Aggiustare il mondo - Aaron Swartz/L'eredità/20. Su Aaron Swartz
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Aaron, nella sua breve vita, ha scritto tantissimo e tanti scritti parlano di lui. La scrittura era la sua passione, e non solo la scrittura di codice; per di più, aveva spesso confessato di voler fare professionalmente lo scrittore e il giornalista. Si era appassionato, tra gli altri, alle opere, e alla vita, di David Foster Wallace.
Accanto ai suoi scritti, furono caricati sul web, dopo la sua morte, decine di interviste, documentari, film, commemorazioni, articoli, libri e commenti che ancora oggi, ciclicamente, sono proposti come materiale prezioso per celebrare le sue azioni e la sua opera.
I familiari e gli amici hanno fatto il possibile per mantenere online i post del suo blog e il suo sito web – probabilmente la fonte più interessante per ripercorrere i momenti salienti della sua vita e della sua formazione culturale –, così come sono rimaste le sue “tracce” sui siti dove creava e pubblicava codice e nei progetti che aveva avviato.
Un incidente al suo server fece sparire i suoi post più risalenti, ma alcuni volontari, con molta pazienza, li hanno recuperati e rimessi in linea. Oggi, pertanto, possiamo analizzare gli scritti di Aaron sin dal suo primo post (il classico “Hello, World”, apparso in rete il 13 gennaio 2002).
Gran parte delle cose che ha fatto, e scritto, a partire dai suoi 12 anni sono rimaste, per così dire, pubbliche, e siamo in possesso, quindi, di un ottimo punto di partenza per chi volesse ricostruire la sua vita e i multiformi aspetti del suo carattere.
Per chi fosse appassionato di film e documentari, l’iniziativa probabilmente più celebre – e riuscita – per ricordarlo ha preso la forma di una pellicola del 2014. Il titolo è molto suggestivo – The Internet’s Own Boy, “il ragazzo/figlio di Internet” – e il video è reperibile liberamente sui maggiori canali e piattaforme di streaming.
Il regista dietro quest’opera si chiama Brian Knappenberger. L’approccio è molto critico nei confronti del sistema che ha, per molti versi, contribuito alla morte di Aaron. Al contempo, elenca gli spunti che Aaron ha lasciato alle generazioni future per costruire un mondo migliore.
Già la scelta importante del regista di iniziare la pellicola con una frase di Henry David Thoreau – «Esistono delle leggi ingiuste / ci accontenteremo di obbedire a loro, o dovremmo cercare di modificarle e di obbedire finché non ci riusciamo, o le dovremmo trasgredire subito?» – vuole evidenziare il rapporto costante di crisi che ci fu tra Aaron e la società/sistema che aveva attorno.
Per nulla velate sono, anche, le accuse nei confronti del governo – che avrebbe voluto farne un “esempio”, per il suo insaziabile desiderio di controllo nei confronti del mondo degli hacker – e del MIT, che avrebbe tradito tutti i suoi principi.
Aaron dichiara, all’inizio del documentario, come crescendo si fosse reso conto che, nel mondo attorno a lui, ci fossero tante cose che andavano cambiate e che potevano essere cambiate, e che erano sbagliate e, quindi, dovevano essere per forza cambiate. Nel momento in cui ha capito quelle cose, ha capito anche che non si poteva più tornare indietro.
Il documentario insiste, nei primi fotogrammi, sulle immagini, e oggetti, che hanno caratterizzato l’infanzia di Aaron.
Da bambino viene ripreso con, spesso, in mano un libro; appare determinato, e con una curiosità senza fine. Legge, ma spiega anche, e questa voglia di spiegare è molto importante nei progetti che vorrà portare avanti da adulto. La madre ricorda che quando tornò a casa dalla sua prima lezione di algebra, la volle subito insegnare ai fratelli.
Non è, quindi, un caso che i suoi primi progetti, da bambino, riguardassero la programmazione – vista come “strumento magico” che avrebbe potuto risolvere i problemi che gli esseri umani non riuscivano a risolvere – e dei repository di conoscenza, dove chi sapeva poteva inserire informazioni, e altre persone potevano correggere eventuali errori o integrare quelle informazioni.
Fu allora naturale, anche se eccezionale, per lui entrare nella cerchia di programmatori e programmatrici che stavano sviluppando l’RSS attorno al lavoro e la guida di Tim Berners-Lee. Naturale perché l’RSS era proprio uno strumento che avrebbe consentito di recuperare sommari ed estratti di contenuti presenti su altre pagine web – si poteva usare, ad esempio, per i blog – per poi avere una sintesi sempre aggiornata di cosa stesse capitando sulle altre pagine e per creare una lista unificata dei contenuti che venivano man mano pubblicati.
Viveva, insomma, con un desiderio innato di raccogliere informazioni ma, anche, di ordinarle affinché fossero realmente fruibili da parte delle persone e, quindi, concretamente utili.
Anche perché, il collegamento tra le informazioni avrebbe portato, come conseguenza, il collegamento tra le persone e le loro menti.
Un’altra cosa che è rimasta di lui, ed è descritta chiaramente nella prima parte del documentario, è il suo mettere tutto in discussione: la scuola, la società, il business e un’idea arretrata di copyright che stava entrando in collisione, nei ragazzi della sua generazione, con la potenza di Internet e con i nuovi comportamenti che si erano diffusi.
Mise in discussione anche un’università importante come Stanford, dove si immatricolò, ma rimase solo un anno, e poi si scagliò contro quel mondo delle startup che lo vide protagonista subito dopo, con un progetto incredibile: lui e i suoi amici partirono da zero e, giorno dopo giorno, utente dopo utente, semplicemente scrivendo codice, crebbero sino a dar vita a un sito di importanza mondiale e ad attirare l’interesse e i fondi di un gigante dell’editoria. Ma la vita da milionario in California non gli piace, si trova male sin dal primo giorno di lavoro, trova l’ambiente chiuso – impazzisce quando l’azienda gli fornisce un computer dicendo che «non avrebbe potuto installarci nulla» – e capisce ben presto di avere altre aspirazioni, soprattutto politiche.
Aaron contestò in toto la Silicon Valley e il suo sistema, respinse il mondo del business, e vide Tim Berners-Lee come modello da seguire: una persona che aveva tra le mani una grande invenzione ma, invece di trarne profitto, aveva deciso di regalare il world wide web all’umanità.
In realtà, anche se il periodo di San Francisco è stato uno spartiacque importante, c’è continuità con quello che fece dopo: i nuovi progetti riguardarono, comunque, il facilitare e l’organizzare l’accesso alle informazioni pubbliche, la progettazione di grandi siti editabili con tecnologia wiki e partecipazione pubblica, l’ideazione di interfacce facili a uso di quelle persone che volessero accedere alle informazioni, la garanzia di un accesso pubblico ai materiali in pubblico dominio e un attacco costante alla strategia governativa di far pagare per la richiesta di copie di materiale pubblico.
Un aspetto non secondario dell’eredità di Aaron è, poi, come fare hacking del sistema politico, una cosa che si può fare soltanto se si ha una conoscenza accurata dell’intero processo legislativo e del funzionamento del sistema stesso. Fare hacking vuol dire, per lui, organizzare le persone con strumenti tecnologici, sostenendo bassi costi, con rapidità e intervenendo concretamente “liberando i documenti”. Per di più, stava facendo hacking del sistema in un periodo storico – di attivismo e di proteste – che era l’ideale per portare avanti, in tutto il mondo, determinate iniziative.
Una seconda fonte, molto importante per ripercorrere la vita di Aaron e per distillare le parti più interessanti del suo pensiero, è un libro di quasi quattrocento pagine, intitolato “The boy who could change the world”, che ha raccolto in lingua inglese, nel 2015, tutti gli scritti più importanti di Aaron.
Il criterio adottato nell’indice per ripercorrere la vita del giovane è molto significativo, e permette di comprendere in concreto quali siano stati i suoi temi di interesse e, quindi, in quali ambiti abbia contribuito maggiormente con la sua azione.
I curatori, in particolare, hanno individuato i temi della cultura libera, dei computer e della programmazione, della politica, dei media, dei libri e del conflitto con il sistema scolastico, come i punti essenziali della sua vita: quasi delle parole-chiave, o degli hashtag, che hanno connotato i suoi anni.
Il 29 dicembre 2015, uno scrittore, Malcom Harris, partendo dalla recensione di questo libro, pubblicò un articolo su The New Republic dove analizzò, in un certo senso, tutti gli scritti che Aaron aveva lasciato. Lo intitolò “Reading Everything Aaron Swartz Wrote”, e trasse delle conclusioni molto interessanti.
Vediamo, insieme, i passaggi più importanti di questo articolo, che fornisce nuove chiavi di discussione a diversi momenti cruciali dell’esistenza di Aaron.
Harris cerca, innanzitutto, di ricavare, da tutti gli scritti del giovane, dei canali interpretativi ben definiti.
Non conoscevo Aaron abbastanza da poter fare ipotesi su come si sarebbe sentito riguardo ai contenuti del libro con i suoi scritti – nota lo scrittore – ma lo conoscevo abbastanza bene, tanto che chiamarlo “Swartz” mi sembra sbagliato. Ci siamo frequentati forse una manciata di volte, mi ha intervistato per il suo podcast. Quando si è ucciso, credo di aver provato più dolore di quanto ne avessi diritto, e ho cercato di non pensare troppo a lui. Aaron era così dedito all’impegno civile, che mi è stato impossibile separare il mio senso di perdita personale da quello collettivo. Anche se non eravamo d’accordo su molte cose, mi sento ancora parte di quel noi che contava su Aaron, almeno per quanto riguarda la sua presenza. “Il ragazzo che poteva cambiare il mondo” è un libro difficile da recensire. Sviscerare il pensiero di Aaron sui media, o sui flussi di denaro in politica, è brutto, come criticare i fiori a una veglia funebre. Invece di organizzare gli scritti cronologicamente, o anche cronologicamente all’interno delle sue sezioni tematiche (cultura libera, computer, politica, media, libri e cultura, e unschool), l’editore di The Boy ha fatto la scelta, discutibile, di frammentare, e disperdere, il percorso intellettuale di Swartz. Saltando da Swartz quattordicenne a quello ventunenne a quello diciassettenne, è difficile capire quali idee stia assorbendo e quali si stia lasciando alle spalle. La raccolta non presenta Swartz come un pensatore la cui evoluzione è importante per il resto di noi da capire; è un progetto elegiaco su un giovane che aveva un buon cuore, un potenziale illimitato e voleva aiutare le persone. Se non fosse per l’occasionale riferimento al suicidio di David Foster Wallace, avvenuto qualche anno prima di quello di Aaron, un lettore che prendesse in mano il libro potrebbe chiedersi cosa gli sia successo.
Harris affronta, se pur sinteticamente, tutti i temi trattati in questa raccolta di scritti di Aaron. In particolare, sembra essere interessato, soprattutto, all’unschooling, ossia alle teorie di Aaron sui difetti del metodo educativo tradizionale e, al contrario, sull’efficacia dell’auto-formazione.
Avrei voluto – nota con un pizzico di polemica – che la raccolta iniziasse con la sezione finale sull’“unschooling”. Essa comprende gli scritti di Aaron dell’età di 14 anni, quando prende la decisione di abbandonare la scuola superiore per diventare autodidatta, nonché una conferenza di un decennio dopo, intitolata, semplicemente, “Scuola”, che più di ogni altro passaggio del libro evidenzia le capacità di Aaron come studioso e intellettuale. Il volume è un diario dell’auto-formazione di Aaron; si può vedere il suo cervello muoversi. Fin dall’adolescenza, Aaron ha preso in mano le redini della propria istruzione e i risultati sono impressionanti, oltre che affascinanti. Un incontro con un documentario di Noam Chomsky su Netflix lo manda in tilt, le note a piè di pagina di Foster Wallace si ritrovano nei post del blog di Aaron. Cercare di trovare un modo per mettere il suo talento al servizio del miglioramento del mondo è stato, per Aaron, una componente vitale della sua autoformazione.
Harris lo continua a vedere, però, come un eterno ragazzo, nonostante le sue attività abbiano cambiato, in tanti ambiti, il mondo. Ricorda il suo entusiasmo e la sua capacità di connettere persone.
Credo che uno dei motivi per cui Aaron sembra sempre un ragazzo – sostiene – è che era così aperto ed entusiasta di imparare, come raramente lo sono gli adulti, compresi e, forse, soprattutto, i cosiddetti “adulti colti”. Era geneticamente aperto a nuove informazioni, a fatti che non aveva mai sentito e ad angoli a cui non aveva mai pensato. L’educazione di Aaron era più vicina a quella che i greci chiamavano paideia – la formazione dell’attenzione, l’educazione di un cittadino – che alla versione moderna che la maggior parte di noi riceve. Grazie alle sue eccezionali capacità di programmazione, e a uno schermo dietro il quale si sentiva a suo agio, Aaron poteva seguire le sue passioni e i suoi interessi. Si pensi che ha fatto amicizia con lo storico Rick Perlstein, inviandogli un’e-mail all’improvviso, con l’offerta di un sito web gratuito.
L’accesso libero alle informazioni pubbliche fu il primo, grande ambito nel quale il giovane Aaron si sentì in dovere di intervenire. Questa idea si rivelò, ben presto, poca cosa rispetto ai problemi più importanti che Aaron aveva iniziato a intravedere nella società che lo circondava. Soprattutto la corruzione in politica.
La pubblicazione di informazioni pubbliche – ribadisce Harris – si adattava al talento di Aaron. Era una sorta di hacking dove, però, la legge non era qualcosa da eludere, bensì un altro sistema con vulnerabilità e scappatoie da individuare. L’immaginazione e l’attenzione ai dettagli di Aaron lo rendevano eccellente, ma la sua ambizione non gli avrebbe permesso di riposare sugli allori. Fornire accesso alle informazioni non sarebbe stato sufficiente per combattere la cospirazione di menzogne della destra. Ha provato ad aggregare i dati dei politici, poi a cercare di eleggere direttamente i candidati progressisti, ma nessuna delle due cose ha funzionato molto bene. A un certo punto, ha persino accarezzato l’idea di trovare finanziatori per una vasta cospirazione di sinistra. Ma il fallimento, per Aaron, era una parte necessaria del tentativo: l’unico modo per imparare.
Con riferimento ai guai giudiziari di Aaron, Harris espone alcune sue interpretazioni interessanti. Evidenzia, in particolare, la guerra legale che, a un certo punto, prese di mira il giovane, condizionandogli radicalmente la vita.
I procuratori – scrive – hanno sostenuto che Aaron scaricava file di documenti accademici per renderli pubblici: una tattica sostenuta nel Guerrilla Open Access Manifesto, un pezzo entusiasmante che non è attribuito solamente ad Aaron. L’editore suggerisce che potrebbe essere opera di più autori, il che mi sembra plausibile. In base a ciò che so di Aaron, non credo che questa fosse la sua intenzione. Sospetto che avesse intenzione di pubblicare solo il lavoro di dominio pubblico che veniva impropriamente tenuto dietro un paywall. Non credo che avesse intenzione di infrangere la legge, ma di aggirarla. Credo che ritenesse che questo fosse importante. In un certo senso, Aaron è un ammonimento per l’unschooling. Una delle lezioni che la scuola insegna è che le persone che fanno le regole non sono obbligate a seguirle. È una cosa che anche gli studenti più ribelli imparano, in un modo o nell’altro, ma Aaron ha cercato una serie di regole diverse e si è fatto strada fuori dalla scuola. Da un lato Aaron era felice della sua scelta, e si sentiva più coinvolto e a suo agio con i compagni online; dall’altro, ha dovuto sopportare una pericolosa lezione sulla navigazione nei sistemi burocratici. Molti studiosi di diritto ed esperti di tecnologia pensavano che Aaron si fosse attenuto alla lettera della legge, ma il sistema giudiziario penale è contrario al tipo di hacking che lui era solito praticare. Non so se abbia pensato di fuggire dal Paese, ma ne dubito. Forse, se fosse sopravvissuto per vedere Edward Snowden e la sua fuga dall’estradizione, le cose sarebbero state diverse.
Harris se la prende, nella parte finale del suo articolo, con tutti coloro che, dopo i fatti, si sono in un certo senso “chiamati fuori”. Critica, in particolare, Lawrence Lessig e il MIT.
Sono rimasto sorpreso – conclude Harris – quando ho visto il filmato di sicurezza di Aaron che entrava nell’edificio del MIT, con il casco da ciclista tenuto a malapena davanti al viso e i capelli che spuntavano ai lati. Avevo letto il Manifesto, ma non pensavo che rispecchiasse davvero le intenzioni di Aaron. Ero preoccupato per quello che poteva succedergli, ma non così tanto. Pensavo che avesse un sostegno istituzionale sufficiente a limitare la sua eventuale punizione a un buffetto. Ero, soprattutto, arrabbiato perché non aveva preso abbastanza sul serio quello che stava facendo; con un team, e un po’ di pianificazione, le autorità non sarebbero mai state in grado di collegare Aaron a quell’azione. Ma le operazioni segrete non erano uno dei suoi punti di forza, e non ha mai avuto la possibilità di imparare. Se faccio parte del noi che contava su Aaron, allora faccio anche parte del noi che lo ha deluso. Pensavo che le sue conoscenze, la sua credibilità e la sua reputazione lo avrebbero tenuto al sicuro, e forse lo pensava anche lui. Forse lo abbiamo convinto che un ragazzo come lui potesse cambiare il mondo, o almeno trovare sempre una via di fuga. Ma non c’è individuo che non possa essere eliminato se oltrepassa la linea sbagliata o, semplicemente, se incontra il procuratore sbagliato. Quando ho visto Lawrence Lessig, amico intimo di Aaron, mentore, stimato avvocato e professore di Harvard, prendere le distanze dalle azioni di Aaron dopo la sua morte, mi sono infuriato. In un post sul blog che denunciava il procuratore del caso di Aaron, Carmen Ortiz (di cui, in qualche modo, trascura di fare il nome), Lessig ha avuto cura di premettere che se ciò che il governo sostiene è vero, allora ciò che ha fatto Aaron è sbagliato. E se non è sbagliato dal punto di vista legale, almeno è sbagliato dal punto di vista morale. Le cause per cui Aaron ha combattuto sono anche le mie. Ma per quanto rispetti coloro che non sono d’accordo con me, questi pensieri non sono i miei. È stato vile, irrispettoso e ha isolato nuovamente Aaron nella morte. Era, il ragazzo, un tragico spreco, non un compagno ucciso o un martire. Dire che era mal consigliato serviva come scusa per non essere al suo fianco.