Agamennone (Alfieri, 1946)/Atto secondo
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ATTO SECONDO
SCENA PRIMA
Clitennestra, Egisto.
non piú di speme; or di tremare è il tempo.
Fortuna, i Numi, ed i placati venti
guidano in porto a piene vele Atride.
Io, che sgombrar potea d’Argo poc’anzi,
senza tuo rischio almen, senza che macchia
la tua fama ne avesse, or dal cospetto
fuggir dovrò del re; lasciarti in preda
a sua regal dispotica possanza:
e andarne, io non so dove, da te lungi;
e di dolor morire. — A che ridotto
m’abbia il soverchio tuo sperare, or mira.
Cliten. Reo di qual colpa sei? Perché fuggirti?
Tremar, perché? Rea ben son io: ma in core
soltanto il son; né sa il mio core Atride.
Egisto Verace amor, come si asconde? il nostro
giá pur troppo è palese. Or come speri,
ch’abbia a ignorarlo il re?
Cliten. Chi fia che ardisca
svelarlo al re, pria di saper se avranne
d’infame avviso o guiderdone, o pena?
Tu di corte i maneggi empj non sai.
Soglionsi appor falsi delitti spesso;
qualor n’è offeso il suo superbo orgoglio. —
Io dal timor scevra non son; ma in bando
posta del tutto dal mio cor la speme
non è perciò. Ti chieggo sol per ora,
non mel negare, Egisto, un dí ti chieggio
di tempo, un dí. Finor credea il periglio
lontano, e dubbio; indi al rimedio scarsa
mi trovo. Lascia, che opportuno io tragga
dell’evento il consiglio. I moti, il volto
esplorerò del re. Tu forse in Argo
starti potresti ignoto...
Egisto In Argo, ignoto,
io di Tieste figlio?
Cliten. Un giorno almeno,
sperare il voglio; ed a me basta un giorno,
perch’io scelga un partito. Abbiti intanto
intera la mia fe: sappi, che pria
ferma son di seguir d’Elena i passi,
che abbandonarti mai...
Egisto Sappi, ch’io voglio
perir pria mille volte, che il tuo nome
contaminar io mai. Del mio non parlo,
che ingiusto fato a eterna infamia il danna.
Deh, potess’io saper, ch’altro che vita
non perderei se in Argo io rimanessi!
Ma, di Tieste io figlio, insulti e scherni
d’Atride in corte aspetto. E che sarebbe,
se di te poscia ei mi sapesse amante?
È ver, ne avrei la desíata morte;
quanto infame, chi ’l sa? Sariati forza
infra strazj vedermi; e in un dovresti
da quell’orgoglio insultatore udirti
acerbamente rampognar; quand’egli
piú non facesse. — A paventar m’insegna
il solo amor; tremo per te. Tu dei
lascia che oscuro io pera: al mio destino,
qual ch’ei sia, m’abbandona: eterno esiglio
mi prescrivo da te. L’antico affetto
rendi al consorte tuo: di te piú degno
se amor nol vuol, fortuna, i Numi il vonno.
Cliten. Numi, ragion, fortuna, invano tutti
all’amor mio contrastano. O a’ miei preghi
tu questo dí concedi, o ch’io co’ detti
ogni pietosa tua cura deludo.
Incontro a morte, anco ad infamia incontro,
io volontaria corro: al fero Atride
corro a svelar la impura fiamma io stessa,
ed a perdermi teco. Invan divisa
dalla tua sorte speri la mia sorte:
se fuggi, io fuggo; se perisci, io pero.
Egisto Oh sfortunato Egisto!
Cliten. Or via, rispondi.
Puoi tu negare ad amor tanto, un giorno?
Egisto Chieder mel puoi? Che far degg’io?
Cliten. Giurarmi,
di non lasciar d’Argo le mura, innanzi
che il sol tramonti.
Egisto A ciò mi sforzi? — Io ’l giuro.
SCENA SECONDA
Elettra, Clitennestra, Egisto.
l’orgoglio, e queto il rio mugghiar dell’onda.
Nostra speme è certezza: in gioja è volto
ogni timore. Il sospirato porto
per afferrar giá stan le argive prore;
e torreggiar le antenne lor da lungi
si veggon, dense quasi mobil selva.
genitor vive. Odo, ch’ei primo a terra
sulla spiaggia balzò; che ratto ei muove
ver Argo, e giá quasi alle porte è giunto.
O madre, e ancor quí stai?
Cliten. Rimembra, Egisto,
il giuramento.
Elet. Egisto esce fors’anco
ad incontrare il re dei re con noi?
Cliten. Punger d’amari detti un infelice,
ella è pur lieve gloria, o figlia...
Egisto Il nome
d’Egisto spiace a Elettra troppo: ancora
d’Egisto il cor noto non l’è.
Elet. Piú noto,
che tu nol pensi: all’accecata madre
cosí tu il fossi!
Cliten. Il fero odio degli avi
te cieca fa: ch’ei di Tieste è figlio,
null’altro sai di lui. Deh! perché sdegni
udir quant’egli è pio, discreto, umíle,
degno di sorte e di natal men reo?
Conscio del nascer suo, d’Argo partirsi
volea pur ora; e alla superba vista
del trionfante Agamennón sottrarsi.
Elet. Or, che nol fece? a che rimane?
Egisto Io resto
per poco ancora; acquetati: l’aspetto
d’uom che non t’odia, e che tu tanto abborri,
al nuovo dí tolto ti fia dagli occhi
per sempre. Elettra, io lo giurai poc’anzi
alla regina; e l’atterrò.
Cliten. Qual duro
cor tu rinserri! Or vedi; al crudo fiele,
onde aspergi tuoi detti, ei nulla oppone,
che umiltá, pazíenza...
i rari pregi ad indagar non venni.
A farti accorta del venir del padre,
il mio dover mi trasse; a dirti a un tempo,
che d’ogni grado, e d’ogni etade, a gara,
con lieti plausi festeggianti in folla
escon gli Argivi ad incontrarlo. Io pure
del sospirato padre infra le braccia
giá mi starei; ma di una madre i passi
può prevenir la figlia? i dolci amplessi,
a consorte dovuti, usurpar prima?
Omai che tardi? andiamo. In noi delitto
ogni indugiar si fa.
Cliten. Ti è noto appieno
del mio cor egro il doloroso stato;
e sí pur godi in trafiggermi il core,
con replicati colpi.
Elet. Il sanno i Numi,
madre, s’io t’amo; e se di te pietade
albergo in seno: amor, pietá mi stringe
a quanto io fo: vuoi, che d’Egisto al fianco
ti trovi il re? Ciò che celar tu speri,
col piú tardar, palesi: andiamo.
Egisto Donna,
ten prego, io pur; deh! va; non ostinarti
in tuo danno.
Cliten. Tremar non potrei tanto,
se a certa morte andassi. Oh fera vista!
Orribil punto! Ah! donde mai ritrarre
tal coraggio poss’io, che a lui davante
non mi abbandoni? Ei m’è signor: tradito
bench’io sol l’abbia in mio pensier, vederlo
pur con l’occhio di prima, io no, nol posso.
Fingere amor, non so, né voglio... Oh giorno
per me tremendo!
Elet. Oh per noi fausto giorno!
Rimorso senti? omai piú rea non sei.
Egisto Rea fosti mai? Tu il tuo consorte estinto
credesti; e, di te donna, a me di sposa
dar disegnavi mano. Un tal pensiero
chi può a delitto apporti? Ei, se nol dici,
nol sa. Tu non sei rea; né a lui davanti
tremar dei tu. Vedrai, ch’ei piú non serba
rimorso in sen della tua uccisa figlia.
Di securtá prendi da lui l’esemplo.
Elet. O mortifera lingua, osi tu il nome
contaminar d’Atride? Andiam, deh! madre;
questi gli estremi fian consigli iniqui,
che udrai da lui; vieni.
Cliten. Giurasti, Egisto;
rimembrati; giurasti.
Egisto Un dí rimane.
Cliten. Oh cielo! un dí?...
Elet. Troppo ad un empio è un giorno.
SCENA TERZA
Egisto.
ben altrimenti Egisto: e il mio profondo
odio, il vedrai, non è di accenti all’aura
vani; il tremendo odio d’Egisto, è morte.
Abbominevol stirpe, al fin caduta
sei fra mie man pur tutta. Oh qual rammarco
m’era al cor, che dell’onde irate preda
fosse Atride rimaso! oh, di vendetta
qual parte e quanta mi furavan l’onde!
Vero è, col sangue loro avrian suoi figli
l’esecrando d’Atréo feral convito
espiato, col sangue: avrei tua sete
se tutto no, cosí compiuto in parte
il sanguinoso orribil giuramento...
Ma, che dico? Il rivivere del padre,
scampa i figli da morte? — Ecco il corteggio
del trionfante re. Su via, si ceda
a stolta gioja popolare il loco.
Breve, o gioja, sarai, — Stranier quí sono
ad ogni festa, che non sia di sangue.
SCENA QUARTA
Popolo, Agamennone, Elettra, Clitennestra, Soldati.
d’Argo mia: quel ch’io premo, è il suolo amato,
che nascendo calcai: quanti al mio fianco
veggo, amici mi son: figlia, consorte,
popol mio fido, e voi Penati Dei,
cui finalmente ad adorar pur torno.
Che piú bramar, che piú sperare omai
mi resta, o lice? Oh come lunghi, e gravi
son due lustri vissuti in strania terra
lungi da quanto s’ama! Oh quanto è dolce
ripatriar dopo gli affanni tanti
di sanguinosa guerra! Oh vero porto
di tutta pace, esser tra’ suoi! — Ma, il solo
son io, che goda quí? Consorte, figlia,
voi taciturne state, a terra incerto
fissando il guardo irrequíeto? Oh cielo!
pari alla gioja mia non è la vostra,
nel ritornar fra le mie braccia?
Elet. Oh padre!...
Cliten. Signor;... vicenda in noi rapida troppo
oggi provammo... Or da speranza a doglia
sospinte, or dal dolore risospinte
a sí diversi repentini affetti.
Elet. Per te finor tremammo. Iva la fama
dubbie di te spargendo orride nuove;
cui ne fean creder vere i procellosi
feroci venti, che piú dí lo impero
tenean del mar fremente; a noi cagione
giusta di grave pianto. Al fin sei salvo;
al fin di Troja vincitor tu riedi,
bramato tanto, e cosí invan bramato
da tante lune, e tante. O padre, al fine,
su questa man, su questa man tua stessa,
su cui, bambina io quasi al partir tuo,
baci infantili impressi, adulti imprimo
or piú fervidi baci. O man, che fea
l’Asia tremar, giá non disdegni omaggio
di semplice donzella: ah no! son certa,
piú che i re domi, e i conquistati regni,
spettacol grato è al cor d’ottimo padre
il riveder, riabbracciar l’amata
ubbidíente sua cresciuta prole.
Agam. Sí, figlia, sí; piú che mia gloria caro
m’è il sangue mio: deh, pur felice io fossi
padre, e consorte, quant’io son felice
guerriero, e re! Ma, non di voi mi dolgo,
di me bensí, della mia sorte. Orbato
m’ha d’una figlia il cielo: a far quí paga
l’alma paterna al mio ritorno appieno,
manca ella sola. Il ciel nol volle; e il guardo
ritrar m’è forza dal fatale evento. —
Tu mi rimani, Elettra; e alla dolente
misera madre rimanevi. Oh come
fida compagna, e solo suo conforto
nella mia lunga assenza, i lunghi pianti
e le noje, e il dolor con lei diviso
avrai, tenera figlia! Oh quanti giorni,
Ed io pur, sí, tra le vicende atroci
di militari imprese; io, sí, fra ’l sangue,
fra la gloria, e la morte, avea presenti
voi sempre, e il palpitare, e il pianger vostro,
e il dubitare, e il non sapere. Io spesso
chiuso nell’elmo in silenzio piangeva;
ma, nol sapea che il padre. Omai pur giunge
il fin del pianto: e Clitennestra sola
al mesto aspetto, al lagrimoso ciglio,
piú non ravviso.
Cliten. Io mesta?...
Elet. Ah, sí; di gioja,
quand’ella è troppa, anco l’incarco opprime,
quanto il dolore. O padre, or lascia ch’ella
gli spirti suoi rinfranchi. Assai piú dirti
vorria di me, quindi assai men ti dice.
Agam. Né ancor d’Oreste a me parlò...
Cliten. D’Oreste?...
Elet. Deh! padre, vieni ad abbracciarlo.
Agam. Oreste,
sola mia speme, del mio trono erede,
fido sostegno mio; se al sen paterno
ben mille volte non ti ho stretto pria,
non vo’, né un solo istante, alle mie stanche
membra conceder posa. Andiam, consorte;
ad abbracciarlo andiam: quel caro figlio,
che a me non nomi, e di cui pur sei madre;
quello, ch’io in fasce piangente lasciava
mal mio grado partendo... Or di’: cresc’egli?
Che fa? somiglia il padre? ha di virtude
giá intrapreso il sentier? di gloria al nome,
al lampeggiar d’un brando, impazíente
nobile ardor dagli occhi suoi sfavilla?
Cliten. Più rattener non posso il pianto...
Elet. Ah! vieni,
egli è; mai nol lasciai, da che partisti.
Semplice etá! spesso egli udendo il padre
nomar da noi: «Deh, quando fia, deh quando,
ch’io il vegga?» ei grida. E poi di Troja, e d’armi,
e di nemici udendo, in tua difesa
con fanciullesco vezzo ei stesso agogna
correre armato ad affrontar perigli.
Agam. Deh! piú non dirmi: andianne. Ogni momento
ch’io di vederlo indugio, al cor m’è morte.