Adone/Nota al testo/16. La grafia mariniana e l'uso dell'h

16. La grafia mariniana e l'uso dell'h

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16. La grafia mariniana e l'uso dell'h
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[p. 796 modifica]16. - La grafia mariniana e l’uso dell’h

La grafia mariniana si allinea ai più noti modi cinquecenteschi, come la doppia consonante dove il latino ha, prima del suffisso -tio, una labiale o una velare (attione) o la z semplice invece dell’attuale doppia quando è sonora (mezo). I criteri di trascrizione potrebbero dunque contenersi alla normalizzazione delle h (huomo, anhelante), alla distinzione di u e v (haueua), alla distinzione delle serie nazione/azzione (dove l’originale ha natione/attione) e rozo/sozzo (ancora utile, almeno in un caso, a rivelare a colpo d’occhio la pertinenza di certi «razzi» [ XII 181, 3], da leggersi con z sorda, non ai fuochi d’artificio ma agli arazzi). In ultimo la risoluzione di et e della sigla & in e/ed secondo i casi.

All’atto pratico, tuttavia, il raffronto della trascrizione normalizzata coi fogli originari finisce con l’affacciare più d’un dubbio. Nel caso dei nomi propri, ad esempio, certe h iniziali, certi digrammi etimologizzanti esercitano, a ben guardare, non una neutrale funzione grafica ma un diffuso fascino letterario, esornativo ed esotico. Più che ricorrere alla notissima apologia di cui l’H andò debitrice a Ludovico Ariosto si potrà invocare certo recentissimo Manganelli: «La nostra preferenza, che rasenta l’amore, va alla lettera “h”, solitario, ectoplastico, inafferrabile effato, fonico nulla, che, da minuscola simulerà il destriero destinato a portarci fin sulle soglie dell’H maiuscola, taciturna e definitivamente accogliente».

Che non si tratti solo d’un privato miraggio pare testimonino certe oscillazioni mariniane, come, subito al primo canto, quella Harmonia sorella d’Amore' che serba l’H etimologica (Ἁρμονία), di fronte a una più umile armonia, nome comune, che a distanza d’una ottava la perde (I 35-36). Tifi nocchiero d’Argo, ora è Tifi ora Thifi, e qui l’h non trova giustificazione nemmeno etimologica (Tiphys): ma che a Thifi Marino ci tenesse risulta almeno dall’errata-corrige, dove un Trifi del proto (XII 274, 5) è appunto corretto Thifi, non Tifi (come, già che ci s’era, si sarebbe potuto). Thosco, aggettivo, è grafia tradizionalmente alternativa a Tosco, e Marino la preferisce almeno in due casi (XI 119 e [p. 797 modifica] XX 2 io) (non certo in funzione diacritica rispetto al sostantivo tosco, « veleno », per che l’iniziale maiuscola soccorrerebbe ad abundantiam). Ancora: fra due grafie etimologiche possibili. Marino sceglie Rhea (XIX 99 » 5). forma piú rara, coniugandola alla serie Rhodano Rheno ecc., cui solo eccezionalmente si deroga (p. es. a VI 57, 6 « Reni onde ’1 maggior Reno [sic, per attrazione evidente] a l’altro cede *). Al canto X, poi, un lungo elenco di nomi illustri mostra curiose alternanze di esattezza etimologica (Thamira, Thrasone, Scithe, Timotheo, ma Terpandro, Tirteo, Tubai, Etolo, Trittolemo) e di trasgressione (Thirreno, da Tyrrhenus, Pantasilea, da Penthesilea). Notevole il Theophrasto (X 157), interamente etimologico anche nell’isolato ph (Amphion , p. es., dá nel Marino Anfione, anzi: il Thebano Anfione ; e Tisiphone, addirittura, Thesifone [XII 28], quasi per un trapasso dell’/» da un digramma all’altro).

Va aggiunto che, in un gruppetto di casi, dietro il fenomeno grafico, paiono nascondersi ragioni anche fonetiche. Per gli dèi del monte Cinto — Cinthio e Cinthia — par quasi certo che il Marino avesse presente la pronuncia Cintio, Cintia, e non quella attuale {Cinzia). Intanto, abbastanza stranamente, l’A del digramma etimologico è conservata nel nome delle due divinitá ma non in quello del monte, la cui grafia, quale compare in due casi (III 112 e XIX 392), è Cinto. Ma si consideri poi un verso come questo (III 133, 6):

e ’/ Giacinto, ch’a Cinthio accese il core,

in cui pare proprio di cogliere una allusione alla affinitá elettiva del giovinetto e del dio, per mezzo d’un preziosismo fonico (Giacinto-Cintio) che, nella dizione Cinzio, si perderebbe.

Sulla dizione di Parthia non pare sussistano dubbi; ma su quella di Scithia ? Ci si trova sulle sabbie, né par lecito attendersi dal Marino una coerenza funzionale, soprattutto in questa sede dei nomi propri, sensibile alle provocazioni esornative non meno che ai modelli etimologici. Si veda ancora il caso di Absinthia (XX 90, 4) ancella di Diana, dunque amara come l’assenzio. L’assenzio, nell’ Adone, c’è (XIII 257, 6), scritto assentio. C’è anche (XIX 368, 5) Vabsinthio, di cui cento poeti si coronano per i funerali d’Adone (la forma eletta si adatterebbe alla gravitá del momento?). Ora, questo absinthio, sará da pronunziarsi absinzio o absintioí Se ci si orienta su quest’ultima dizione, potremo notare che nell’ottava interessata si stabilisce un gioco di allitterazioni [p. 798 modifica] sulla stessa dentale (Con occhi molli e languidi e dimessi / le Muse afflitte e con turbata, faccia / cinte il crin di mortelle e di cipressi / una gran lira d’or tirano a braccia. / Seguon d’absinthio incoronati anch’essi / cento Poeti la medesma traccia / e di dogliose e querule elegie / fanno per tutto risonar le vie), non solo: ma che analogo gioco allitterativo dirama intorno ad Absinthia (Absinthia cruda, Antifila sagace), come sfuggirebbe quando si trascrivesse Absinzia. Né maggiori lumi può recare un’isolata Orithia (I 115, 8), se il nome di questa Nereide nemmeno oggi trova concordi (chi è per Orizia chi per Oritia chi per Oritia, in cospetto del greco ’QpeMhjia), e nemmeno, si direbbe, il mar di Carpatho, lo Carfiathio mar (XVII 99, 1), dato che almeno il contesto fonico — anche qui — parrebbe indurre una pronunzia Carpatio (Per lo Carpando mar Triton la trac eia / di Cimothoe ritrosa allor seguiva).

Ma sulla grafia, e sulla ortografia, del Marino, parrá non inutile ascoltare, a conclusione, lo Stigliani, alla « tavola settima * dell’Occhiale.

Gli errori che si commettono nell’ortografia son tutti barbarismi grammaticali, non consistendo in altro, che nella falsa pronunzia. Ma l’ortografia dell’autore [cioè del Marino] può piú tosto che barbera, chiamarsi giannizera, non essendo se non uno innesto dell’antica colla moderna, o per meglio dire, un bastardo mescuglio dell’una e dell’altra, nato dal non saper bene, né quella, né questa. Anzi pure è una terza cosa dissomigliante da esse due, come la licisca è dissomigliante dalla cagna e dal lupo, che le fur padri. Conciossiecosa che egli usi alcune doppiezze e semplicitá di lettere ed alcune alterazioni e cambiamenti di quelle, non mai piú usati da altri scrittori. Scrive peccora per pecora, riccorrere per ricorrere, croccinolo per crocinolo, terrone per verone, duaggio per duagio, sollenne per solenne, colla per colá, boccino per bacino, abbaccinato per abbacinato, ciottola per ciotola, emblemtna per emblema, lezzo per lezo, Acchille per Achille, cinnabro per cinabro, truppa per trupa, ruzzare per ruzare, reggia per regia (se bene a questa il Petrarca raddoppiò una g per rimare). Scrive rossignuolo per rosignuolo credendo imperitamente, che venga da rossigno toscano, e non da lusciniòla lat[ino] diminutivo di luscinia, e pronunziato lungo da’ Barberi; sicome ancora lusinga toscano, che vien da esso luscinia, non si dice lussinga. Scrive riccamo per ricamo derivandolo da ricco, e non da rechamus, cappanna per capanna derivandolo da cappa, Fiammingo per Fiamingo derivandolo da fiamma, e Dannubbio per Danubbio, derivandolo da danno, ad imitazione (questi ultimi due) d’un mio madrial burlesco. Scrive allo ’ncontro bolino per bollino, machina per macchina, proferire per profferire, pifaro per piffero, galeria per galleria, tapeto per tappeto, e cosí tapezzare e tapezzaria per tappezzare e tappezzeria, rugine per ruggine, sfacciatagine per sfacciataggine, impetigine per impctiggine, inumidire per innumi[p. 799 modifica] dire, inanimire per innanimire, ed altre voci simili. Scrive acciecare per accecare, nuotare e nuotatore per notare e notatore, Gesú per Giesú, Gerusalemme per Gierusalemme, suburnare per subornare, miscuglio per mescuglio, reverire per riverire, assecurare per assicurare, desperare per disperare, dopò per dopo, per gli per per li, imperadrice per imperatrice, allevadrice per allevatrice, corridrice e precorridrice per corritrice e precorretrice, podadore per potadore, madrigna per matrigna, choro per coro, thesoro per tesoro, danio per daino, zanio per zaino, e somiglianti. Scrive di piú Giardino colla prima maiuscola, e Nume, e Garzone, e Vecchio e Giovane, e sí fatti altri nomi appellativi, che deono ordinariamente andar tutti con minuscola, se bene in alcune occorrenze la regola ha eccezzione, come si vedrá nella mia grammatica. Il modo del puntare è casuale, e per lo piú falso, segnandosi il periodo per membro, il membro per inciso, e l’inciso per periodo: di che non accade esempio, possendosi vedere in ogni foglio. 1 quali errori dell’ortografia e del puntare, perché non son sí proprii di questo poema, che non siano communi a tutte l’altre opere dell’autore, voglio che s’intendano essere annotati anco per quelle.

Documento, per molti versi, eccezionale, e che va letto intatto nel suo pittoresco disordine, negli scatti d’umore, nell’accatastare le prove come vengono (tranne i corsivi e un moderato sfoltimento della non gravosa interpunzione, i nostri interventi di trascrittori si sono limitati alla correzione di un lapsus : « macchina per machina », dove l’ordine va capovolto). Non insisteremo su quanto v’è detto in merito a maiuscole e punteggiatura. Ma dovremo almeno rilevare quel choro e quel thesoro, che in area stiglianesca potevano giá essere avvertiti come tic mariniani, tutt’altro dunque che mimetizzati in un preteso uso corrente.