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I primi vent'anni - 5. Il sogno di una biblioteca aperta

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5. Il sogno di una biblioteca aperta


Man mano che si avvicinava all’età adulta, Aaron si rendeva conto di amare sempre di più i libri e la scrittura. Voleva scrivere. Voleva leggere. Voleva fare lo scrittore e il giornalista.

I libri, in particolare, li apprezzava in tutte le forme possibili. Fisici. Rilegati. Fotocopiati. Collocati nella libreria di casa – propria o altrui – e nelle grandi biblioteche pubbliche. Ma anche in “pdf” o in altri formati elettronici, stampati e impilati di fianco al suo comodino o in un armadio, a seconda del tema che lo appassionava in quel momento.

Aaron non riusciva a farsi piacere, invece, l’idea tradizionale di istruzione, di scuola, di accademia, di diffusione della conoscenza e di educazione.

Nonostante la frequenza, a intermittenza, di istituti scolastici da bambino, l’ammissione a Stanford – dove rimase, però, solo un anno –, la prestigiosa frequentazione degli ambienti e dei laboratori di ricerca del MIT e i numerosi inviti che ricevette quando divenne un programmatore famoso, mantenne sempre un rapporto molto conflittuale con l’autorità scolastica, i professori e gli ambienti educativi in genere.

In alcuni momenti di riflessione, e in alcuni periodi di crisi, Aaron manifestò dei ripensamenti – a volte, persino, dei rimpianti – su questi delicati argomenti.

Del resto, la sua passione per la lettura, la scrittura e per il metodo scientifico – nella sua idea, al centro vi era l’importanza della contestazione e della messa in dubbio di ogni concetto – doveva a forza incrociarsi, prima o poi, con l’ambiente accademico.

Fu durante il periodo critico di Reddit, e di San Francisco, che sul blog di Aaron iniziarono a essere pubblicati testi riflessivi su questo punto, indice chiaro di insoddisfazione e di voglia di cambiamento, e che meglio chiarirono la sua idea di università e di cultura pubblica.

La nostalgia, forse, per un percorso universitario interrotto, la vicinanza con Stanford e il periodo di crisi, nonché i molti coetanei che, in quel periodo, stavano frequentando – o avevano già terminato – importanti corsi di studi, gli fecero elaborare alcuni pensieri molto interessanti sull’università e sull’educazione.

L’occasione per avviare pubblicamente un dibattito su questi argomenti fu un breve viaggio che Aaron effettuò per andare a trovare un amico che frequentava il MIT.

Quei giorni trascorsi in quei celebri luoghi gli consentirono di guardarsi attorno, con calma, all’interno di quel campus.

Confessò, sul blog, che il periodo precedente, in cui si era dovuto concentrare per diversi mesi sul mondo delle startup – un comparto che vedeva come [p. 68 modifica]avido, estremamente pratico e poco riflessivo e teorico – gli aveva fatto rimpiangere spesso il mondo, a dire il vero sovente idealizzato, dell’università.

L’accademia, notava Aaron, vantava l’immagine comune e condivisa di luogo idilliaco, ricco di persone intelligenti. Un luogo che, sulla carta, era sempre stato, per lui, molto attraente, anche perché vi era la sensazione diffusa che, stando in un ambiente come quello, si potesse diventare più intelligenti semplicemente “per osmosi” e, soprattutto, ci si potesse immergere in un mondo di “continua geekness”: un luogo magico, scrive, dove gli hacker si ritrovano e si divertono, magari costruendo, nel tempo libero, sofisticatissimi robot. Ma erano considerazioni solo sulla carta, e che attraversavano i suoi pensieri di quel momento.


Non è che non mi piaccia il mio lavoro attuale – scrive Aaron sul suo blog – È solo che mi sembra di diventare, ogni giorno che passa, più stupido nel portarlo avanti. O, almeno, di non diventare, ogni giorno, sempre più intelligente come, invece, dovrei. Questa mia passione per il mondo accademico non è nuova. Per qualche motivo, però, in questo periodo la sento più forte. Ho iniziato a scaricare dal web tutti i programmi delle lezioni, e a fare i compiti di notte. Ho iniziato a pensare a come potermi intrufolare nei vari corsi, e come frequentare alcuni professori. A Cambridge, per di più, questo paradiso sembra così vicino. Così accessibile. Eppure – continua il ragazzo – non è affatto un paradiso. Quando sono stato in università, il conformismo diffuso, la mancanza d’interesse per il lavoro vero e proprio, le lotte politiche interne e gli incarichi inutili mi hanno fatto passare la voglia. Ho un appuntamento a pranzo con un laureato: mi racconta delle liti interne al campus, dell’eccessiva specializzazione, degli alti tassi di abbandono, dell’insicurezza diffusa tra gli studenti. Torno, poco dopo, negli uffici del consorzio W3C, e mi affaccio al balcone. In basso, vedo Tim Berners-Lee che discute con un gruppo di ragazzi i dettagli di un progetto che, presumibilmente, hanno accettato da portare avanti come lavoro estivo. Una volta, ero io uno di quei ragazzi. Uno di quelli che lavoravano lì. E penso, in quel momento, al motivo per cui me ne sono andato, e perché mi manca quell’ambiente. Ormai mi meraviglio dell’inutilità e dello spreco. Sono stanco. Mi sento più triste, e mi chiedo come ho fatto a perdere così tanto, così in fretta. Voglio provare nostalgia. Voglio avvertire la sensazione che ci sia un luogo, a un paio di fermate di metropolitana da me, dove tutto andrà bene. Un luogo migliore. Un luogo in cui dovrei essere. Un luogo in cui posso tornare. Ma – anche solo visitandolo – i fatti sono evidenti. Questo luogo non esiste. Non è mai esistito. Provo nostalgia, in sostanza, di un luogo che non è mai esistito.


La scelta del college, che è uno dei momenti chiave nel percorso educativo di ogni adolescente nordamericano, fu, per Aaron, piuttosto problematica.

Quando venne il momento di individuare la scuola più adatta per lui, la sua famiglia volò a Cambridge, nel Massachusetts, e visitò l’Università di Harvard.


È un campus sontuoso ed elegante – ricorda Aaron sul suo blog – L’istituzione scolastica gode di una reputazione eccezionale. Il quartiere è uno dei più [p. 69 modifica]affascinanti del mondo. Eppure, durante il tour dell’università, non ci hanno evidenziato tutti questi aspetti. Ci hanno parlato, un po’, di John Harvard, e del 1700; poi hanno trascorso la maggior parte del tempo a dirci quanto fosse bella la “settimana dello shopping”, in cui si potevano provare diversi corsi per un paio di lezioni.


Anche a Chicago Aaron non trova un ambiente che lo entusiasmi particolarmente.


Il mese successivo ho visitato l’Università di Chicago – continua – Chicago ha la reputazione, in tutto il mondo, di essere una scuola con delle idee molto autorevoli: sembra che in ogni campo di ricerca esista una “Scuola di Chicago”. Ma, dal tour che ci hanno organizzato, non si direbbe: l’unica volta in cui si è parlato di studio vero e proprio è stata quando un ragazzo ha riferito di aver sentito dire che l’Università ha una reputazione da “studenti sempre col naso a terra”. «Beh», ha risposto la guida, «puoi lavorare sodo, se vuoi». E poi è tornato a parlare del programma sportivo del campus.


In realtà, del mondo universitario ad Aaron interessano, e sono sempre interessate, le persone:


La vera ragione per cui voglio andare in un’università – e quella che, a ben vedere, sembra interessare anche tutti gli altri – è la gente. Voglio recarmi in un luogo pieno di persone come me, ma più intelligenti. Un posto dove non si può fare a meno d’imparare. La frase chiave è, quindi, “persone come me”. Voglio conoscere com’è la “cultura” di quel determinato campus. Se si volesse generalizzare ingiustamente, si potrebbe dire che le persone ad Harvard sono snob, quelle a Stanford sono pigre e quelle al MIT sono nerd. La realtà è che, con la possibile eccezione del MIT, che vende specificamente dell’abbigliamento “nerd pride”, nessuno di questi luoghi informa su questo aspetto. Dopo tutto, il pubblicizzare troppo la propria individualità allontana una parte del gruppo d’interesse. Anzi, è proprio questo il punto!


Se il mondo del college, e dell’accademia in generale, gli sollevavano tutti questi dubbi e ripensamenti, Aaron ha le idee più chiare nei confronti dei libri e delle biblioteche, suoi grandi amori sin dai tre anni di età.

Questa passione lo porta ad avviare un progetto che chiama “Open Library” e la cui idea originaria risale al 2007, quando aveva ventun anni: perché non trasformare l’attuale Internet in un’enorme biblioteca che contenga informazioni su ogni libro?

Una biblioteca da navigare, da correggere in tempo reale, da alimentare costantemente grazie allo sforzo di tutti.

È un tipico progetto alla Aaron: vi è l’idea di “pubblico”, di “liberare il sapere” dalle biblioteche come erano strutturate allora ma, anche, l’interesse comune per il raggiungimento di un risultato simile. La rete sarebbe stato lo strumento principe per garantire la libertà, in questo caso, di tutti i libri. [p. 70 modifica] E se ci fosse una biblioteca – s’immagina Aaron sul suo blog – che possa contenere ogni libro pubblicato? Non solamente ogni libro in vendita, od ogni libro ritenuto importante, e neppure soltanto ogni libro in una determinata lingua ma, semplicemente, ogni libro. L’intera eredità culturale del nostro pianeta.


Una volta lanciata la proposta, Aaron inizia a elaborare, da un punto di vista logico e informatico, i passaggi necessari per concretizzarla. E ha le idee chiare.


Per prima cosa – scrive – questa biblioteca deve essere, ovviamente, su Internet. Non esiste, al mondo, uno spazio fisico che sia così grande, o universalmente accessibile, come lo potrebbe essere un sito web aperto a tutti gli utenti. Il sito si presenterebbe proprio come Wikipedia: una risorsa pubblica, accessibile a chiunque, in qualsiasi Paese e che altri utenti potrebbero rielaborare in formati differenti. In secondo luogo, la biblioteca che ho in mente deve essere completa. Comprenderebbe le indicazioni bibliografiche provenienti da ogni biblioteca esistente ma, anche, da ogni editore e, persino, da ogni utente occasionale della rete che volessero condividerle con altri. Questo sito web sarebbe collegato a portali commerciali dove ogni libro potrebbe essere acquistato/venduto, preso in prestito o scaricato. Il sito prenderebbe la forma, anche, di una raccolta di recensioni, citazioni, discussioni e di ogni altro dato, e informazione, riguardante quel libro. Ma la cosa più importante è che una biblioteca simile dovrebbe essere completamente aperta. Non solo una biblioteca “gratis per tutti”, com’è scritto a caratteri cubitali all’ingresso della Carnegie Library di Pittsburgh, ma un vero prodotto di tutti, che consenta, a chi ne abbia la voglia, di creare, e curare, il suo catalogo, di contribuire al suo contenuto, di partecipare alla sua gestione e di avere accesso completo, e libero, ai suoi dati. In un’epoca in cui i dati delle biblioteche, e le banche dati in rete, sono gestiti dietro “porte chiuse” da aziende a scopo di lucro, diventa oggi più importante che mai essere veramente aperti.


In concreto, partendo dalle idee di Aaron, il processo di costruzione di questa Open Library ruotò attorno a una pregevole iniziativa già esistente, denominata “Internet Archive”: si trattava di un progetto che riuniva, a San Francisco, un piccolo ma agguerrito gruppo di persone molto interessate a simili possibilità.

L’avvio fu estremamente dinamico: i fondatori recuperarono una copia del catalogo della Library of Congress ed effettuarono decine e decine di telefonate ai responsabili di case editrici per chiedere loro i dati relativi ai libri pubblicati.

Contestualmente alla raccolta dei dati di libri, i primi soci pensarono a come creare un’infrastruttura completamente nuova, che fosse in grado di ospitare una banca dati e che potesse processare milioni di schede.

Decisero di progettare il codice di questo sito web utilizzando, e aggiornando, la tecnologia wiki: ogni singolo utente avrebbe potuto inserire, così, dati già strutturati.

Il tocco finale fu la progettazione di un motore di ricerca per il sito e la previsione di un’interfaccia grafica che fosse semplice e piacevole alla vista e all’uso. [p. 71 modifica]

Il progetto che stava per nascere si collegava direttamente all’idea di digitalizzazione alla base dell’iniziativa Internet Archive, che aveva il fine di rendere possibile ai cittadini la lettura del testo integrale di tutti quei libri che ormai non erano più protetti dalla normativa sul copyright e che potevano, così, essere resi disponibili al mondo.

Il futuro prevedeva, anche, l’aggiunta di una funzione di print-on-demand: si sarebbe potuta ottenere una copia a stampa dei libri digitalizzati e, persino, uno scan-on-demand. Anche tutti i libri ormai non protetti da copyright e, quindi, non più stampati o non più interessanti per gli editori, avrebbero potuto “rivivere” una seconda giovinezza in forma fisica.

Il codice sorgente della piattaforma sarebbe stato aperto, così come le liste di discussione del progetto, al fine di dar vita a una comunità molto vivace attorno a quella idea originaria.

La data ufficiale di partenza della Open Library, con una vera e propria chiamata alle armi sul web, fu fissata per il 16 luglio 2007.


A quindici anni di distanza dal lancio, Open Library vive ancora, e in buona salute, sul web.

I numerosi aspetti innovativi ideati da Aaron sono stati apprezzati da tantissimi utenti, e hanno attraversato gli anni opportunamente adattandosi al cambiamento della rete.

Aaron voleva, innanzitutto, apertura e completezza dei dati. Questa sua ossessione per avere sempre a disposizione tutti i contenuti non si presentava come un obiettivo facile per un mondo come quello dei libri e, soprattutto, degli editori.

Esigeva, poi, che la “sua” biblioteca aperta fosse raggiungibile anche da quelle persone che non potevano accedere a biblioteche tradizionali, e che presentasse i contenuti con caratteri, modalità e formati che avrebbero permesso anche a disabili, anziani e persone con problemi alla vista di recuperare i libri e di leggerli. Infine, voleva dare la possibilità a chiunque di pubblicare un libro anche al di fuori dei sempre più complessi canali editoriali tradizionali.

Il tutto doveva avvenire in un ambiente di comunità, collaborativo, di modo che tutti potessero essere coinvolti nel miglioramento del progetto e nella sua crescita.

Tutti dovevano sentirsi parte di qualcosa di grande. Tutti dovevano impegnarsi per migliorare le schede dei libri che più avevano amato. Tutti dovevano operare creando nuovi collegamenti tra i dati e le schede, tra i libri e gli autori, tra le citazioni e le note. Tutti dovevano digitalizzare il più possibile delle opere. Solo raggiungendo questi obiettivi, secondo Aaron, l’umanità avrebbe contribuito a fornire un accesso universale alla conoscenza. [p. 72 modifica]

Open Library è ancora sul web, e presenta, ogni giorno, nuove iniziative, soprattutto in collaborazione con scuole e università di tutto il mondo e con qualche editore particolarmente lungimirante.

Risulta evidente, oggi, come l’intero progetto racchiuda l’amore per i libri, per la scienza e per la condivisione dei contenuti che caratterizzava Aaron sin da bambino. Questi temi rimarranno una costante per tutta la vita di Aaron, anche quando abbandonerà, in parte, la programmazione per entrare nel mondo dell’attivismo tecnologico e politico.