Aggiustare il mondo - Aaron Swartz/L'eredità/19. Legacy
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“Legacy” è il titolo di uno dei post più famosi – e articolati – di Aaron. Si tratta di un flusso di parole attraverso il quale il giovane s’interroga sul suo ruolo nel mondo e su ciò che vorrebbe lasciare all’umanità, prendendo ad esempio l’attività di altri studiosi e professionisti.
L’analisi di questo scritto giovanile – Aaron aveva appena compiuto diciannove anni – è il modo migliore per cercare di individuare, al termine di una vita così entusiasmante, problematica, affascinante e complessa, quale insegnamento si possa trarre, per nuove e vecchie generazioni, dal suo operato e per valutare l’attualità del suo pensiero a distanza di dieci anni dalla morte.
Le persone ambiziose – riflette preliminarmente Aaron – vogliono lasciare un’eredità. Ma che tipo di eredità vogliono lasciare? Il criterio tradizionale che viene adottato è che l’importanza di una persona si misuri in base alle conseguenze di ciò che fa. Questo è il motivo per cui, ad esempio, i giuristi considerati più importanti sono i giudici della Corte Suprema, dal momento che le loro decisioni sono in grado di influenzare l’intera nazione. I più grandi matematici sono coloro che fanno scoperte importanti, poiché le loro scoperte finiscono per essere utilizzate da molti altri matematici. Questo approccio mi sembra abbastanza ragionevole: l’eredità di una persona dipende dal suo impatto sul mondo e sugli altri, e quale modo migliore, per misurare, l’impatto se non valutare l’effetto di ciò che ha fatto una persona.
Aaron, però, non è completamente convinto di una simile affermazione. Sente la necessità di puntualizzarla ulteriormente, ribaltando la prospettiva ed esponendo alcuni casi storici a suo dire significativi. Per lui l’approccio alla vita deve essere di rottura. Tipico del mondo hacker è cercare sentieri non ancora battuti, elaborare teorie apparentemente assurde ma che, poi, si possono rivelare geniali. E nel suo ragionamento si trova, esattamente, questo modo di procedere.
Ma adottare questo approccio – continua – significa, anche, ragionare muovendo da una base sbagliata. La vera domanda, allora, non dovrebbe essere “quale effetto abbia avuto il vostro lavoro”, ma “come sarebbero le cose se non l’aveste mai fatto”. Le due prospettive non coincidono affatto. È, piuttosto, comunemente accettato come ci siano “idee il cui tempo è giunto”, e la storia tende a confermarlo. Quando Newton inventò il calcolo, lo fece anche Leibniz. Quando Darwin scoprì l’evoluzione attraverso la selezione naturale, lo fece anche Alfred Russel Wallace. Quando Alexander Graham Bell inventò il telefono, lo fece anche Elisha Gray, probabilmente prima di lui. In tutti questi casi, i fatti sono evidenti: se Newton, Darwin e Bell non avessero mai svolto il loro lavoro, il risultato sarebbe stato, sostanzialmente, lo stesso: avremmo egualmente il calcolo, le teorie evolutive e il telefono. Eppure, queste persone sono acclamate come grandi eroi, e le loro eredità considerate immortali. Forse, se ci si interessa solo di queste cose, ciò è sufficiente. Ma se ci si preoccupa veramente del loro impatto – anziché, semplicemente, di come viene percepito – è necessaria una riflessione più attenta.
Riflettendo più in profondità, il ragazzo nota come le professioni correlate alle scienze siano quelle che, da anni, trova più interessanti. Ma critica apertamente tutti quegli scienziati che seguono linee di ricerca perché sono “di moda”, attirano maggiore attenzione – e fondi – e agevolano, quindi, la possibilità di fare scoperte importanti.
Una volta – ricorda Aaron – passai del tempo con un noto accademico che aveva pubblicato diverse opere, ampiamente riconosciute come classici anche al di fuori del suo campo; mi diede alcuni consigli per intraprendere una carriera nel mondo delle scienze. Diceva, in particolare: «Questo, o quel campo, è molto caldo in questo momento; potresti davvero farti un nome entrandoci». L’idea era che le scoperte più importanti sarebbero state fatte, di lì a poco, proprio in quell’ambito, e che se avessi scelto quel campo, avrei potuto essere proprio io a farle. Secondo il mio modo di pensare, però, una cosa del genere lascerebbe una pessima eredità all’umanità. Presumibilmente, Darwin e Newton non hanno iniziato le loro ricerche perché pensavano che il loro campo di ricerca fosse “caldo”. Pensavano che, operando in quel modo, avrebbero avuto un impatto significativo, anche se questo, poi, si è rivelato sbagliato. Ma chi si unisse a un campo di ricerca semplicemente col pensiero che da esso potrebbe derivare, presto, una scoperta importante, non potrebbe mai godere di una simile prospettiva.
La figura del giudice della Corte Suprema, nel pensiero e nello scritto di Aaron, è uno dei ruoli apicali che meglio si presta per motivare questo suo pensiero su professioni ed eredità. Ma, anche, qui, il suo ragionamento prende strade originali. Per fare bene il giudice quando sarai giudice – osserva – ti devi “comportare male prima”, altrimenti sarai un magistrato senza alcun impatto sulla società e che semplicemente seguirà la politica del Presidente che lo ha nominato.
Lo stesso – sostiene Aaron – vale per altre professioni che consideriamo, erroneamente, importanti. Prendiamo, ad esempio, il ruolo di giudice della Corte Suprema. Tradizionalmente, si pensa che questo sia un lavoro importantissimo, in cui si prendono decisioni di grande rilevanza. In realtà, mi sembra che i giudici abbiano un impatto minimo: la maggior parte dell’impatto è già stata determinata dalla politica del Presidente che li ha nominati. Se non ci fosse stato quel giudice, il Presidente avrebbe trovato qualcun altro che avrebbe immediatamente assunto posizioni simili. L’unico modo per avere un vero impatto sulla società, come giudice della Corte Suprema, sarebbe quello di cambiare la propria politica una volta nominati; e l’unico modo per prepararsi a questo sarebbe quello di passare la maggior parte della propria carriera a fare cose ritenute sbagliate, nella speranza che, un giorno, si possa essere scelti per far parte della Corte Suprema. Sembra, questa, una cosa piuttosto difficile da ammettere.
L’unico lavoro che, veramente, lascia un segno e prepara un’eredità preziosa è quello che rompe le regole e che aiuta a cambiare il mondo e a migliorare la società.
Quali sono i lavori – conclude allora Aaron – che lasciano una vera eredità? È difficile pensare alla maggior parte di essi, poiché, per loro stessa natura richiedono di fare cose che gli altri non cercano di fare e, quindi, includono le attività a cui la gente non ha ancora pensato. Ma una buona idea può essere il tentativo di fare cose che cambino il sistema, invece di seguirlo. Per esempio, il sistema universitario incoraggia le persone a diventare professori che fanno ricerca in determinate aree e, quindi, molte persone lo fanno, mentre scoraggia le persone dal cercare di cambiare la natura dell’università stessa. Naturalmente, fare cose per cambiare l’università è molto più difficile che diventare semplicemente un altro professore. Ma per chi ha veramente a cuore il proprio lascito, non sembra esserci molta scelta.
Il primo consiglio che Aaron lascia, riflettendo anche sulla sua persona e sul suo ruolo nel mondo, è, in conclusione, quello di fare tutto ciò che gli altri non cercano di fare.
Suggerisce di cambiare il sistema, e non di seguirlo; di cambiare l’università e la sua natura, e non di limitarsi a fare i professori. Di fare il giudice riformista e indipendente dalla politica.
Aaron è consapevole della difficoltà, e dei rischi, di un modo di agire simile in ambito lavorativo, ma è convinto che questo sia l’unico modo giusto di “stare nel mondo”.
In un secondo post, correlato alla preparazione di una relazione da presentare a una conferenza, Aaron si ritrovò a elaborare una serie di consigli per chiunque fosse interessato a cercare un lavoro “simile al suo”.
Divise questo percorso ideale – anche di crescita, e motivazionale – in specifici passaggi, e ricostruì con cura tutto ciò che aveva fatto sino a quel momento, con l’idea che la descrizione di un simile iter sarebbe potuta servire a ispirare anche altre persone.
Si tratta di una testimonianza molto interessante, che vale la pena di riportare – e commentare – (quasi) integralmente. Non è solo, infatti, un breve “diario” della sua vita, ma contiene, anche, uno sguardo disincantato sulla società tecnologica che si è visto costretto ad attraversare negli anni.
Lo scrittore americano Kurt Vonnegut – esordisce Aaron – intitolava sempre i suoi discorsi “Come ottenere un lavoro come il mio” e, poi, parlava di tutto ciò che gli passava per la mente. Io mi trovo in una situazione opposta. Mi è stato detto che avrei potuto parlare di ciò che volevo e invece di pontificare come al solito, per un po’, sul futuro di Internet, o sul potere della attività collaborativa di massa in rete, ho pensato che la cosa più interessante di cui potessi parlare fosse “Come trovare un lavoro come il mio”
L’incipit del post ha un tono ironico; Aaron ne approfitta, però, per ricordare l’infanzia a Highland Park, in mezzo al verde.
Come ho fatto a trovare un lavoro come il mio? – scherza, in primis, Aaron – Senza dubbio, il primo passo sarebbe quello di potersi scegliere i geni giusti: sono nato bianco, maschio, americano. La mia famiglia era benestante, e mio padre lavorava nell’industria informatica. Purtroppo, non conosco alcun modo per poter scegliere in anticipo queste caratteristiche quindi, probabilmente, questo primo consiglio non vi sarà di grande aiuto. D’altra parte, quando ho iniziato ero un ragazzo molto giovane, bloccato in una piccola città in mezzo alla campagna. Quindi ho dovuto elaborare dei trucchi per uscire da quella situazione. Nella speranza di rendere la vita un po’ meno ingiusta, ho pensato di condividerli con voi.
Il primo “trucco” che Aaron condivide con l’uditorio è legato alla sua incessante voglia di imparare, di leggere, di conoscere, di elaborare informazioni. Da questa prima parte traspare, naturalmente, tutto il suo amore per i libri, per la conoscenza e per i contenuti. E ogni sua attività doveva avere un esito naturale in quella rete che, allora, stava esplodendo: l’unico modo concreto che Aaron vedeva per rendere tutto pubblico.
La prima cosa che ho fatto – ricorda Aaron – e che, presumibilmente, tutti voi avrete già intuito, è stata quella di imparare a conoscere i computer, Internet e la cultura di Internet. Ho letto un mucchio di libri, ho letto un numero enorme di pagine web e ho fatto tanti tentativi. Per prima cosa, mi sono iscritto alle mailing list e ho cercato di capire e interpretare le discussioni, fino a quando non mi sentivo a mio agio nel partecipare al dibattito in prima persona. Poi, ho studiato i siti web e ho cercato di costruirne uno mio. Infine, ho imparato a costruire applicazioni web e ho iniziato a farlo. Avevo tredici anni.
Il secondo trucco, suggerisce agli ascoltatori, è quello di provare sempre. Di fare, e mettersi alla prova, in ogni momento. È la tipica filosofia americana del just do it, di avviare decine di progetti senza pensarci troppo. Alcuni moriranno, altri si riveleranno sbagliati, altri, ancora, saranno abbandonati, ma qualcuno rimarrà.
Il primo sito web che ho costruito – nota il giovane – si chiamava “get.info”. L’idea alla base di quel progetto era quella di offrire un’enciclopedia online gratuita che chiunque potesse modificare, integrare di contenuti o riorganizzare, direttamente dal proprio browser web. Ho costruito il tutto, ho aggiunto molte funzioni interessanti, l’ho testato su tutti i tipi di browser e ne ero, obiettivamente, molto orgoglioso. In realtà, vinse anche un premio come una delle migliori nuove - applicazioni web di quell’anno. Purtroppo, però, le uniche persone che conoscevo all’epoca erano altri ragazzi della mia scuola, quindi non avevo nessuno attorno che potesse editare un sufficiente quantitativo di voci, e articoli, per quella enciclopedia. Fortunatamente, diversi anni dopo, mia madre mi segnalò un nuovo sito chiamato “Wikipedia” che si proponeva di fare la stessa cosa. Il secondo sito che ho costruito si chiamava “my.info”. L’idea era che, invece di dover andare su Internet per trovare notizie da ogni tipo di pagine web diverse, ci fosse un unico programma che andasse a estrarre le notizie da tutte quelle pagine web e le collocasse in un unico posto. Lo progettai, e programmai, e lo feci funzionare, ma si scoprì che, all’epoca, non ero l’unico ad avere questa idea: molte persone stavano lavorando a questa nuova tecnica, allora chiamata “syndication”. Un gruppo di loro si divise, e decise di lavorare a un progetto, per raggiungere questo stesso obiettivo, denominato RSS 1.0. E io mi unii a loro.
Il suo terzo trucco, rammenta, fu quello di intrufolarsi in contesti dove i migliori scienziati stavano discutendo di questioni importanti, e di contribuire attivamente a tali scoperte mettendo a frutto, e “regalando”, le sue competenze. Qui emerge l’importanza, nel suo pensiero, della cooperazione tra studiosi: l’unico modo per creare cose grandi è quello di unire le forze.
Era estate, avevo finito la scuola – scrive nel post – e non avevo un lavoro, quindi, avevo molto tempo libero a disposizione. Lo trascorsi leggendo, in maniera quasi ossessiva, i messaggi che circolavano sulla mailing list RSS 1.0, facendo ogni sorta di lavoretto di programmazione e qualsiasi altra cosa di cui avessero bisogno. Ben presto mi chiesero se volessi diventare un membro del gruppo, e finii per diventare co-autore e, poi, co-editor delle specifiche RSS 1.0. L’RSS 1.0 è stato costruito sulla base di una tecnologia chiamata RDF, che è stata fonte di accesi dibattiti nelle liste RSS. Questo fu il motivo per cui iniziai a studiare meglio l’RDF, a iscrivermi alle mailing list su RDF, a leggere cose, a fare domande stupide e a iniziare, lentamente, a comprendere bene tutte le nozioni. Ben presto mi sono fatto conoscere nel mondo dello sviluppo RDF e quando hanno annunciato un nuovo gruppo di lavoro per sviluppare la successiva specifica RDF, ho deciso di intrufolarmi anche in quello.
Per entrare nel gruppo, Aaron dovette elaborare una strategia ben precisa, dal momento che le regole d’ingresso erano particolarmente rigide e lui era poco più che un bambino. Questo fu un momento in cui, in un certo senso, iniziò ad agire da hacker: individuò un problema e cercò la strategia più efficace e creativa per risolverlo o, almeno, aggirarlo. Lui voleva entrare nel gruppo, le regole apparentemente glielo impedivano, ma il richiamo per quel lavoro era troppo forte, e doveva trovare un modo per aggirare quelle regole o per piegarle a suo vantaggio. Doveva essere, in un certo senso, creativo.
Per prima cosa – racconta – domandai ai membri del gruppo di lavoro se potessi partecipare alle attività. Mi dissero di no. Ma io volevo davvero far parte di quel gruppo di lavoro, così ho cercato di trovare un altro modo. Ho letto le regole alla base del consorzio W3C, l’ente di standardizzazione che gestiva il gruppo di lavoro. Le regole stabilivano che, pur potendo rifiutare qualsiasi richiesta di adesione da parte di un individuo, se un’organizzazione che era membro ufficiale del W3C avesse domandato di inserire qualcuno nel gruppo di lavoro, non si poteva dire di no. Così ho curiosato nell’elenco dei membri del W3C, ho trovato il membro che mi sembrava più disponibile e gli ho chiesto di inserirmi nel gruppo di lavoro. E lo fecero. Essere un membro del gruppo di lavoro significava partecipare a riunioni telefoniche settimanalmente con tutti gli altri membri, discutere in mailing list e su IRC, volare occasionalmente in città sconosciute per incontrarsi di persona e conoscere, in generale, molti individui. Ero anche un convinto sostenitore di RDF, quindi ho lavorato duramente per convincere altre persone ad adottare quello standard. Quando venni a sapere che il professor Lawrence Lessig stava fondando una nuova organizzazione, chiamata Creative Commons, gli inviai un’e-mail dicendogli che avrebbe dovuto assolutamente usare RDF per il suo progetto e spiegandogli perché. Qualche giorno dopo mi ha risposto dicendo: «Buona idea. Perché non lo fai per noi?». Così finii per entrare a far parte del team di Creative Commons, cosa che mi consentì di partecipare a bellissime conferenze, feste e meeting dove finii per incontrare ancora più persone. Mettendo insieme tutte queste cose, la gente cominciava a sapere chi fossi, e io cominciavo ad avere amici in molti luoghi e a sviluppare campi di conoscenza diversi.
Una volta che Aaron si creò la sua rete, e cominciò a essere noto per le sue competenze tecniche, venne per lui il momento di costruire. E l’ingresso nell’età adulta, dove bisognava produrre, fu quello per lui più traumatico. L’esperienza di Reddit, in particolare, lo inserì in un ambiente di lavoro completamente nuovo per lui.
Poi – continua – ho lasciato tutto e sono andato al college per un anno. Ho frequentato l’Università di Stanford: una istituzione idilliaca in California dove il sole splende sempre, l’erba è verde e i ragazzi sono sempre all’esterno delle aule ad abbronzarsi. Ci sono ottimi professori e, sicuramente, ho imparato molto; non ho trovato, però, un’atmosfera molto ‘intellettuale’, dato che la maggior parte degli altri ragazzi sembrava profondamente disinteressata allo studio. Verso la fine dell’anno, ricevetti un’e-mail da uno scrittore di nome Paul Graham che mi disse che stava avviando un nuovo progetto, Y Combinator. L’idea alla base di Y Combinator era quella di trovare un gruppo di programmatori molto intelligenti, portarli a Boston per l’estate e dare loro un po’ di soldi, e i documenti, per avviare un’azienda. Mentre i programmatori lavorano sodo per costruire qualcosa, i manager insegnano loro tutto quello che c’è da sapere sul mondo degli affari e li mettono in contatto con investitori e acquirenti. Paul mi ha suggerito di fare domanda, l’ho fatto, sono stato ammesso e, dopo molte sofferenze, fatiche e lotte, mi sono ritrovato a lavorare su un piccolo sito chiamato Reddit.com. La prima cosa da sapere su Reddit è che non avevamo la minima idea di cosa stessimo facendo. Non avevamo alcuna esperienza di business, non avevamo quasi nessuna esperienza reale nella creazione di software di produzione e non avevamo idea se, o perché, quello che stavamo facendo avrebbe funzionato. Ogni mattina ci svegliavamo e ci assicuravamo che il server non fosse fuori uso, che il nostro sito web non fosse stato attaccato dagli spammer e che tutti i nostri utenti non se ne fossero andati. Quando ho iniziato a lavorare a Reddit, la crescita è stata lenta. Il sito è stato messo online molto presto, poche settimane dopo aver iniziato a lavorarci, ma per i primi tre mesi non ha superato i tremila visitatori al giorno, che è più o meno la soglia di riferimento per un feed RSS che sia realmente utile. Poi, in un paio di settimane di maratone di coding, abbiamo migrato il sito da Lisp a Python, e ho scritto un articolo al riguardo per il mio blog. La cosa suscitò molta attenzione e ancora oggi, alle feste, incontro persone che, quando dico che lavoravo a Reddit, dicono «Oh, quel sito che era in Lisp».
Questa volontà di costruire qualcosa diede, poco dopo, i suoi frutti. E il sito su cui stavano lavorando improvvisamente divenne un punto di riferimento mondiale. Ma l’ambiente che si era creato attorno a quel progetto enorme non faceva più per Aaron. Anche se ricorda gli inizi, il periodo dell’innocenza, delle “poche” migliaia di utenti e del merchandising delle magliette, con percepibile nostalgia.
In quel periodo – ricorda Aaron – il traffico del sito web iniziò a decollare. Nei tre mesi successivi, il nostro traffico raddoppiò per ben due volte. Ogni mattina ci svegliavamo per controllare i grafici del traffico e per vedere come stessimo andando: se la nuova funzione che avevamo lanciato ci avesse garantito più visite, se il passaparola funzionasse, per diffondere la conoscenza dell’esistenza del nostro sito, se tutti i nostri utenti ci avessero già abbandonati. E, ogni giorno, i numeri aumentavano. Anche se non riuscivamo a toglierci di dosso l’impressione che sembravamo crescere più velocemente ogni volta che ci prendevamo una pausa dal lavoro effettivo sul sito. Non avevamo ancora idea di come fare soldi. Vendevamo magliette sul sito, ma ogni volta che guadagnavamo un po’ di soldi, li spendevamo per ordinare altre magliette. Abbiamo firmato un contratto con un importante rappresentante di annunci sul web per vendere annunci sul nostro sito, ma sembra che non siano mai riusciti a vendere annunci per noi e raramente abbiamo guadagnato più di, letteralmente, un paio di dollari al mese. Un’altra idea che abbiamo avuto è stata quella di concedere in licenza la “tecnologia Reddit”, per permettere ad altre persone di costruire siti che funzionassero come Reddit. Ma non riuscimmo a trovare nessuno che volesse acquistarci la licenza.
Reddit fu un progetto, lasciato in eredità da Aaron e dai suoi partner di allora, che si rivelò un fenomeno commerciale incredibile, non solo per il tasso di crescita ma, anche, come testimonianza dell’imprevedibilità alla base della net economy e di possibili successi, o fiaschi, sempre dietro l’angolo. Generò tantissimo valore, e fu subito acquisito da un gigante dei media.
Ben presto – scrive Aaron – Reddit ha raggiunto milioni di utenti al mese: un numero di gran lunga superiore alla media degli abbonati e lettori delle riviste americane. Questo lo so perché, all’epoca, dialogavo con molti editori di riviste. Tutti si domandavano come la magia alla base di Reddit potesse funzionare anche per loro, per il loro mercato. All’inizio abbiamo detto di sì a tutto ciò che ci suggerivano e, fortunatamente per noi, la cosa ha funzionato, dal momento che riuscivamo a programmare più velocemente di quanto loro potessero elaborare un contratto ufficiale dove ci domandavano ciò che volevano. Inoltre, i siti di notizie online hanno iniziato a notare come Reddit potesse dirottare verso di loro grandi quantità di traffico web. In qualche modo, pensavano di poterlo incoraggiare aggiungendo i link “reddit this” a tutti i loro articoli. Per quanto ne so, l’aggiunta di tali link non aumenta le possibilità di essere popolari su Reddit (anche se rende il sito più brutto), ma ci ha fornito molta pubblicità gratuita.
La fase finale della crescita di Reddit fu, come noto, la vendita del progetto. Aaron abbandonò, in un certo senso, la sua creatura dopo aver sofferto non poco il cambio di vita, e di luogo di lavoro, che aveva comportato l’ingresso – per lui traumatico – nella net economy. Ricevette, però, un’enorme somma di denaro. Non rivelò mai, pubblicamente, quanto, quasi come se si vergognasse di questa operazione commerciale.
Ben presto i discorsi di partnership si trasformarono in discorsi di acquisizione – scrive Aaron nel post – Acquisizione: la cosa che avevamo sempre sognato! Non avremmo più dovuto preoccuparci di fare soldi: un’altra società si sarebbe assunta questa responsabilità, in cambio della possibilità, per noi, di arricchirci. Abbiamo abbandonato tutto il lavoro di coding, allora, per negoziare con i nostri acquirenti e, poi, è rimasto tutto fermo. Abbiamo negoziato per mesi. Prima abbiamo discusso sul prezzo. Preparammo piani e fogli di calcolo, ci recammo presso la sede centrale per fare presentazioni, facemmo riunioni e telefonate interminabili. Alla fine, hanno rifiutato la nostra offerta, e ce ne siamo andati. Poi hanno cambiato idea e, finalmente, ci siamo stretti la mano e abbiamo concordato le condizioni per, poi, iniziare a negoziare su qualche altro punto chiave e allontanarci di nuovo. Ci saremo allontanati almeno tre o quattro volte prima di ottenere un contratto accettabile. Smettemmo di lavorare davvero, almeno per sei mesi. E io iniziai a impazzire per il fatto di dover pensare così tanto, e continuamente, ai soldi. Abbiamo iniziato tutti a essere molto tesi per lo stress e per la mancanza di produttività nel lavoro. Abbiamo iniziato ad aggredirci, a non parlarci e a rinnovare gli sforzi per lavorare insieme per poi, inevitabilmente, ricominciare a urlare. L’azienda è quasi crollata prima che l’accordo venisse concluso. Ma, alla fine, andammo negli uffici dei nostri avvocati per firmare tutti i documenti, e la mattina dopo il denaro era nei nostri conti bancari. Era fatta. Volammo tutti a San Francisco, e iniziammo a lavorare negli uffici di Wired News (eravamo stati acquistati da Condé Nast, una grande casa editrice che possiede Wired, insieme a molte altre riviste). Ero infelice. Non sopportavo San Francisco. Non sopportavo la vita d’ufficio. Non sopportavo Wired. Mi presi una lunga vacanza di Natale. Mi ammalai. Ho pensato al suicidio. Sono scappato dalla polizia. E quando sono tornato il lunedì mattina, mi è stato chiesto di dimettermi.
Dopo il periodo di crisi, ricorda Aaron, venne però il momento di godersi la libertà. Questo trauma, durato diversi mesi, aveva generato qualcosa di buono e gli aveva aperto nuove prospettive su ciò che voleva realmente fare nella vita. Anche per tutelare la sua salute. Nella parte centrale del post, in particolare, il ragazzo cerca di rassicurare gli ascoltatori alla conferenza sul fatto che quel suo brutto passaggio nella luccicante Silicon Valley fosse stato, comunque, per lui necessario. Si rivelò indispensabile per comprendere chiaramente che cosa volesse fare nella sua vita. Da lì in avanti, infatti, iniziò con un flusso interminabile di idee e di progetti. E nelle righe che seguono si noterà, proprio, questo affastellarsi di contatti, persone, progetti iniziati e abbandonati e altri, invece, portati avanti con successo: un quadro che descrive egregiamente, con le sue stesse parole, come sarà la sua vita, e come si connoteranno le sue giornate, di lì in poi.
I primi giorni senza un lavoro sono stati strani – rammenta – Sono rimasto in casa. Ho approfittato del sole di San Francisco. Ho letto qualche libro. Ma, presto, ho sentito che avevo di nuovo bisogno di partire con un progetto. Ho iniziato a scrivere un libro. Volevo raccogliere tutti gli studi interessanti che avevo trovato nel campo della psicologia e raccontarli non come risultati di ricerche ma come storie. Ogni giorno andavo a Stanford per fare ricerche nella loro biblioteca (Stanford è un’ottima scuola per psicologi). Ma, un giorno, ricevetti una telefonata da Brewster Kahle. Brewster aveva fondato Internet Archive, un’incredibile organizzazione che cerca di digitalizzare tutto ciò su cui riesce a mettere le mani e, poi, di metterlo in rete. Mi disse che voleva iniziare un progetto di cui avevamo parlato in passato. L’idea era quella di raccogliere informazioni su tutti i libri del mondo in un unico luogo, un wiki gratuito. Mi misi subito al lavoro e, nei due mesi successivi, iniziai a telefonare alle biblioteche, a coinvolgere programmatori, a lavorare con un designer e a fare ogni sorta di altri lavori strani per mettere online il sito. Quel progetto ha finito per diventare Open Library e una versione dimostrativa è ora disponibile su “demo.openlibrary.org”. Gran parte del progetto è stato realizzato da un programmatore indiano di grande talento: Anand Chitipothu. Un altro amico, Seth Roberts, ci ha suggerito di trovare un modo per riformare il sistema di istruzione superiore. Non siamo riusciti a trovare una soluzione valida, ma ci siamo trovati d’accordo su un’altra buona idea: un wiki per raccontare agli studenti come sono i diversi lavori nella nostra società. Il sito dovrebbe essere lanciato a breve. Poi un altro vecchio amico, Simon Carstensen, mi ha mandato un’e-mail dicendomi che si stava laureando e che voleva fondare un’azienda con me. Avevo conservato una lista di aziende che ritenevo avessero delle buone idee, e ho estratto la prima dalla lista. L’idea era questa: rendere la costruzione di un sito web facile come l’operazione di riempire una casella di testo. Nei mesi successivi abbiamo lavorato alacremente per rendere le cose sempre più semplici (e anche un po’ più complesse). Il risultato, lanciato un paio di settimane fa, è “Jottit.com”. Mi sono anche iscritto, come mentore, a due progetti della Summer of Code, entrambi straordinariamente ambiziosi e che, con un po’ di fortuna, dovrebbero essere lanciati a breve. Ho anche deciso di dedicarmi al giornalismo. La scorsa settimana è stato pubblicato il mio primo articolo su carta stampata. Ho anche aperto un paio di blog sulla scienza, e ho iniziato a lavorare a un mio articolo accademico. Si basa su uno studio che ho fatto qualche tempo fa su chi ha scritto Wikipedia. Alcune persone, tra cui Jimmy Wales, il portavoce pubblico di Wikipedia, sostenevano che Wikipedia non fosse poi un progetto così grande e distribuito, ma che fosse, invece, scritto solo da circa 500 persone, molte delle quali da lui conosciute. Aveva presentato alcuni semplici studi a sostegno di questa affermazione, ma io ho analizzato i numeri con più attenzione e ho scoperto il contrario: la stragrande maggioranza di Wikipedia è stata creata da nuovi redattori, per lo più persone che non si sono nemmeno preoccupate di creare un account, aggiungendo un paio di frasi qua e là. Come ha fatto Wales a commettere un errore così grande? Ha esaminato il numero di modifiche apportate a Wikipedia da ciascun utente, ma non ha considerato l’entità delle modifiche. È emerso come vi sia un gruppo di 500 persone che apporta un numero enorme di modifiche a Wikipedia, ma tutte le loro modifiche sono minime: eseguono operazioni come correggere l’ortografia e cambiare la formattazione. Sembra molto più ragionevole credere che 500 persone abbiano modificato gran parte di un’enciclopedia piuttosto che pensare che l’abbiano scritta loro.
La parte finale del post, dopo che Aaron ha descritto il suo percorso fino a quel momento, è riservata ad alcuni consigli. La parola che più ricorre, inevitabilmente, è curiosità. Un’idea di curiosità legata a doppio filo al mondo dei primi hacker.
Qual è il segreto? Come posso riassumere le cose che faccio in frasi sintetiche che mi facciano sembrare il più bravo possibile? – conclude Aaron – Ecco: siate curiosi. Leggete molto. Provate cose nuove. Credo che molto di ciò che la gente chiama intelligenza si riduca alla curiosità. Dite di sì a tutto. Ho molti problemi a dire di no, quasi in misura patologica, sia a progetti che a colloqui, o ad amici. Di conseguenza, faccio molti tentativi, e anche se la maggior parte di essi fallisce, ho comunque fatto qualcosa. Supponiamo che anche gli altri non abbiano idea di quello che stanno facendo. Molte persone si rifiutano di provare a fare qualcosa perché ritengono di non saperne abbastanza o, perché, pensano che gli altri abbiano già provato tutto quello che è venuto loro in mente. In realtà, sono poche le persone che hanno idea di come fare le cose nel modo giusto e, ancora meno, quelle che vogliono provare cose nuove. Quindi, di solito, se si fa del proprio meglio in qualcosa, si riesce a farlo abbastanza bene. Ho seguito queste regole. Ed eccomi qui, oggi, con una dozzina di progetti in ballo e un livello di stress ancora una volta alle stelle. Ogni mattina mi sveglio e controllo la mia e-mail per vedere quale dei miei progetti sia imploso oggi, quali scadenze siano in ritardo, quali discorsi debba scrivere e quali articoli debba modificare. Forse, un giorno, anche voi potrete trovarvi nella stessa situazione. Se è così, spero di aver fatto qualcosa per aiutarvi.
A parte l’idea di curiosità, di partire con nuovi progetti, di creare relazioni con le persone, di vivere diverse vite cambiando improvvisamente lavoro e interessi, Aaron era anche pienamente integrato nella cultura americana di quell’epoca che suggeriva di provare e di non aver timore per un eventuale fallimento.
L’imprenditoria di quegli anni non stigmatizzava i fallimenti e le crisi delle startup, ma consentiva ai più giovani di provare, appunto, senza conseguenze. Era cosa normale, per un giovane di allora, fallire una o due volte per poi, però, avere successo. E anche i finanziatori, e gli incubatori di startup e progetti, erano ben consapevoli di quel fatto.
Fu questo approccio che diede il via all’economia della Silicon Valley di quegli anni; e questo stesso ambiente fu quello, abbiamo visto, che fece cambiare vita ad Aaron dopo averlo portato sulla soglia di un esaurimento nervoso.