta montagna, il nodo alpino, e noi saliamo i contrafforti, conquistando sprone per sprone, declivio per declivio, vetta per vetta. La nostra guerra è un’ascensione. Sempre più su, sempre più su. Ogni combattimento è un gradino che superiamo. Il gradino seguente domina. Il nemico fugge in altezza. Ritirandosi ci sovrasta. Ma che importa? Noi ascendiamo irresistibilmente.
Nel Carso il nostro attacco s’inerpica ora sulle prime pendici.
Il duello d’artiglierie prosegue.
I cannoni austriaci fanno delle salve serrate e poi tacciono. Forse hanno poche munizioni; forse temono di scoprirsi. Cambiano spesso il loro obbiettivo. Non fanno quasi mai un fuoco di ricerca, di assaggio, di esplorazione. Colpiscono raramente e con magri risultati, ma si vede bene che sanno sempre dove tirano e contro quale bersaglio. Non esitano. Cercano di agire a colpo sicuro. Segnali di spie? Abilità di osservatori?
Ma quando una batteria austriaca è individuata è una batteria silenziata. Un uragano di fuoco piomba su di lei. Allora dietro le spalle delle alture pare avvenga una breve eruzione. Certo è che i cannoni nemici sono astutamente piazzati. Sorge il dubbio che alcuni, dei quali neppure i riflessi della vampa si scorgono nell’oscurità della notte, siano nascosti in caverne.
La montagna è tutta grotte e baratri sotterranei. Ha labirinti immensi nelle sue viscere; pozzi, cunicoli, gallerie, spelonche, formano un meraviglioso e tenebroso paese di abissi. Vicino a Monfalcone stesso si spalancano antri misteriosi dai quali emana uno spavento leggendario, come la Grotta del Diavolo dove secondo la tradizione si muore di terrore. È possibile che dietro la bocca cespugliata di cavità naturali stiano dei cannoni in agguato, diretti dal comando telefonico di osservatori appiattali sulle vette? Lo sapremo.
Tutta la vallata echeggia. Su Ronchi, su Monfalcone, delle granate cadono. Le città sono deserte, gli abitanti sono fuggiti in massa verso l’Italia. Sull’arsenale si ergono ancora intatte le alte ciminiere, ma gli edifici sono in rovina. Il lavoro vi si è ostinato fino al giorno quattro.
I bombardamenti eseguiti dalla nostra flotta avevano già paralizzato il cantiere navale, ma v’era una fabbrica di proiettili di artiglieria, appena impiantata, che non voleva darsi per vinta. Gli austriaci non credevano che la nostra avanzata li sopraffacesse così presto. La loro perseveranza nel mantenere attivi alcuni stabilimenti di Monfalcone dice come si credessero sicuri della difesa dell’Isonzo e dà la misura del nostro successo. La guarnigione fu sorpresa dalle avanguardie italiane, e si salvò a stento inerpicandosi affannosamente oltre la Rocca, inseguita dai nostri che non volevano lasciar presa.
La città antica, al di là dell’arsenale, così italiana, così veneta con i suoi portici bassi, le sue procuratie dagli archi larghi come quelli di cripte, è vuota, silenziosa, oscura, e qua e là le vecchie case abbandonate, nelle risuonanti viuzze pittoresche, sono sfregiate dalle esplosioni che sforacchiano qualche tetto e ne soffiano via le tegole.
Per tutta la notte il cannone ha rombato. La più grande violenza delle artiglierie era verso Gorizia. Il cielo palpitava di lampi a settentrione.
All’alba, delle immense colonne di fumo si scorgono in fondo alla pianura. È il paese di Lucinico che brucia.
Entriamo ora in un’altra zona delle operazioni. Ci avviciniamo alla strada di Gorizia, cioè al centro della battaglia dell’Isonzo, dove più ferve intensa e vasta la lotta, dove gli austriaci hanno posto le più forti difese, le più possenti e numerose artiglierie, le più solide truppe.
Le posizioni nel loro insieme sono rapidamente descritte. L’Isonzo scorre in una gola profonda fino a Salcano, cioè quasi fino a Gorizia, e, da lì al mare, mentre alla destra del fiume si apre subitamente l’ampia distesa verde della pianura friulana, alla sua sinistra invece s’erge ancora, quasi senza interruzione, la montagna, ora a picco sull’Isonzo, come a Sagrado, ora discosta diversi chilometri come a Ronchi e Monfalcone. All’occhio, osservando il panorama, al di là del fiume appare tutta una barriera; c’è come una muraglia, che chiude l’orizzonte orientale, sfumando verso l’Adriatico. Le montagne formano per così dire i bastioni di una smisurata fortezza della quale l’Isonzo e il fossato. In qualunque punto del fiume, chi vuol passare si trova di fronte questo baluardo, più o meno accessibile, spesso altissimo, scosceso, imponente.
Formidabile e semplice, nella sua linea sommaria il piano di difesa austriaco e consistito nella distruzione dei ponti, e nella fortificazione della grande barriera montana con opere di ogni genere, con multiple linee di trinceramenti e con una distribuzione sagace di artiglierie ben nascoste.
Ma la barriera è spezzata, per dir così, da due valli, per le quali passano le comunicazioni verso l’interno. La muraglia ha insomma due porte, che danno accesso alle grandi arterie stradali e ferroviarie per Lubiana, per Villaco, per Klagenfurt, il possesso delle quali è essenziale. La conquista e la difesa delle due porte doveva perciò essere l’obbiettivo logico dell’azione; qui dovevano evidentemente convergere gli sforzi dei due eserciti. E alle due soglie gli austriaci hanno quindi accumulato tutte le difficoltà, tutti gli ostacoli, tutte le insidie che la loro scienza militare, perfezionata dalla lunga pratica, poteva suggerire.
Le due porte sono Tolmino e Gorizia.
A Tolmino per la vallata dell’Idria e a Gorizia per la vallata del Vipacco sboccano dunque nella valle dell’Isonzo fasci vitali di strade, che scavalcano il fiume su molteplici ponti. Questi sono i soli ponti che non siano stati ancora distrutti. È oramai un elemento d’arte militare noto anche ai ragazzi che per difendere efficacemente il varco di un fiume bisogna portarsi avanti, bisogna cioè occupare non soltanto la riva da proteggere ma prendere solidamente posizione sull’altra sponda, stabilire delle opere di arresto più lontane che sia possibile, tanto per impedire al nemico l’accesso al varco, quanto per garantire a sè stessi il libero uso del varco stesso e passare, occorrendo, dalla difensiva all’offensiva.
È appunto quello che a Tolmino e a Gorizia gli austriaci hanno fatto e che in termine tecnico si dice «testa di ponte». In questi due punti essi si sono radicati al di qua del fiume. La natura del terreno li ha straordinariamente aiutati. Allo sbocco della valle dell’Idria, al di qua dell’Isonzo, presso Tolmino, si ergono due montagne gemelle, unite per le falde, isolate in giro, cinte da tre lati da una curva sinuosa dell’Isonzo: una specie di gigantesca e dominante coppia di sentinelle a guardia di una soglia. Il loro nome è stato fatto sui bollettini: sono le montagne di Santa Maria e di Santa Lucia. Fortificate, munite di cannoni di grosso e di medio calibro, le due montagne comandano tutti gli accessi.
Con un’analoga prodigalità la natura ha eretto avanti a Gorizia, sulla destra dell’Isonzo, non meno formidabili baluardi nelle brusche alture di Podgora, alle quali si attacca un tumulto di colline, che si culmina, un poco al nord di Gorizia, nel monte Sabotino, fosco, oblungo, imponente. Tutto questo sistema di vette e di declivi è fortificato a oltranza.
Riducendo la difesa dell’Isonzo all’immagine rudimentale del muro con due porte, un solido muro crestato di vetro e due porte terribilmente barricate avanti alla soglia, comprendiamo chiaramente nel suo schema la nostra azione, così bene descritta dai bollettini. Mentre investiamo la porta principale, Gorizia, abbiamo scavalcato il muro alle due estremità, Caporetto e Monfalcone, e incuneiamo la nostra azione all’altra parte della barriera. A nord e a sud delle due teste di ponte austriache, abbiamo così creato noi due teste di ponte italiane, per le quali l’offensiva penetra e lentamente si allarga al di là dell’Isonzo.
Ed ora guardiamo.
Nella mattinata serena, la pianura superba, coperta da vegetazioni così folte che simulano il bosco, sfuma via e impallidisce, contro la luce del sole, in tinte evanescenti. Al primo momento la battaglia, come tutte le battaglie moderne, è invisibile, incomprensibile, un frastuono tonante, un formarsi e un dissolversi di fumo, un chiamarsi e rispondersi di rombi e di boati, uno scintillare vago di vampe in località imprecisabili. E tutto questo sembra poca cosa nell’impassibilità sublime del paesaggio.
A chi osserva dall’alto di una delle rare collinette che levano sulla pianura la molle groppa impellicciata di acacie, i villaggi, immersi nelle immobili onde delle verdure, si fanno riconoscere ad uno ad uno, per il campanile. Un campanile strano, con la cupoletta slava, che ricorda quello delle chiese russe: Romàns — più vicino, un campanile aguzzo, ardito, veneto: Versa — un campaniletto campestre che una granata ha sfiancato: Fratta. Sono tutti paesi che i cannoni austriaci hanno successivamente preso di mira. Gli abitati sorgono secondo una logica della viabilità, le case si aggruppano alle confluenze di strade, ogni villaggio chiude un piccolo centro di comunicazioni, e l’artiglieria nemica, colpendo i villaggi, ha cercato di colpire ai nodi le maglie della grande rete di vie che in ogni senso vena di bianco la pianura friulana.
Sotto alle alture che chiudono il piano, Gradisca si sgrana bianca lungo la sponda dell’Isonzo, che è indicata da un infoltire di verde, da uno schieramento solenne di pioppi. Dei giardini, delle ville, dei recinti, e, quasi fuori del paese, i grandi edifici della scuola normale, una caserma, degli stabilimenti industriali sui quali le ciminiere si levano sottili come antenne. Come tutto sembra quieto laggiù, nel sole!
Alla città fa sfondo il Monte San Michele, che è un’ultima propaggine del Carso, e più lontano, più in alto, irrompono, azzurre e pallide, le vette del Monte Re. Ai piedi delle alture, sul limite della pianura, come la spuma al bordo del mare, è un biancheggiare quasi continuo di paesi, greggi di case che si dissetano nell’Isonzo. Sdràussina, Sagrado, Fogliano, San Pietro, e sembra tutto un prolungamento di Gradisca. Sulle pendici, dei prati verdi, delle boscaglie oscure, delle strade deserte che serpeggiano ascendendo, delle trincee austriache abbandonate — lunghe e sottili ferite nere, insolentemente visibili. Sono probabilmente delle false trincee, incaricate di attirare la nostra attenzione. Le vere si nascondono, si mascherano con erbe e fronde.
S’incomincia a comprendere.
Le tappe della nostra avanzata sono segnate sulla pianura. Ogni sosta ha lasciato una linea fulva di terra smossa, un solco di trinceramenti dai parapetti punteggiati di feritoie, una barriera oscura che attraversa i prati, sparisce nei vigneti, tocca dei paesi, si nasconde, si perde. Il più vicino è il fronte sul torrente Versa, il fronte assunto il primo giorno della guerra, come i comunicati descrissero. Sono tutte abbandonate, quelle strane arginature della battaglia che hanno segnato sulla terra una specie di gigantesco diario della conquista, sono tutte lasciate indietro. La fanteria non si vede più, è laggiù a Gradisca, tiene quella linea di paesi, tocca il fiume, si annida nella boscaglia delle rive, pare scomparsa.
Nell’apparente solitudine luminosa del paesaggio, sono i proiettili di cannone che rivelano vagamente le disposizioni del combattimento, che lasciano intuire le masse combattenti sotto la coltre delle vegetazioni. Due o tre stormi di shrapnells austriaci scoppiano sulla pianura, un polverone di calcinacci annebbia per un istante un campanile, delle nubi bianche si formano sulle cime d’un filare di platani. Una pausa, poi altre nubi si sfilacciano lentamente nell’aria calda e quieta, e le esplosioni echeggiano. Ma da località imprecisabili si solleva un tumulto impetuoso di rimbombi. La risposta.
Sono obici italiani che interloquiscono, ed ecco le vette sopra Sagrado in convulsione. Se gli shrapnells austriaci ci hanno indicato dove stanno forse delle truppe nostre, sappiamo bene ora dove si nascondono i cannoni che li hanno lanciati. Le granate italiane tempestano le vicinanze di una villa circondata da boschetti, sul ciglio dell’altura. È Castello Nuovo. Nembi di polvere e di fumo la avvolgono; i boschetti scompaiono nelle dense nubi degli scoppi. La batteria austriaca non fiata più. È un episodio breve, repentino, minuscolo.
Altri si succedono, incessantemente; la nostra attenzione è chiamata da cento parti. Bisogna seguire le indicazioni del cannone. Esso spiega la battaglia, a poco, a poco. Su tutto il fronte l’artiglieria romba, ma la tempesta più violenta, più intensa, più ostinata, è verso Gorizia.
Oggi è uno di quei giorni che i bollettini chiamano di «attività sul basso Isonzo». Sono i giorni nei quali si fa un passo avanti. Intorno a Gorizia è l’uragano. La città, i sobborghi, le alture di Podgora, impallidiscono in una bruma grigiastra.
Gorizia si nasconde in parte dietro alle alture di Podgora, s’incastra fra le montagne, si annida in quell’ultimo lembo di pianura che s’insinua verso la gola dell’Isonzo. Da lontano, Gorizia, che spunta dalla valle allacciandosi nel piano, fa l’effetto di un torrente di case che dilaghi dallo sbocco e si spanda in un’effervescenza di muraglie bianche. I bordi della città presso l’Isonzo, dove delle linee di difesa austriaca si annidano, la stazione ferroviaria, le adiacenze dei ponti, sono bombardati. L’incendio di Lucinico si allarga. Lucinico era compreso nelle fortificazioni di Podgora e la popolazione l’aveva abbandonato.
Le fiamme si levano agitate, occhieggiano chiare nel tremolìo di un atmosfera ardente e fosca, e sulla folla velata e confusa degli edifici il fumo sale denso nella calma, altissimo. Gli scoppi delle grosse granate coprono di cirri le creste di Podgora. Nembi bianchi sorgono lentamente dalle vallette di tutto quel complesso sistema di alture che nasconde Gorizia. Sui fianchi violastri del Monte Sabotino, che solleva più lontano la sua lunga groppa, il fumo si arrampica in nubi che si dissolvono lente.
I nostri cannoni battono su tutti gli sbarramenti. La battaglia s’inerpica, va verso San Floriano, va verso Flava. Scende dal nord, dai monti, un boato continuo di cannoneggiamento remoto. Le esplosioni vicine hanno una violenza da folgore. L’attacco nostro, generale per l’artiglieria, non ha la pienezza delle grandi masse per la fanteria; non vuole averla; si comprende che ha qualche obiettivo parziale; ma su certe posizioni nemiche esso preme con magnifica violenza. Linee e linee di trincee avanzate sono state prese. Alcuni reparti, ricacciato il nemico, lo incalzano sulla seconda linea, che è la più forte. Si combatte ai bordi di Lucinico in fiamme, sotto alle buffate acri dell’incendio. Gorizia è là a due passi.
Con un entusiasmo ardente, con un eroismo sublime, delle fanterie nostre hanno saputo portarsi di fronte alle più formidabili opere campali di difesa, e sono là imperterrite, a qualche centinaio di metri dal nemico, nelle frettolose trincee d’attacco.